Il Mare d'inverno
cinque vedute di città
Prologo
"Parlare del mare d'inverno"
Siamo ancora noi due su questa riva
ad ascoltare il sommesso brusio
delle onde calme sulla banchina
e lo schiocco della risacca
sui gradini della scaletta
che s'immerge profonda nell'abisso.
Siamo, ad ascoltare il nostro
commosso parlare di speranze,
di rimembranze, di vita vissuta
oppure negata, di bellezza,
e di tradimento, di rispetto
e di pianto: ci siamo accanto.
Siamo così, la mano dell'una
racchiusa in quella dell'altra,
come l'ostrica nelle sue valve,
tenaci, certe, vitali. Così come
la mente abbraccia la mente
(e due parentesi custodiscono un pensiero)
Non si odono ora i gridi dei gabbiani
rifugiati tra le zolle dei campi,
il sentore acuto del salso
ristagna nelle piccole cale
in attesa di esser disperso
tra le vie e le corti e le case.
Pigramente, tintinnano le sartie
delle barche alla fonda, dormienti.
Le spaventose tempeste d'estate
sono dimenticate, ora è il tempo
delle nebbie fugaci, in cui smarrire la rotta,
e dei silenzi che annunciano neve.
Quando scende la neve poi, sul mare,
è strano vedere i fiocchi uno a uno
annegare, senza alcun grido, o lamento.
Vorremmo salvarli, afferrarli,
lasciarli posare sul palmo, contenti,
dove spirerebbero presto in una goccia di brina.
Ma oggi è il sole, che ci confonde
all'orizzonte, in una precoce effimera festa
di tinte pastello, profuse in un dipinto,
dove il cielo si versa nel mare,
e l'illuminazione stradale crea costellazioni
che vibrano nel nero riflesso dell'acque.
Andiamo, passo passo, lungo la riva,
ad ogni passo misurando il pulsare
del nostro respiro: nell'umido freddo
il fiato s'addensa, parlando del mare:
il mio sbuffo incontra il tuo, piccolo soffio
innocente, e in esso si fonde.
Entrambi infine svaniscono, confusi,
avvinghiati sopra le trepide onde.
(Trieste, 14 Dicembre 2013)
I
Joyce
Forse cento volte transitò su questo ponte
il poeta del viaggio dall'anima all'Uomo.
Forse cento volte osservò distratto le barche
che s'azzuffano ancora scosse dal vento forte
e forse il suo sguardo si posò cento volte
sul volto fiero della ragazza che traversa
ora in fretta la piazza, sulle agili caviglie.
Quanto son belle e ardite, forse pensava allora,
le caviglie di queste donne, così snelle, ma salde,
come colonne tornite nel marmo, puntelli di grazia,
e com'è affascinante il loro passo,
quand'è sicuro, eretto, scandito dal suono deciso
del tacco sul selciato. Forse, seguendo quel passo
egli fantasticava di possederne, un giorno, il corpo.
Forse cento volte acquistò un soldo di castagne
roventi al carretto fermo al capo della piazza,
prima di svoltare nella via, verso il portale
sorvegliato da angioli liberty anneriti dai fumi
della città, e ogni volta aveva indugiato titubando
ai gradini dell'entrata, non sapendo decidersi
se varcare la soglia tra l'amore promesso
e il compromesso. Si girava allora un istante ancora
col pretesto di sbucciare un frutto annerito, e restava
ad ammirare e invidiare la libertà incosciente d'un piccione
che si lanciava ad ali chiuse a capofitto dalla cornice
del tetto per piombare veemente sulla compagna in attesa.
Perché un poeta, alla cui genìa sapeva di appartenere,
doveva perdere ore di vita e di voli, per la sua pena?
La ragazza intanto, e la sua gloriosa gonna fluttuante,
si allontanava nella via verso il tempio, dove terminava
il luccicare del Canale, e si infilava in un uscio nero
dalle grate di ferro brunito. E fu perduta per sempre.
Intanto nei viali si attizzavano i lumi, per accogliere
la notte che s'avvicinava, e il mare, poco lontano,
mormorava il suo svagato pensiero, nel respiro della marea:
La città era la donna, e il vento le sollevava la gonna.
Il suo volto era quello pallido e duro del Castello,
la sua voce e il canto erano le campane che scompigliavano
gli stormi dei gabbiani, come le chiome chiare agitate,
liberate in quel vento, e il suo sguardo blu cielo
era la luce del faro, a sentinella dell'intera baia d'argento.
Il portone si chiuse infine alle sue spalle con un tonfo d'ottone,
il poeta, con le sue visioni al fianco, salì solitario le scale.
(Trieste, 15 Dicembre 2013)
II
Saba
Chiamami a te, quando vuoi, giovane vecchio,
e attendimi, in cima all'erta esposta al vento
del nordest che non perdona, ululìo cupo di rami.
La stradina discende diretta al mare, nero e bianco
di spuma come il mosto nel tino, vena di sassi
che scorticavano le mie ginocchia da piccola
saltafossi che ero, allora, nelle estati scatenate:
fanciulla, così simile a uno dei fanciulli da te
troppo amati, corti capelli corvini e occhi di pece.
La donna ch'era in me, e che tu pur avresti ammirato
e teneramente amato, premeva già prepotente il petto
e il pullover e la gonna plissé segnata di pece di scoglio.
Le braccia chiare, scoperte, non esili, ma sode,
da ondina già esperta, senza la minima ombra
alle ascelle, ti avrebbero fatto sognare, più avanti,
nelle tue lunghe pause di meditato silenzio
così fecondo di voraci parole, e di arditi pensieri.
Pensieri alti come quei gabbiani alti all'orizzonte,
liberi, come quei passeri, quei colombi, quegli storni
che popolano il tuo mondo d'innocenza, di strepiti e voli.
Densi, come i volumi dal dorso consunto sugli scaffali.
Chiari, come altrettanti soli ardenti sulle marine aspre
di salso e di scogli, dove noi riposammo, fanciulle,
come sirenelle bruciate dal sole, dal riso, e dall'incanto.
Tu scrivente fosti testimone di quest'essere pure e vitali,
e ammirasti la nostra pelle di alabastro, invincibile
al desiderio, inespugnabile fortezza dell'innocenza.
Ora alle erte e ai declivi rimane solo il vento, e il mare,
alle schiere di libri il mistero inalienabile delle storie,
agli uccelli e alle fanciulle il canto e l'inerme purezza.
Tutto è diverso, e tutto è eguale, nel tempo, la bella città
riposa sul tuo grembo e tu, indulgente suo sposo,
le carezzi il capo con la dolcezza dei tuoi infiniti pensieri.
(Trieste, 17 Dicembre 2013)
III
Rilke
Il mare è vorace, qui, come un ragazzo
che gusta l'amore la sua prima notte:
si avventa sulla scogliera con ardore folle,
e l'addenta con furia al collo alle labbra al seno.
Il mare risale verticale la rocca
in progressione vertiginosa, e al colmo qui s'impenna
al vento che accoglie l'onda e ne scompiglia la chioma
verdazzurra strappandole ciocche di schiuma d'alba chiara.
La tempesta qui è attesa, quasi evocata, invocata, mai temuta,
mentre le notti di bonaccia inquieta, quando ogni anima
e ogni cosa qui raggela, lascian cadere la luna nell'acqua
come un volto pallido abbacinato che annega di abbandono.
Che rimbombo, che ruggito fanno le onde assieme
spezzando gli ormeggi nella cala! Nel silenzio teso
denso d'attesa, invece, la donna abbandona la sua veste
di pietra bianca, e pallida, nuda, risale la diroccata torre.
Sola, folle di rabbia, folle di desiderio, folle di ardore,
la donna spalanca le sue braccia, offre il suo corpo illeso
alla vendetta, e alla nebbia salmastra che l'investe
inondandole il viso della voglia, del bisogno di vita estremo.
Per questa voglia nel vuoto ella si getta,
a raggiungere il suo mare, il suo amante, il suo sposo,
per unirsi a lui per sempre e divenire infine
onda bianca tra le bianche disperate onde
dal vento imprigionate tra le sponde della baia.
(Trieste, 18 Dicembre 2013)
IV
Svevo
La via svoltava stretta,
poi scendeva ripida verso la riva
affollata di genti e di faccende
odorosa di vino, di salso e di fritto.
Io ero la ragazza dall'esile collo
e la camicia di seta che custodiva
stretto il petto magro sotto i merletti,
e le chiome raccolte sotto il cappello
di paglia, sghembo: la ragazza bruna
che il poeta seguiva con sguardo stanco
dietro il fumo azzurrino della sigaretta
e che avrebbe volentieri chiamato per nome
...se solo il mio nome avesse saputo.
Angiolina era già nella sua mente, sebbene
mai forse avesse conosciuto una ragazza
che a quel nome rispondesse, ma di certo,
sovente aveva incontrato una fanciulla
com'ero io allora, con quel collo alabastro,
quel vergine petto, e quegli occhi
fieramente agitati di mare e di vento.
I quartieri eleganti del Borgo, e quelli straccioni
della Città Vecchia, si fondevano affollati fitti
accosti al porto, e le immense carene nei bacini,
esponevano i ventri nudi al sole, lustri di colore.
Tutto questo era ciò che lo tratteneva
prigioniero in quei luoghi, catene di sangue
e di ferro incrostato di ostriche e coralli,
come le àncore piantate nella fanghiglia del fondale.
Ma più ancora legato lo teneva
la Femmina ch'egli amava e bramava
sopra ogni cosa, ogni convenienza, ogni ragione,
lei che era forte e fiera come la bora di primavera.
Vi era nelle sue provate membra il peso greve
della indecisione, dell'inettitudine all'azione,
dell'ipocrita sua lussuria, e sola lo salvava
la sua candida voce di poeta, libera e inquieta.
Egli sapeva che v'era un solo luogo, al mondo,
dove il paesaggio, gli edifici, le navi dell'uomo
e le donne dai capelli di vento si fondevano
in un'unica onda marina, per travolgere il tempo.
Mai, in vita, avrebbe lasciato egli quel luogo!
(Milano, 19 Dicembre 2013)
V
Marin
Il sale del tuo mare impregna l'arenile
della piccola isola vissuta da sempre
di umile orgogliosa pesca
e reti calate sui bassi fondali
e rari villeggianti di finestate.
Lungo la costa nascosta e tra i canneti
vengono a nidificare gli aironi
e le folaghe delle paludi, giunte
da chissà quale contrada lontana,
e i gabbiani si contendono a gridi
l'imboccatura del minuscolo porto
ingombro di pingui bragozzi
immobili e pigri agli ormeggi
come i vecchi color rame
ozianti alle porte delle osterie.
Contemplando da qui il cielo
e contemplando il mare,
rivelare al mondo quant'essi
siano gemelli, azzurri entrambi
al mattino, e chiari come i tuoi occhi;
e la notte carichi di stelle
che paiono scintille, ovvero
lucenti di fiammelle, lampare
e lune, come costellazioni
d'uno sconfinato astrolabio.
La voce e il canto di queste onde
raggiungono le lontane sponde
dei più alti sensi umani,
questa voce raccoglie il Poeta
tra le sue mani e le disperde al vento.
Il vento vigoroso di queste terre,
asciutto come il vino delle vigne aspre
delle colline di gesso e calce:
il vento porta in sé quel canto,
e lo eleva come un calice santo.
(Milano, 15 Gennaio 2014)
Epilogo
Miramare autunnale
Il parco era silenzioso
nel pigro pomeriggio dell'Ottobre,
godeva di quella luce giallo oro
che era l'ultimo suo incanto
prima che precipitasse la densa sera
e poi il precoce livore invernale.
Vi era, diffusa nell'atmosfera
una quiete che pareva innaturale,
come una sorta di svagata attesa
che sommergeva ogni cosa,
ogni scoglio che indugiava a riva,
ogni uccello che cercava un suo nido.
Erano anni giallo oro loro stessi,
quelli in cui io bambina correvo i viali
ramificati come radici sprofondate
verso il mare. E il mare, laggiù,
che tanto spesso ribolliva di vento,
era allora una vibrante lastra di metallo.
Com'erano simili i percorsi,
e le visioni, e i suoni, e il profumo
delle essenze aspre e dolci immerse
nel sentore agro del salso
diffuso dal vento lieve, e l'orizzonte
che prometteva infinite distanze.
Le distanze rassicuranti, familiari
dell'arco di quel golfo, con i leggiadri spettri
di bianche alture a chiudere la scena.
Com'era sempre identico quel sole
che si prendeva cura dei bimbi
che giocavano vociando attorno alla fontana;
E com'era sfolgorante la pietra
della torre merlata del castello,
orgogliosa della sua aristocratica
ineffabile vaghezza. E i richiami
delle mamme nel loro aspro-tenero dialetto
quant'erano simili a quelle del mio tempo!
Eppure nulla è rimasto ciò che era.
L'erbe sulle morbide aiuole d'un tempo
sono ispide ora, scompigliate,
bruciate dal vento e dall'oblio,
radici affiorano dalla terra già corrose
come mani scorticate dal precoce gelo.
Non v'è più un solo cigno rimasto
nel laghetto, un tempo così sognante,
ora incanutito di foglie morte e alghe;
non danzano più i ditischi e le idròmetre
sul pelo dell'acqua contaminata,
dove languono rade foglie di ninfea.
Il bordo del sentiero cede al passaggio,
disgregandosi sotto ogni passo;
nel fondo, dietro i pini che si sporgono
sulla scogliera, il castello di sasso bianco
appare, posseduto da un rimorso acre;
gli oleandri - impoveriti - gli reggono il manto.
Il ricordo è un sottile diaframma di dolore
che riveste ogni cosa d'una patina dorata.
Tutto rifulge nel tempo, e tutto scade,
tutto si erode, tutto trapassa: eppure io,
le gambe nude raccolte tra le braccia
su queste rive sento d'essere infinita
nell'infinito ciclo della rinnovante vita.
Marianna Piani
Chamonix, 24 Dicembre 2013
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