«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

domenica 26 agosto 2018

Fine dell'estate




Amiche care, amici

questi versi li scrissi quasi un anno fa, mentre su un Lago Maggiore già autunnale scendeva una pioggia leggera e densa, come quella che oggi, in un luogo e un tempo che pare infinitamente diverso, vedo depositarsi sui rami degli alberi davanti alla mia finestra.
A quel tempo ero in attesa, ansiosa, intensa, di qualcosa che pareva ancora tanto lontano, quasi irraggiungibile, e in effetti c'erano mesi di lavoro, preparazione e organizzazione, e danaro, e piccoli o grandi disagi burocratici e  logistici che mi aspettavano prima di arrivare al momento di quella attesissima partenza.
In più ero da sola, la mia compagna era impegnata qui, nella preparazione di un giro di concerti, e riuscivamo a comunicare solo con brevi whatsapp, senza dirci nulla che potesse essere davvero significativo per i nostri cuori, come spesso accade quando si vorrebbe dire tutto, significare tutto, e i pensieri si accavallano lasciandoci solo a balbettare del tempo e dei baci che avremmo voluto darci.

Ma ci bastava, perché ormai il tempo delle incertezze e dei dubbi era finito, e l'attesa del bello in fondo è qualcosa che rende la vita degna di essere vissuta.

(Nota a margine, oggi, 26 Agosto 2018:
attendevo un felice, volontario esilio, nulla di nemmeno lontanamente paragonabile alla solitudine e alla disperazione di uno di questi migranti che tanti di noi malsopportano, quando non apertamente odiano, eppure mi viene ora da pensare che chi non ha mai provato in prima persona cosa vuol dire, anche felicemente, in piena libertà e con tutti gli agi, lasciare il proprio Paese, non potrà mai capire davvero quanto di sofferenza, di disagio, di solitudine, di dolore questo comporti.)

Con amore

M.P.







Fine dell'estate


Come muore l'estate, dentro me,
in questi giorni ancor lunghi, d'attesa,
e queste notti di silenzio teso
mentre - desta - ti so tanto distante.

Piogge improvvise, copiose, profumano
di terra intrisa l'aria: prima indugia
un tepore opprimente, uterino,
e un lavacro di colpe inesistenti.

Poi, un freddo vento discende la valle
disperdendo le nubi, e in qualche parte
la mia disperazione: non sei qui
al tuo posto, al mio fianco, sopita:
 

ma almeno l'amara pioggia è finita.
Attendo il sole, che sempre ritorna.



Marianna Piani
Nebbiuno, 20 Settembre 2017


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domenica 19 agosto 2018

Silenzio, perché




Amiche care, amici,

Ho scelto, in questi giorni difficili e tristissimi, di rimanere in silenzio.

- In silenzio!

Mi riferisco, ovviamente, alla terribile prova cui è sottoposta la città di Genova, e con lei tutto il nostro sfortunato Paese.
Sfortunato, perché, tanto per dirlo con chiarezza fin da queste prime righe, si trova proprio in queste circostanze “governato” da una nuova nomenklatura politica che, alla scarsa – per non dire nulla – carica etica del passato aggiunge di suo un apporto originale di incompetenza, velleitarismo, arroganza e falsità come mai se ne era visto prima, dal dopoguerra ad oggi.

La mia scelta, in ogni caso, è stata di silenzio, su questo dolorosissimo argomento, fin dai primi minuti, come dichiarai, non per polemica, ma per motivi di opportunità (da non confondere con l'opportunismo) e di puro e semplice rispetto.
Rispetto nei confronti di quei tanti, troppi, che hanno subìto il danno più atroce e irrimediabile (la loro vita, o la vita di un parente, di un amico, di un compagno, di un figlio, di un amore), e di una intera città che in questo modo improvviso, repentino, in pochi attimi ha subìto una ferita profonda, terribile, per sanare la quale ci vorranno anni, forse decenni.

Non è che non avessi qualcosa da dire al riguardo, che non avessi le mie opinioni, in particolare nei confronti di tutto un circo mediatico e socialmediatico che si è immediatamente scatenato, di certe dichiarazioni che in un “paese normale” in bocca a importanti esponenti istituzionali sarebbero considerate del tutto irricevibili, se non irresponsabili e anche, in certi casi, criminalmente pericolose.
No, ho scelto il silenzio per i motivi che ho accennato sopra, e anche perché oggi, in questo – per certi versi davvero inopinabile – quadro di comunicazione “impazzita” il silenzio credo rappresenti davvero un atto di coraggio, un andare controcorrente, in modo significativo, perfino radicale, anche volutamente stridente.

E non è facile, non è per nulla facile, perché siamo immersi in una tale tempesta di stimoli, di provocazioni, anche di aggressioni vere e proprie, che il mantenerci “zitti” ormai pare avere il valore di una manifestazione di “non violenza”, come un digiuno Gandhiano, mi si passi il paragone certo estremo, ma non così peregrino come si potrebbe pensare.

Di fronte a tutto questo strepito, a volte anche giusto, per carità, ma più spesso inutile, insensato, aggressivo, intitolandosi competenze inesistenti o immaginarie nei campi più vari, cercando semplificazioni estreme di eventi in sè estremamente complessi, e processi sommari, capri espiatori da gettare in pasto alle folle inferocite, davanti a questo rumore assordante azzittirsi è un esercizio di disciplina difficile e impegnativo. Ma doveroso.

Per quel che mi riguarda, di fronte a una tragedia come questa, che coinvolge persone del tutto a caso, con tutta la crudeltà ineffabile della dialettica infinita tra vita e morte, facendoci capire tutti che la soglia, il baratro, QUEL baratro di centro metri sopra il nulla, può sempre spalancarsi sotto i piedi di ognuno di noi, in qualsiasi momento, il silenzio rimane l'unica scelta ragionevole, razionale e sincera.

Silenzio, riflessione, pensiero, e rispetto.
Questo è tutto ciò che, non essendo un Vigile del Fuoco o un Sanitario o un Ingegnere, ed essendo fisicamente lontana, potevo e DOVEVO fare.

Un silenzio che ovviamente coinvolge anche queste pagine, le mie paginette personali, che pochi, scelti amici hanno la bontà di seguire, e lo fa, simbolicamente ma non troppo, rinunciando a “pubblicare” - al di là di questo piccolo sfogo, destinato a quei pochi di cui sopra – qualcosa di mio.

Ho pensato invece di pubblicare (spero data la occasione così delicata di non infrangere con questo un Diritto d'Autore, peraltro sacrosanto) una delle più belle poesie di uno dei più grandi Poeti del Novecento, Giorgio Caproni: Livornese, ma cresciuto a Genova, che spesso di Genova scrisse versi indimenticabili e di un livello assoluto, inarrivabile.
La trascrivo integralmente, perché come in ogni Poesia Assoluta ogni verso, ogni singolo verso è unico e indispensabile.

Una poesia scritta con una ispirazione assoluta, con una raffinatezza inimitabile nel gioco dei metri e rime, intrisa di una profondissima malinconia e di una vitalità sensualissima, un incrocio di sensazioni così tipico e unico di quel Poeta, e anche di quella Città: un ritratto musicale, venato di una perfetta armonia di suoni, di ritmi, di odori, di sapori, un ritratto di una Città magnifica (io l'ho visitata spesso, in passato, ricavandone sensazioni e memorie che sono depositate nel mio cuore. E anch'io attraversai quel disgraziato ponte, più volte) che voglio dedicare con tutto il cuore e con tutto il mio amore alla Città di Genova, ferita ma non doma, e ai suoi Cittadini.
Grazie.

M.P.
Kilkenny, Irlanda, 19 Agosto 2018





 All alone: Epilogo


Era una piccola porta
(verde) da poco tinta.
Bussando sentivo una spinta
indicibile, e a aprirmi
veniva sempre (impura
e agra) una figura
di donna lunga e magra
nella sua veste discinta.

La notte con me entrava,
sùbito, nella cinta.
Salivo di lavagna
rosicata una scala,
né mai ho saputo se era,
a spegnere la candela,
il nero umidore del mare
o il fiato della mia compagna.

Avevo infatti una cagna
(randagia) che mi seguiva.
L'intero giorno dormiva,
disfatta, fra i limoni,
ma nottetempo (carponi
e madida) mi seguiva
bagnandomi, con la saliva,
la punta delle dita.

Forse era la mia vita
intera, che mi lambiva.
Ma entrato oltre la porta
verde, mai con più remora
m'era accaduto che Genova
(da me lasciata), morta
io già piangessi, e sepolta,
nel tonfo di quella porta.

Eppure, io piansi Genova,
l'ultima volta, entrato.
Il giorno non era nato
ancora, e campane
a gloria (forse era festa
d'anima, e di ressurrezione)
m'empivano la testa
col vento della costernazione.

Salita della Tosse
scandivano ragazze rosse.
Ragazze che in ciabatte
e senza calze (morse
al calcagno e alla nuca
dimagrita dal dente
di quell'ora impellente),
andavano, percorse
da un brivido, sulla salita
che anch'io facevo, solo,
già al canto d'un usignolo.

Genova di tutta la vita
nasceva in quella salita.
Seguivo i polpacci bianchi
e infreddoliti, e inviti
veementi, su dal porto
che si sgranchiva, netti
salivano dal carbone,
che già azzurro di brina
brillava, sulla banchina.

Entrai, non so dir come,
spinto da quel carbone.
Ma a un tratto mi sentii senza
più padre (senza più madre
e famiglia, e vittoria),
e, solo, nella tromba
delle scale, indietro
mi ritorsi, la tomba
riaprendo della porta
già scattatami dietro.

Che fresco odore di vita
mi punse sulla salita!
Ragazze ormai aperte e vere
in vivi abiti chiari
(ragazze come bandiere,
già estive, balneari),
sbracciate fino alle ascelle
scendevano, d'arselle
e di cipria un odore
muovendo a mescolare
l'aria, dal Righi al mare.

Avevano le braccia bianche
e le pupille nere.
Con me un carabiniere
come le stava a guardare!

Mi misi anch'io a scendere
seguendo lo sciamare
giovane, e se di tende,
bianche fino ad accecare,
già sentivo schioccare
la tela, ahi in me sul mare
le lacrime - ahi le campane
verdi d'acqua stormente
nel mio orecchio, e in mente
ancora la piccola porta
(verde, e da poco morta),
cui più con tanta spinta
potevo nel ventilare
del giorno, ormai, bussare.



(Giorgio Caproni)

(Dedicato a Genova Ferita
a Genova Straziata
Agosto 2018)
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sabato 11 agosto 2018

Santandrea




Amiche care, amici,

per chi non conosce Trieste, la mia (cara) città natale, dirò che il Passeggio di S.Andrea, detto familiarmente da noi indigeni "santandrea" ("Dove te va ogi, che xe cussì bel [tempo]?" "Vado a santandrea. Te vien anche ti? se prendemo un gelato de Viti [Vitti, rinomato bar-gelateria]"), è tutt'ora un piccolo parco alberato, adiacente a una villa ottocentesca, in cui generazioni di bambini, dagli anni 50 in poi ma anche prima, accompagnati dalle famiglie, venivano, da primavera all'autunno inoltrato, a giocare nel largo piazzale con vista sul grande scalo ferroviario sottostante e di una parte del porto commerciale, mentre i genitori, in particolare le mamme si rilassavano sotto i grandi platani secolari, incontrandosi a "ciacolare" (chiacchierare) ai tavolini di uno dei due Bar qui localizzati.
Ci ho passato tutta l'infanzia, dal momento che abitavo proprio in quella zona, a poche centinaia di metri, e qui quando frequentavo le scuole - dalle elementari al liceo - venivo a studiare quando il clima si faceva abbastanza caldo da rendere piacevole la permanenza (sempre meglio che chiusa in casa, io sono sempre stata refrattaria al chiuso).
Nei miei viaggi più recenti in quella città, non manco mai di passare da quelle parti, per farvi due passi, senza nostalgie particolari, ma provando sensazioni ancora vive di appartenenza: i luoghi dell'infanzia in realtà non ci lasciano mai, sono "dentro" di noi. Tanto più che, nonostante siano passati molti anni da quei primi ricordi, nulla sembra cambiato, nei luoghi e perfino nelle persone che vi si incontrano.
Questa che segue è, come una vecchia fotocolor un po' sdrucita, l'immagine dei miei primi ricordi legati a quei luoghi, misteriosamente depositati nella mia anima, per sempre…
Lo stile della scrittura, come si conviene, è semplice e antico: vuolsi così dall'autrice…

Con amore
M.P.






Santandrea


Qui venivo, da bimba, a giocare,
a tracciare sull'asfalto linee col gesso
o con una pietruzza di calcare,
e così creare le mura immaginarie
di un palazzo, o di un castello,
il maniero del mio piccolo regno.

Oltre il parapetto potevo osservare
pigri convogli di ferrovia muoversi
lenti in maestosi rituali, come
una distesa di dorsi bovini occupati
a pasturare la metallica valle.
E il fischio di una motrice chiamava.

La strada, più sotto, percorsa in fretta
da automezzi e veicoli commerciali
mi era interdetta, ma non ci pensavo:
pareva un fiume che schiuma
tra rocce e bitume, senza riposo.
cadervi sarebbe stato mortale

per una bimba qual ero: indossavo,
ricordo, una gonnellina scozzese
e una maglietta, bianca come neve.
Il nastro tra i capelli, rosso, rosa,
o giallino, era il mio piccolo orgoglio.
La donna che era già in me gioiva

di piccolissime cose;
tenere frivolezze della vita

e un corpicino di sogni e avventure.

Marianna Piani
Trieste, 30 Ottobre 2017

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sabato 4 agosto 2018

Una donna, all'angolo delle mura



Amiche care, amici,

un breve quadretto, si potrebbe dire "impressionista", un ritratto d'ambiente, tracciato una sera non particolarmente felice; la cronaca di un incontro fuggevole e senza storia avuto in un angolo nascosto nella parte più antica della mia città, già ritratta da Saba con quella malinconia lieve e scevra di ogni crepuscolarismo che è il suo segno distintivo, inimitabile.
Sono questi incontri del tutto casuali, e istantanei, destinati a risolversi nel tempo di uno sguardo, spesso nemmeno ricambiato, ma che possono renderci la vita degna, infine, di venir vissuta.
E non è la bellezza che colpisce, non solo quella almeno. È la sensazione di uno spirito saldo e libero: come un faro per un navigante, emette una luce riconoscibile, di salvezza.



Vi lascio alla lettura, amiche dilette e amici, come sempre, tcon amore.
 

M.P.





Una donna, all'angolo delle mura

 

È sera.
Con alcuna certezza, mi ritrovo
con il favore dell'ombra
su questo cammino, sono
come una gatta esperta
che s'insinua senza il pur lieve
rumore tra i detriti
e i rifiuti del vicolo nascosto
tra le mura decrepite, odorose
di urina e sterco e muschio;
una lucertola si stana
e fugge in una crepa.

Non so se questa mia
saggezza mi avvantaggi,
oppure mi deprima,
vorrei essere forte e saggia
e invece tremo, tremo
dentro me, tremo
per l'azzardo d'esser nata,
d'essere donna, e viva,
e mi chiedo
cosa mai mi trattenga ancora
in questo angustiante mondo.




II

Mi attrae una donna, ora.
lì a ridosso delle antiche mura,
ferma in piedi con l'aria
concentrata e sicura,
mi attrae la sua bellezza
audace e impura,
mi dice quel suo corpo
teso e la sua postura
inarcata sull'anca
come un'arpa

d'essere in qualche modo
disposta al piacere
e forse al sogno.

Oh, subito io correrei ,
correrei da lei senza
alcuna esitazione,
tanto la sento forte
e sicura - di sé,
e della sua fascinazione!
Mi abbandonerei
alle sue braccia, candide
e salde, e lascerei
che facesse di me
ciò che vuole,
che mi portasse via
con sé, via dal mondo,
via da me,
via da ogni dove!




Marianna Piani
Trieste, 30 Giugno 2017





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mercoledì 1 agosto 2018

Le Stagioni



Amiche care, amici,

ci volle un anno intero perché il primo infiammarsi del desiderio si mutasse in amore espresso, riconosciuto, finalmente agito.
Un anno di incertezza, di delusioni e di riaccensioni repentine, di paure irrazionali e di irragionevoli colpi di gioia. Un anno d'ansia e di esaltante attesa, speso in una spasmodica ricerca una dell'altra, fuggendoci a ogni pretesto, soffrendo nel dubbio e riscaldandoci nella certezza.

Occorre un immane spinta, un trasporto che mai si ritrova nel vivere comune, un desiderio bruciante che quasi accieca, per arrivare tra due persone a quell'atto ultimo e primario che rende possibile la vita e se ne infischia di ogni ragionevolezza.

Poi, se si ha fortuna, come io l'ho avuta, intendo la fortuna che il desiderio di possedere corrisponde al donarsi per intero, allora, finalmente, inizia l'amore…

M.P.






Le Stagioni


Ti ho incontrata in un campo di viole
a primavera, ti ho ritrovata
sotto la pioggia di fine novembre
come un'ombra fuggevole di bruma
e ti ho seguita - così, ciecamente.

Ti ho colta in cima alle vette innocenti
d'agosto, nella tempesta che investe
le mie pareti di vetro, e ho gridato
aiuto, a te che non udivi, e a lungo
ti ho creduta dispersa nella foschia:

ignuda in quel gennaio di ghiaccio
spietato e candido, come un pensiero
soffiato sopra un sentiero di morte.
Oh, come vorrei a volte
essere stata altrove.

Eppure infine ti ho ritrovata
al volgere di un rosso maggio in fiore,
l'ultimo rimasto dell'innocente
tua primavera, prima che io tentassi
il dolce nettare della tua rosa.

Venisti allora con me nell'estate
della nostra bellezza, e sfolgorò
l'aurora ai nostri comuni pensieri.
S'infiammarono le notti di tutti
i nostri benedetti atti impuri.




Marianna Piani
Milano, 7 Novembre 2017


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