«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

martedì 29 dicembre 2015

Les Parisiennes de Kiraz








Per questo scorcio di fine anno, care amiche e amici, torniamo dunque a Parigi, dimenticando per un attimo ciò che accadde ahimé poche, pochissime settimane fa...

Una Parigi innamorata, lieve, piovosa, profumata di bistrot, di Gauloises ("Liberté Toujours": io odio il fumo, ma come non associare Parigi con queste spaccapolmoni dal motto irrinunciabile), di Chanel, di Senna, di Rive Gauche, e illuminata dalla luce delle meravigliose Gallerie del d'Orsay, del Louvre…

La Parigi che amiamo, che adoriamo, la Parigi dove io, se potessi, sceglierei di vivere per sempre, dove appena posso mi precipito (così vicina in fondo com'è da Milano: poche ore di treno veloce), la Parigi dell'Arte, della Libertà, della Speranza, il Sogno, l'Utopia per una Europa Illuminata, Umanistica, Umanizzata…
E poi il suono di quella lingua rotonda, dolcissima, così incredibilmente differenziata tra la elegante virilità del tono maschile e la tendresse, la sensualità affascinante di quello femminile.

Dite che stravedo, che idealizzo, che dico banalità e romanticherie stereotipate? Sarà così. Ma io a queste "romanticherie", mie care, non rinuncerei mai. In barba a tutti i barbuti truci profeti,  integralisti, moralisti, terroristi del mondo!

Parigi la voglio simbolicamente "vivere" qui con voi - per un attimo - attraverso il pennello, delizioso, personalissimo ed elegantissimo, di un genio dell'illustrazione come Kiraz.
Nelle sue "vignette", apparentemente del tutto disimpegnate, sexy, frivole, venate di un erotismo dichiarato e a volte prorompente, secondo me si respira in pieno l'atmosfera di questa straordinaria, unica città.
Una città è fatta non solo dall'architettura, dal suo passato, ma innanzi tutto, nel presente, dalle persone che vi nascono e vivono. Le donne di Parigi sono davvero inconfondibili, e parlo di oggi, non di un più o meno lontano passato. Chiunque abbia visitato o visiti questa città con un occhio attento non può non può confermare.
E le ragazze di Kiraz non "rappresentano" Parigi: esse "sono" Parigi…

 

Amiche dilette, amici carissimi,

un anno nuovo, meraviglioso, a voi, con tanto, tanto amore dalla vostra affezionatissima Marianna.

M.P.











Les Parisiennes de Kiraz


Di ragazze così ne vedi
tante lassù, a Parigi,
ragazze quasi astratte,
frettolose come gatte, nei vicoli
e nei boulevard, ai tavolini
tondi dei caffè, ne vedi...

Disegnate a mano certa
e certamente innamorata,
con una sola, sinuosa linea
sulla carta come il filo del loro
petto eretto, o quello delle anche

e delle caviglie superbe e altere.

Gli occhi vasti, ombrosi,
remoti come stelle, e come tali
del tutto assenti, indifferenti
a sguardi, a complimenti
o anche offese, tanto come angeli
provengono dal cielo e vanno altrove.

Le lunghe gambe nude culminanti
in svelti arcuati piedi
da danceuse, così eleganti
e tesi da suscitare il pianto.
E i capelli, chiari oppure
così neri da perderci la mente.

Tu vedendole le diresti finte
per quanto appaion vere,
che il loro spazio sia quello
superficiale della carta
in cui sono ritratte; e invece
eccole spuntare dal metrò

a coppie, a gruppi, oppure
orgogliosamente solitarie,
con le loro sporte d'eleganza
o i libri densi di studi d'arte
o legge, o letteratura, e in un lampo
si disperdono nei viali.

Di ragazze così ne vedi
tante nelle folle di Parigi:
quest'è l'incanto d'una città
che sta nella sapiente punta
d'una matita, tutta, e la malìa
della sua femminilità perfetta

assolutamente appassionata.



Marianna Piani
Milano, 4 Giugno 2015

sabato 26 dicembre 2015

Dal vero



Amiche care, amici,

per prima cosa, buone feste a tutti, proprio tutti.

 
La "festività" di questi giorni è religiosa, per chi ha fede - bisogna ricordare. E costoro, se sono coerenti con il loro sentimento profondo, coglieranno certo l'occasione per rimeditare sui fondamenti del loro pensiero e del loro stile di vita. Una Religione - ogni Religione - è il sedimento di millenni di riflessione umana, alla ricerca di una trascendenza, di un riscatto terreno, e, quasi sempre, di una promessa di Giustizia per i Giusti e di Misericordia per i deboli.

Per tutti gli altri - agnostici, incerti, tiepidi, atei, miscredenti o osservanti di altre Confessioni - questa ricorrenza - la più importante nel nostro mondo occidentale, non a caso essa cade alla svolta delle stagioni, al trapasso da un anno all'altro - rappresenta una occasione do pausa dal quotidiano per provare a ritrovare la serenità, il conforto, la quiete, accanto alle persone che amiamo e che ci amano.
Dunque un caro abbraccio a tutte e a tutti, alle vostre famiglie, compagni, amici.

Vi lascio una cosetta che scrissi all'inizio di questa estate, in stile leggero un pochino alla Umberto Saba: non una composizione di circostanza natalizia dunque, nemmeno alla lontana. Si tratta di un ritrattino, colto al volo, di una ragazza (probabilmente insegnante al vicino Liceo Artistico) che ho visto spesso, in quei giorni, indugiare al baretto che dà sulla piazza vicino a casa mia per esercitarsi su uno sketchbook al disegno dal vero.
Dovrei farlo anch'io più spesso, data la mia professione, ma col passare del tempo finisce per prevalere la pigrizia: quando si disegna molto per mestiere, "per portare il pane a casa",  il più delle volte si lascia il lavoro stanchi, si ha poca voglia di continuare a farlo al di fuori dell'esercizio professionale, e si perde il gusto di farlo per puro diletto, o quanto meno per affinare la propria abilità.
Rimane però intatta la mia tendenza a schizzare bozzetti in versi, una tendenza che di certo ha origine nella mia formazione (e pratica) di "artista visiva". I miei taccuini ospitano ormai più spesso note di scrittura, idee, parole, spunti e appunti, piuttosto che disegni e bozzetti.
Ma comunque si tratta sempre di attimi di osservazione, e la capacità di osservazione è il primo strumento di un artista visivo - e probabilmente di qualunque genere di artista.

Lascio dunque questo piccolo ritratto alla vostra lettura, amiche dilette e amici, sperando che possa incontrare il vostro gradimento.

Con amore

M.P.






Dal vero


Da qualche giorno, ora
che la stagione indora
anticipando l'estate, ogni giorno
viene nella piazza,
sola, sotto un cappello
a larghe tese, quella ragazza.

Si ferma, di buon mattino
e sosta per un'ora o poco meno
allo stesso tavolino, davanti
a un caffè e un bicchiere
forse di vino, oppure,
più di rado, un gelato

al cioccolato: rimane
per qualche tempo a guardare
attorno, e finalmente
estrae dalla borsetta il taccuino
e inizia discretamente a tracciare
sulla carta ciò che le appare.

Persone, gente, volti estranei
che emergono come chimere
per pochi istanti, e riscompaiono
per sempre all'indomani,
colà dove l'oblio è il destino.
Lei con pochi tratti svelti

di pastello ferma il tempo.
Giusto nell'istante in cima
prima che la figura
s'inabissi nell'informe
indistinta massa di effimere
presenze e assenze quotidiane.

Se avessi io la matita ora
la ritrarrei così, seduta,
le belle gambe accavallate,
lo sguardo intenso e assorto
dietro l'onda dei capelli bruni
all'ombra del suo cappello chiaro

intenta a catturare al volo
la varietà stupenda della vita
che le sfugge innanzi senza posa
in tracce nitide graffiate
con dolcezza e rabbia
sopra un foglio bianco.


Marianna Piani
Milano, 6 Giugno 2015

 

mercoledì 23 dicembre 2015

Tessere



Amiche care, amici,

oggi vi propongo una composizione breve, piuttosto densa, nata da una mia visita in Cattedrale, nella mia città natale, e dalla strana sensazione che avevo provato calpestando alcuni frammenti di pavimento musivo, antico di secoli. Ma non sono i mosaici in sé l'argomento, ma ciò che essi sottendono, con la loro semplice presenza, immobile e apparentemente immutabile: il Tempo.
Qui parlo di "memoria", ma intesa come traccia umana dell'ineluttabile passaggio temporale. Del mistero della continua mutazione del nostro orizzonte in una unica direzione, dal passato al futuro, dove il presente è solo una contingenza, un punto in movimento, un luogo d'incrocio tra speranza (il futuro) e disperazione (il passato). L'impossibilità di comporre le tessere di un disegno ormai perduto per sempre, questo credo sia il dramma primo della condizione umana, "uomo" inteso quale probabilmente unico organismo in grado di riflettere/speculare sulla propria identità, e sulla propria irripetibilità come essere vivente.


Noi, il nostro corpo, ogni singola cellula che ci compone, si muove ineluttabilmente su un vettore unidirezionale, dal passato al futuro, eppure noi non siamo in grado di edificare dalle argille e dalle scorie del nostro passato una piattaforma che ci consenta di affrontare il futuro con una percezione consapevole e coerente, né tanto meno con una visione realmente prospettica, proiettata in avanti, al di là del nostro ristrettissimo orizzonte schiacciato in una dimensione lineare ridotta al trempo di un battito di cuore. In realtà siamo ciechi, nulla sappiamo di noi, né nel passato, né nel futuro. Procediamo in avanti, costantemente, ma da un battito al successivo, fino all'ultimo che ci è concesso, imprigionati in quel "momento", in quell'attimo vitale. La nostra vera conoscenza, nonostante la nostra ubris scientifica e filosofica, è limitata a quell'attimo. Possiamo solo immaginare miti di trascendenza, per non perderci nella follia della oscurità e solitudine che ci circonda.

Vi lascio con queste riflessioni, amiche dilette e amici cari, e affido alla vostra lettura questi appunti in versi, come sempre con amore.

M.P.





Tessere


Risuonano questi mosaici ai miei passi
di colori oro, rosso, blu marino,
ocra, celeste, viola, nero, vibrando
di un millennio di splendore
di divino orgoglio
e di strazio umano.
        Tali sono le memorie
del mio passato, tessere
divelte, esplose dal mosaico,
ognuna come un unico frammento
d'universo variopinto, ognuna
un'unica molecola di storia.

Impossibile ricostruire
l'intera trama del disegno,
troppo difforme, troppo evasiva
troppo folle per poter trovare
appena solo una traccia
di connessione che abbia motivo.
        Tra le mani rimane solo
un pugno irriducibile di gemme
disperse. Luccicanti al sole
di vana effimera bellezza
come cristalli di rugiada
sopra i petali d'una rosa morta.



Marianna Piani
Trieste, 1 Giugno 2015

sabato 19 dicembre 2015

Il sentiero dei fili di ragno


Amiche care, amici,

questo sentiero, a me ben noto, esiste, e queste impressioni un po' pittoriche po' sensuali non appartengono alla memoria, ma al presente.
Diversamente dalle mie abitudini, queste quartine libere mi si sono presentate - nella mente - proprio durante una delle mie passeggiate in quei luoghi a me prediletti, e le ho "buttate giù" ancora a caldo, appena rientrata a casa, prima che svanisse la "freschezza" dell'ispirazione.

Il mio modo di lavorare è di solito più riflessivo, più mediato dalla memoria, cerco se possibile di non lavorare "a caldo" poiché so bene che ciò che ne esce è molto influenzato dall'emozione viva, che tende a sovrastare e ottundere la tecnica espositiva, per me fondamentale per ogni lavoro artistico, tanto più per uno apparentemente così "facile e immediato" come lo scrivere in versi. Non a caso la maggior parte degli appunti o piccole composizioni da me scritte d'impulso dopo una forte emozione è destinata a finire nel cestino, oppure ad essere profondamente rimaneggiata.
In questo caso però si trattava di una emozione quieta, sottotraccia, provata mille volte, e in quel momento avevo semplicemente trovato dentro di me le parole, i suoni e il ritmo per esprimerla. Sarebbe stato un peccato non cogliere al volo un bozzetto che si era già così ben formato nella mia testa. Inoltre a volte non c'é studio o lavorio che tenga, il risultato si presenta già spontaneamente definito, senza sforzo, certo scaturendo all'improvviso dopo una lunga elaborazione inconscia, una maturazione silenziosa, dentro di noi. Sono momenti felici questi, al di là del valore o meno del risultato, come sa chiunque per mestiere o per diletto si occupi di creazione artistica, in ogni campo.

Dunque, questo "sentiero" esiste nella realtà, poco dietro il mio "rifugio" di Nebbiuno, e in questi giorni di pausa lo ritroverò, e lo ripercorrerò, come sempre in perfetta solitudine, al mattino dopo l'alba, oppure appena prima del tramonto: non potete immaginare quanto queste passeggiate, o brevi corse leggere, rimurginando e respirando questa atmosfera libera e di serena naturalità, siano preziose per il mio precario equilibrio mentale, meglio, molto meglio di qualunque dose di farmaci, diretti più che altro ad annebbiare e punire le mie sinapsi ribelli e recalcitranti.

…I più accorti tra voi avranno certo colto nel titolo una assonanza con il primo romanzo di Italo Calvino, da me molto amato, come il suo autore. Si è trattato di una coincidenza o di una associazione mentale spontanea, in realtà casuale e priva di relazione con il contenuto della composizione, ma ho voluto comunque tenerlo così, non mi dispiaceva considerarlo un piccolo omaggio indiretto all'autore delle Cosmicomiche, delle Città Invisibili, delle Lezioni Americane...

Amiche dilette, amici, vi lascio alla lettura, se vorrete, di questo piccolo idillio mattutino, come sempre con amore.

M.P.




Nebbiuno (NO) - Foto personale




Il sentiero dei fili di ragno


Ho ripreso, dopo tempo, il sentiero
ben noto dei miei boschi, che risale
senza fatica le alture che s'affollano
come giganti bagnanti sul lago.

Le pietre sfrantumano ai miei passi
rendendoli più incerti ancora di quanto
è loro natura, piegando i pedi
e le caviglie fin quasi a fiaccarle.

Queste pietre sono la dolce voce
delle più spensierate mie fughe:
crocchiando, e cozzando, e ruzzando,
avvertivano i tassi e le lepri

del mio arrivo da lunga distanza.
Per ciò era raro incontrare animali
allora come ora, neppure i picchi,
che pur udivo spaccare cortecce.

Sapevo che erano boschi abitati
da cervi, cinghiali e alcune specie
di serpi, e ancor oggi sogno incrociare
qualche fiera emersa dalla boscaglia.

No, non temo animali di alcun genere
e specie, né mai li temetti, o ne ebbi
ribrezzo: a scuola ero io a infilare
rane vive nelle magliette dei maschi

per sentirli strillare, e ancora adesso
posso lasciare un insetto esplorare
il mio palmo senza reagire al tocco
delle zampine leggere, adesive,

sì, senza rabbrividire. Quante volte
da allora avrò percorso quei sentieri
seguendo passo passo la mia ombra
sottile sfiorare i sassi, saltare

di là dei rivoli e dei torrenti?
E ancora oggi mi ritrovo perenne
adolescente in fuga e ricerca
di un qualcosa che non oso spiegare.

M'infilo in quel passaggio tra i cespugli
e i roveti e alti fusti di querce
e abeti, e cammino, a lungo, lungo
il mattino senza badare al tempo

che scorre giù dal dirupo, e ai fili
di ragno iridescenti come raggi
finissimi filtrati filanti tra i rami
che mi afferrano la fronte e gli occhi

e s'avviluppano ai capelli, tenaci
e viscosi come i miei pensieri:
come essi forse m'imprigioneranno
e mai più, mai più mi libereranno.



Marianna Piani
Nebbiuno, 8 Giugno 2015

mercoledì 16 dicembre 2015

I capodogli


Amiche care, amici,

come mi accade piuttosto frequentemente, questa composizione nasce da una scelta, una decisione a un bivio del sentiero di scrittura che sono sul punto di intraprendere.

In questo caso io avevo in mente - quasi per intero - una idea precisa per questa lirica, nata "in loco", proprio nei luoghi di cui intendevo narrare, luoghi della  memoria e culla della mia immaginazione.

Ma mi fermai - a lungo - su un dettaglio, in apparenza del tutto minimo e incidentale, quel desueto e un poco strapoetico "in guisa di" anzichè il più semplice e colloquiale - e attuale - "come" (v. inizio II strofa). Ho indugiato su questo punto, come vi dicevo, a lungo, poiché la scelta in quel preciso passaggio di una espressione o dell'altra avrebbe portato l'intera composizione in una direzione oppure in un'altra, divaricandosi in risultati assai lontani tra loro.

Alla fine, dato il soggetto intimo, riflessivo, e legato a immagini letterarie e fantastiche (i luoghi d'avventura) assieme a figure della realtà viste con lo sguardo del mito (i pescatori), decisi di imboccare proprio la via indicata da quel "in guisa di", che mi conduceva ineluttabilmente su un territorio linguistico e prosodico scopertamente classicheggiante, con echi quasi ottocenteschi. Naturalmente si tratta di una reinterpretazione, un gioco sul filo sottile del gusto, ma sentivo che queste immagini della memoria e dell'infanzia potevano trovare così, e solo così, la loro espressione più immediata e naturale, un poco come tradurre all'oggi l'atmosfera, la sensibilità, il profumo di un tempo ormai definitivamente consumato e ancora in sedimentazione.

Amiche dilette, amici cari, lascio alla vostra lettura queste mie fascinazioni dalle rive del "mio mare", sempre con amore.

M.P.






I capodogli


Questo è lo sperone di roccia viva
che mi vedeva, bimbetta ancora,
indugiare a mirare il mare:

m'arrampicavo in guisa di capretta
su per il bianco ruvido calcare,
sedevo all'orlo, gambine ciondoloni

sopra questa immensa stesa d'incertezza
da perder l'occhio fin nelle foschie
che celavano gelose all'orizzonte

mitici remoti luoghi d'avventura:
colà s'affrontavano tra gli urlanti
uragani i capodogli e i leviatani.

Questo era il sedile bianco calcinato
dal gran sole dell'estate ove io
mi aggrappavo alle pagine parlanti

delle mie letture, così fragranti
dei profumi di pinete e di ginepri,
per librarmi nel volo delle mie visioni.

Quella era laggiù la costa serpeggiante
tra le grotte e le cale delle marine
odorose di salsedine e di pesce

morto, laggiù rugosi pescatori
scuri e duri come bronzi cucivano
le reti, seduti tra i galleggianti

rossi e bianchi, in tutto ai miei occhi
incantati uguali a divinità marine
intente alle loro cure ultraterrene.

Questo era il luogo prediletto

ove assistevo al mirabile confluire
del mondo naturale del mio mare

e quello onnivoro del mio sentire.



Marianna Piani
Trieste, alba del 2 Maggio 2015



domenica 13 dicembre 2015

Torre


Amiche care, amici,

a poche centinaia di metri da casa mia, a Milano, hanno da poco finito di edificare una alta torre in stile nuovayorchese, un poco simile al vecchio "Pirellone", un parallelepipedo schiacciato, ma molto più imponente. Lo vedo dalle finestre di casa, e ho seguito la sua crescita graduale, piuttosto rapida, e ora domina la skyline che  vedo dai miei balconi, prima piuttosto libera (e anche un poco deprimente) dopo la demolizione dei vecchi edifici della Fiera.
Non me ne lamento più di tanto, non sono così vicina da sentirmi oppressa da quell'edificio, e capisco bene che le città, come ogni faccenda umana, crescono, si evolvono, o decadono. Il cambiamento è inevitabile, e in ogni caso sempre necessario. Il cambiamento, in positivo o negativo, è vitale, il non-cambiamento, la stasi, il coma, quello è mortale.

La domanda che mi faccio, quando mi affaccio alla finestra, è piuttosto se questo sia un segno di progresso, di evoluzione, oppure viceversa di decadenza, di finale della nostra civiltà, una sorta di monolito dell'Isola di Pasqua trasferito nel paesaggio milanese di inizio millennio. Un segno, un simbolo, piccolo, minimale, ma pur sempre una dichiarazione espressa e definitiva in un senso o nell'altro. È questo, credo, il linguaggio dell'architettura, la grande, la piccola, la monumentale, la quotidiana. Quello con cui una civiltà si esprime nel corso della sua storia, via via di sorgenza, di crescita, di evoluzione, di decadenza e di fine.

Come potrete intuire dalla composizione che vi propongo oggi, io propendo per quest'ultima ipotesi. Vedere certe costruzioni in un certo senso faraoniche, in questi tempi in cui una architettura sana dovrebbe occuparsi principalmente di una migliore utilizzazione del territorio, della non invasione di ulteriori spazi in orizzontale come in verticale, della buona gestione/utilizzazione delle risorse residue, della edificazione di spazi umani a "misura d'uomo", di incrocio culturale, di convivenza non infernale ma pacifica, di apertura all'esterno anziché chiusura - anche simbolica - dentro gigantesche scatole di cereali come queste, mi comunica un senso di angosciosa insensibilità al mondo che si dibatte sotto di loro, di inutile dichiarazione di maestosità e di separazione per celare una profonda, ormai definitiva impotenza.
Opinione personale, ovviamente: sicuramente c'è chi sarà ben felice di occupare quei prestigiosi appartamenti, di parcheggiare la sua SUV scura negli ampi garage, di godersi l'esclusività dei suoi giardinetti transennati, di affacciarsi e vedere in distanza, nelle (poche) giornata limpide, lo spettacolo "esclusivo" delle alpi che presto biancheggeranno di neve. Pensando alla prossima "settimana bianca" lontana, serena e ricca di raggi UV sulla pelle.
Tanto, là di sotto, il mondo continua il suo affanno, e l'iceberg, immenso, se ne rimane per ora lì, ancora celato nella nebbia padana.

Condivido con voi, amiche dilette e amici, come sempre, con amore.

M.P.




Torre


Preferirei stare
in cima a quella estrema guglia
a duecento metri sopra l'asfalto
nero appena steso del piazzale

e osservare attorno
la poca vita ancor rimasta
sotto i miei piedi. Appena giorno
un fremito di vento mi farà oscillare

come un acrobata
nel cielo terso e arso
sulla città sconfitta, ridotta
al silenzio da una notte che si protrae.

Cittadini e vetture
paiono immobili là sotto, non credo
sappiano quanto sia tracotante ibrido
e blasfemo quest'inumano tentativo

d'innalzarsi a Dio.
Un immenso paravento eretto
come un intollerabile protervo insulto
al riserbo di chi prova ancora a sperare.

Un fallo quadrangolare
che si staglia inverecondo contro
un'orizzonte confusa nel fosco particolato.
Tempio di una Fede in nulla che non sia preda.

Quanti uomini, e donne
morirono per quest'idolo impietrito,
e quanti ancora morranno, ignari e ignoti
sui candidi gelidi gradini della Cattedrale?

Io lassù, aggrappata
che paio una stramba bandiera bianca
lacerata, con la mia gonna che coglie il vento,
sorprendendo, non soccomberò, ma griderò

la mia completa libertà
al di là delle murate di vetro
e di cemento, al di là di queste finestre
perforate dal cielo, al di là

del mio stesso lamento.



Marianna Piani
Milano, 26 Maggio 2015


mercoledì 9 dicembre 2015

Per la sua strada


Amiche care, amici,

vi propongo questo madrigaletto dell'assenza (la "tigre assenza" per citare Cristina Campo), scritto attorno alla fine di un amore, perduto e mai più ritrovato, carto mai più con una tale intensità e profondità.
La domanda è come può accadere nelle relazioni umane che si stabiliscano legami così appassionati e forti, esclusivi e profondi, da parere che non possano mai sciogliersi, finché c'è vita nelle nostre vene.
E che poi proprio questi legami si sciolgano d'improvviso, senza motivo apparente, oppure per un'inezia, per un futile dettaglio.

Quando qualcuno che ami alla follia e da cui ti pensi riamata si rivolge a te con una frase come "lasciami respirare", oppure "ho bisogno di un mio spazio", senti il sangue raggelarsi nelle vene, ammutolisci, incapace di una qualsiasi replica. Sai di amare con tutto il cuore questa persona, ma il tuo amore d'un tratto viene vissuto come un'oppressione: ti senti sprofondare in una "colpa" che non riesci a riconoscere, poiché tutto il tuo cuore appartiene all'altra persona, e quindi come può mai sentire questo possesso come un peso? Ti rendi conto, di colpo, che tutta la tua vita accanto questa persona è stata segnata dalla sua assenza,  in quanto persona amata, che tutto è stato una illusione, un fallimento.
Così pensi; e non comprendi che questo è spesso il prezzo finale di un amore profondo e incondizionato, dell'affidarsi completamente a questo sentimento. A volte basta un attimo di squilibrio, e tutto il tuo castello fantastico crolla ai tuoi piedi.

Il senso di smarrimento poi è tale da renderti incapace di ritrovare pace, credi - e forse a ragione - che mai più potresti vivere quegli attimi così intensi, che la vita si fermi a quel punto, per te.

Per voi, amiche dilette e amici cari queste riflessioni, con tutto il mio amore.

M.P.





Per la sua strada.


La vita crea, la vita sfa.
Di tutte le persone belle
che amiamo nella vita, in fine
non ci rimane che la nebbia

nel cavo della loro assenza.
Non importano le parole
che svaporano nel sole,
non importa il vero

oppure il falso, tutto è affidato
solamente a un abbaglio
del pensiero vago.
All'ingannevole illusione

di un sogno vano.
Forse è spesa la mia parola
forse sospesa la mia figura
sopra un filo di memoria.

Chi mi ha tanto amato, un tempo
infinito ch'è ormai finito
ora è andato, senza rimpianto,
obliando quel primo tocco

della mano sulla mia mano
quale rabbioso vasto incendio
ha scatenato, e quel bacio
rubato sulla strada, tra la gente,

come ha saldato i destini
delle nostre anime ferventi
per un tempo che credevamo
illimitato - e che fu breve ahimè.

Breve come una folgore scoccata
sul prato accanto, accecante
per la frazione di un istante,
fatale per l'eterno al cuore

squassato, assordato. Ella va
dunque ora per la sua strada
disciogliendosi in memoria vaga:
la vita prende, ciò che da'.



Marianna Piani
Trieste, 31 Maggio, 2015




sabato 5 dicembre 2015

Delusa


Amiche care, amici,

dopo le divagazioni delle ultime settimane, per me piuttosto impegnative, oggi vorrei tornare ai territori a me più consueti: il racconto di un momento di vita, fotografato dalla memoria e impresso nella nostalgia, a distanza di un tempo che pare ora incalcolabile (ma in realtà è il giro di poche stagioni).
Stavolta resisterò, non appesantirò di prefazioni o commenti preliminari questo raccontino in versi liberi, di struttura semplicissima, quasi discorsiva.
Lo lascio volentieri del tutto disponibile alla vostra lettura, sempre così benevola, se avrete la bontà di concedermela.

Per voi, amiche dilette e amici, sempre con amore.

M.P.





Delusa


Stanotte, alquanto tardi, com'ė mio uso
mi coricai accanto alla mia sposa.
Era già buio: il mondo e il volto suo.
Fu nervosa oggi, lei, fin da prima sera,
"Sono delusa!" mi ripeteva,
mentre m'aiutava a rassettare
di malavoglia, non con la gioia
che più sovente l'illuminava.

Io non le chiesi nulla
perché sapevo, conoscevo cos'era
quel suo essere delusa, che era
non di me - o non soltanto - ma di sé.
Tagliò breve, nella sera, e raggiunse
il letto prima di me, assai prima,
il che non è raro, ma anche prima
che dilagasse il suo disagio.

Gettò il libro in un canto, dopo un minuto,
mi chiese di attaccare al filo il cellulare.
si tirò il piumone addosso fino alle spalle,
si girò col viso alla parete, e s'allontanò
con l'anima il corpo ed il pensiero
da me e da ogni altra cura. Più tardi
io le scivolai quatta quatta al fianco
come una gatta, senza far rumore,

senza quasi flettere la rete a doghe,
al lume giallo fioco che ci dava
il mio solo abat-jour dal comodino.
Forse non mi sentì, o forse sì,
ma non si mosse, né mutò il respiro
gravido di notte. Rimasi anch'io, muta,
senza muovere un respiro,
mirando il soffitto bianco, a lungo.

Mi girai infine, cauta, e vidi
l'arco amabile delle sue spalle,
il flesso candido del lungo collo
ricoperto di finissima peluria,
e la fiamma arancio dei suoi capelli
liberi di fuggire scarmigliati sul guanciale
in corona, come raggi, agitati.
Non potei non pensare allora: "sei il mio sole".

E d'isinto lo dissi pure, con un sibilo
di voce. Lei non mi udì. O forse sì:
non si scosse. Né si mosse. Ma
un impercettibile fremito dell'anca
da sotto le nostre coltri, e io seppi
                                 che sorrideva.



Marianna Piani
Nebbiuno, 22 Maggio 2015

mercoledì 2 dicembre 2015

Illetterata


Amiche care, amici,

oggi sono un poco in ritardo sulla tabella di marcia, ma non voglio disattendere del tutto il nostro appuntamento, per me sempre assai importante.

Chi mi conosce sa la mia scarsa propensione per le "esibizioni" letterarie, per i concorsi di "poesia", per i salotti - virtuali e non - di certa cultura più vantata, esibita, a volte millantata che reale e realmente frequentata. E conosce la mia ritrosia a partecipare in qualsiasi modo a certe manifestazioni, anche rispettabilissime, ma lontane dal mio modo di pensare e vivere il mio piccolo impegno di scrittura.
Non è un a forma di snobismo, o forse anche lo è, ma quel che conta  è che io considero il fatto di scrivere in versi come una parte "necessaria" della mia vita, che però di per sé non può in alcun modo consegnarmi automaticamente il titolo di Poetessa, o Poeta. Lo potete leggere anche in presentazione di queste pagine, io mi considero una dilettante di scrittura, molto appassionata certo, ma sempre semplicemente una dilettante. In fondo è un gioco, un gioco serio, a volte anche doloroso, ma un gioco.

È ciò che mi sono "dilettata" a esprimere in questa composizione, formulando una specie di "manifesto" personale, un po' giocoso un po' no. Per dirla con Palazzeschi, un "Lasciatemi divertire" - che è una frasetta molto più profonda e impegnativa di quanto non si possa superficialmente pensare: in quel "divertire" c'è ironia, irriverenza, libertà. Essere appartati a volte è una scelta di libertà, credetemi. A me importa, conforta, onora e basta il dialogo con i lettori, spesso scrittori anch'essi come e più di me ma comunque liberi come me. Come voi.

Per voi, amiche dilette e amici cari, come sempre, con amore.

M.P.




 

Illetterata


Credo che rinuncerò
alle belle tornite frasi,
alle parole ricercate,
al ragionar profondo,
al dire da iniziata formule
di antica esoterica alchimia.

Rinuncerò agli effetti
da mirabilia, al patatrac
dei mortaretti, al citar
cantando - maestri antichi
o vati contemporanei -
al cincischiare verbi

come fossero bocconi
acri da ingollare,
ricuserò gli agoni
le parate, l'esibizioni
che s'ammantano
di nobili mantelli

e di lauri ricoperti
di porporina, volentieri
lascerò ad altri la dolcezza
del miele di narcisi,
i diplomi e le illusioni
delle facili edizioni

Non starò nei gruppi scelti
dei #cancelletti culturali
o finti sapienziali,
a esibir me stessa
e la mia grande rinomata
illuminata conoscenza,

o gli studi di una vita
seppur superficiale,
non seguirò congreghe
d'aruspici e di careghe,
non mi lascerò sedurre
dai salotti e dai strambotti

delle stelle letterarie,
non impasterò nel bacile
deja vu e letteratura
e impúdica ambizione...
Se futile dev'essere
lo sia la mia vita.

La mia ambizione sia,
e il mio narciso,
una gonna corta
e sandali di lacca
esibiti nelle vie affollate
del centro cittadino.


* * *

Non sono "poetessa", forse
sono puttana, o forse artigiana,
e la materia del mio lavoro
è mescere sangue al fango
da cuocere al sole franco
per abbandonare infine il vaso

al mondo - ma gratuitamente.



Marianna Piani
Milano, 28 Maggio 2015
(Con uno speciale grazie a Luca)

  

sabato 28 novembre 2015

Camposanto mattutino


Amiche care e amici,

riprendo a pubblicare secondo il mio uso di sempre, piccole composizioni selezionate dal mio taccuino dopo un adeguato periodo di "maturazione" (quella che io chiamo "quarantena") per darmi modo di rivederle con calma e sufficiente distacco critico.

Questo che segue, breve e leggero, è un quadretto veloce, un piccolo schizzo "dal vero", una sensazione colta al volo e fissata come in un'istantanea.
Devo dire che  questa sorta di madrigaletto bipartito,  a terzine, non ha avuto bisogno di molti aggiustamenti, rispetto alla prima stesura. Càpita -  a me assai di rado per la verità - che alcune creazioni nascano già non certo perfette, ma non perfezionabili ulteriormente nelle mie capacità senza rischio di rovinarne l'equilibrio, e questa probabilmente è una di esse.


Non comune per me anche la sua relativa brevità. Ogni composizione per me ha un suo preciso arco discorsivo. Non saprei bene come avviene, ma è la composizione stessa a "dirmi" quando è il momento di concludere. Prima dell'arrivo di questo avviso, io "non riesco" semplicemente a chiudere. Spesso mi capita di riprendere la scrittura di un testo interrotto settimane prima ma evidentemente incompiuto, anche più volte. Finché non arriva quel particolare, imprevedibile passaggio che mi dice "fine, tutto è stato detto".
In questo caso è stato il passaggio subitaneo, silenzioso e solitario, di quel gatto…

Per voi, amiche dilette e amici cari, con rinnovato costante amore.

M.P.



(Poscritto: Così mi pareva. Poi, proprio nel trascriverla per pubblicarla mi sono accorta di dover operare diversi cambiamenti. E poi ancora, quando era già pubblicata. La perfezione, sia pur imperfetta e assai relativa, è un lungo, mai finito processo di ricerca...)





Camposanto mattutino


Il parcheggio è ampio, ma incustodito.
Vetture allineate senza un ordine voluto,
e sotto, il supermercato, ancor serrato.

Chi vi approda, pare in fine del suo viaggio,
spegne il motore, esce, e si dispone
a raccogliere le sue cose. E poi discende.


* * *
 

Le lamiere delle vetture in sosta su quel sagrato
lampeggiano sotto il sole, raggelate. Le cifre
delle targhe compongono una esoterica orazione.

L'umano è assente, in quel parco muto e assorto,
rimane solo il senso di desolazione, tutto il resto
si muove sopra il cielo. O nel sottosuolo, morto.

In tutta l'area, solo un'ombra sguscia di soppiatto
di tra le ruote immote, alla ricerca d'un motore
ancora caldo: quella nera d'un elusivo gatto.



Marianna Piani
Milano, 25 Maggio 2015





mercoledì 25 novembre 2015

Ma Ville Lumière


Amiche care, amici,

Pare accaduto e concluso in un'altra era, eppure tutto è ancora aperto, forse tutto deve ancora iniziare.
Noi, e questa è la forza della Vita, torniamo al nostro abituale, al nostro familiare, a ciò che conosciamo e a ciò che amiamo.
Scossi, un pochino più incerti, insicuri e meno liberi di prima, ma ritorniamo in noi stessi.  È la forza della Vita come espressione dell'individuo e delle collettività.
Che, alla fine, riemerge sempre.
È ciò cui - al di là di tutto e fermamente - io credo.

Anch'io, piccolina quale sono, torno alla scrittura, per me espressione di Vita e testimonianza di Libertà, e qui sotto vi lascio questa riflessione siglata quasi "a caldo", in cui parlo di una Civiltà, e della sua fine. Anche questa di primo getto, senza il consueto lavoro di taglio, di vaglio, di rifinitura. Certe parole, certi pensieri, vanno lasciati liberi di muoversi, di agire, fuori da schemi e forme.

Le Civiltà sono forme di pensiero e di organizzazione, nulla di trascendentale in questo, e come gli individui sono destinate a invecchiare, decadere e morire.
Non necessariamente sono migliori o superiori a quelle che le sostituiranno, come non necessariamente quelle che le sostituiranno saranno migliori di esse.
Non necessariamente l'evoluzione delle civiltà avanza secondo un vettore lineare e in ascesa. Vi sono sobbalzi, cadute, crolli, anche abissi.
Io semplicemente mi ritrovo in questa, con tutti i suoi difetti e le sue imperfezioni, so, senza stupido entusiasmo ma anche senza vergogna, di appartenere alla sua eredità, e so di vivere la sua senescenza, forse avanzata, forse terminale.
Mi batto personalmente, per quel che posso, per renderla più umana di quanto non sia, facendo leva sul suo aspetto più puro e innocente, quello del suo amore per la Bellezza. Laddove Bellezza è sinonimo di Libertà. Faccio questo, con fede e perseveranza. Vivendola, semplicemente.
Ma certo non vorrei sopravviverle.

Per voi amiche dilette e amici cari, ancora e sempre con amore

M.P.


(P.S. La "Ville Lumiére"  fa parte del mio personalissimo paesaggio di vita e sentimentale. Ci ho vissuto, lavorato, amato)





Ma Ville Lumière


1

Sono giorni che taccio,
giorni che vorrei dire
qualcosa, ma la gola
si chiude, cauterizzata
da un gelo improvviso,
intollerabile, eccessivo.

La visione, in apparenza
lontana, e invece troppo
vicina, di corpi, e di sangue
sparsi su strade, vie, quartieri
familiari, che mi sono cari,
ogni forza mi esaurisce.

Credo di non avere più
nemmeno la forza di salire
i sedici gradini all'ingresso
di casa, credo che potrei morire
così, anch'io, sulla via, a un passo
dalla mia piccola vita.

Penso a ragazzi
convinti da qualche delirio
che sia giusto morire
all'alba, e che sia santo
spargere il sangue così,
su un'empio impiantito.

Penso al silenzio inatteso
stupito di chi è colpito:
la morte, a noi, non riguarda,
proprio come non riguarda
il grano che rigoglia nel campo
e la falce che lo recide.

Lei, quando arriva,
arriva in una folata, sempre,
sempre inattesa, e rimane
stupefatto nel medesimo tempo
il germoglio che viene colpito,
e la lama che vibra il colpo.

Penso atterrita
alla totale infinita inutilità
e gratuità della morte,
chi ne trae motivo di gloria
divina è un demente, poiché
basa la sua fede sul niente.

È facile uccidere, ed è facile
morire, basta un sobbalzo,
un singulto e un sospiro.
Nulla ha a che fare in questo
il coraggio, la virtù più celebrata
e la più sfuggente.

Ma la morte, in sé, non mi spaventa,
l'ho già vellicata più d'una volta;
di più mi spaventa la fine certa
d'una certa civiltà, ma questa
non sarà questione di bombe, che
sono altre le minacce che temo.

 

2

Domani tornerò,
sa Dio che lo farò, a quei viali
sontuosamente alberati, a quel fiume
torpido e letale, sebbene
affascinante, come una serpe,
a quei rumori, a quegli odori.

Tornerò a quell'atmosfera
troppo viziata, di pessima
sigaretta e di scarichi di milioni
di veicoli, vetture, camini,
e tornerò a quella lingua dolce
e arrotata, che amo, che è la mia.

Tornerò all'antica boulangerie
che ho frequentato in passato,
riprenderò fiato al tavolino
rotondo, un pò pencolante,
guardando passare qualche cane
al guinzaglio e i visi fieri

delle passanti, sensuali come
in una gouache di Kiraz.
Tornerò, prima che tutto questo
si polverizzi in una nube
di sangue rappreso, in una nebbia
di futuro mal speso.

Questa civiltà, consumata
sfigurata da demenze senili
e cancri intestini, questa
civiltà di bellezza e pudore
morrà, quando l'ora verrà,
e io - spero - non dopo di lei.



Marianna Piani
Milano, 18-19 Novembre 2015



domenica 22 novembre 2015

"Le silence est d'or"


Amiche care, amici,

la scrittura è tornata, torna sempre, come torna il respiro dopo una botta allo stomaco che ci lascia per qualche istante in apnea. La scrittura è vita. E la vita preme, alla porta del cuore, vuole uscire.

E ritorno alla pubblicazione della mia "voce", anche se non riprendo il corso usuale ripescando dal mio archivio di quarantena, ma, eccezionalmente, proprio con le ultime cose scritte, anche se ancora non ho avuto il tempo per una revisione accurata come nel mio standard abituale. Ma non importa, lo farò in seguito, va bene anche la vivezza un po' cruda della prima stesura.

In questa prima composizione l'eco, o l'ombra, degli avvenimenti è solo accennata e in tono leggero, a iniziare dal titolo - volutamente in lingua francese, e eco a sua volta del titolo di un vecchio film di René Clair, ambientato ai tempi del cinema muto - mentre ho voluto trattare il valore di testimonianza - nel tempo e nella Storia - del silenzio, il che pare un ossimoro, ma non lo è.

Condivido questi pensieri con voi, amiche dilette e amici cari, come sempre, sebbene turbata, con amore.

M.P.






"Le silence est d'or"


Tacciono i sassi nei greti
dei torrenti, sono mute
le pietre, testimoni
dell'operosità iconoclasta
del Tempo, e tacciono
le rocce superbe delle
incorruttibili vette.

Non distoglie la tempesta
le orgogliose scogliere
dal loro sdegnoso silenzio,
il vento che s'abbatte furioso
sul promontorio, non ne induce
alcuna voce, di giubilo
o pianto.

Le lontane dune del deserto
e quelle delle spiagge nostrane
non hanno suono
né voce, scivolano solo
in perfetto silenzio
a lunghe onde indolenti
sui bagnasciuga degli eventi.

Non mormorano le fronde
- sebbene lo ripetano
compiaciuti i mediocri poeti -
esse si serrano invece
tremule al calare di sera.
Né mormorano i fiumi,
insinuandosi nelle città,

colano quieti sotto finestre
portici e ponti, senza fiatare.
E muti sono i muri
degli antichi palazzi,
anche se tanto potrebbero dire
dei loro secoli e lustri trascorsi
immoti in mezzo alla Storia:


dei molti inutili mutamenti,
delle grida dei giusti
e degli urli degli empi,
di sangue, e carni straziate,
e di massacri, e rivolte
soffocate dai tradimenti,
e dell'arroganza dei potenti.

Tacciono sempre, le pietre,
e forse hanno dolore,
un dolore impotente, dal loro
inerte testimoniare il dolore
che il Tempo umano procura.
Così come un cuore fattosi pietra
tace per sempre.



Marianna Piani
Milano, 21 Novembre 2015


 

mercoledì 18 novembre 2015

La Storia



Amiche care, amici,

De tre giorni non scrivo, sono bolccata, muta, non trovo parole che sia possibile vincolare a un pensiero, e dal pensiero al verso.
I fatti di questi giorni e la mia "consegna" al silenzio in queste pagine c'entra relativamente.
Come sa chi ha la bontà di seguirmi da un pochino, io non scrivo mai sull'onda di un'emozione, felicità o di angoscia che sia. Non ritengo la scrittura un atto "terapeutico", ma anzi, se preso seriamente esso è un travaglio, può essere un'analisi, un coltello che fruga tra le carni, a volte un respiro, ma in sé non fa "star meglio".
La mia decisione di interrompere temporaneamente la pubblicazione dei miei versi su queste pagine, inizialmente era dovuta a un senso di impotenza, di inadeguatezza della Parola di fronte alla Storia, ma ora, dopo una sofferta riflessione, la considero necessaria principalmente per un senso di rispetto nei confronti delle vittime incolpevoli - e anche di quelle colpevoli - di quell'atto efferatamente privo di senso.


Da tre giorni non scrivo, perché questi avvenimenti hanno catalizzato in me una forma di prostrazione, di depressione profonda, che praticamente mi impediscono di lavorare, e non solo nella scrittura ma anche nel mio lavoro primario.
Non si tratta di "paura", ma piuttosto di scoramento, di una tristezza indomabile.
Ma ne verrò fuori, perché rimango convinta, nel profondo, che la Bellezza non potrà mai essere sconfitta dalla brutalità, né la Vita dalla Storia.


La Parola, e l'espressione massima di essa, la Poesia, si può ritirare inorridita, è umano, ma poi, come un medico nel campo di battaglia, deve scuotersi e lanciarsi nella mischia, lordarsi di fango, di merda, di sangue, perché - semplicemente - c'è bisogno di lei, e proprio in questi momenti più che mai.

Mantengo il mio silenzio, ma, a proposito di Storia, voglio riproporvi, eccezionalmente, questa splendida lirica di un grande, Eugenio Montale, con la sua voce apparentemente fredda, ironica, tagliente come un rasoio. Per dimostrare come la Parola Poetica sa "combattere" e con quali "armi" la sua battagglia di civiltà.

"La Storia non è magistra / di niente che ci riguardi":
Proprio in questi giorni lo vediamo, con chiarezza...

Per voi amiche dilette e amici, come sempre, e sempre, con amore.


M.P.



LA STORIA

1

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l'ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell'orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra
carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.

2

La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C'è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.

La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s'incontra l'ectoplasma
d'uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.


Eugenio Montale
(da "Satura")






sabato 14 novembre 2015

À nous la liberté





Amiche care, amici,

Dunque la barbarie ha tuonato il suo inumano e acuto raglio nel cuore dell'Europa, nel cuore di Parigi, vale a dire nel cuore del nostro stesso cuore.

Naturalmente oggi io sospendo la pubblicazione delle mie cosette, vedrò poi se e come e quando riprendere.

Il tempo della barbarie non è tempo di Parola. Occorre piuttosto silenzio e riflessione.
Perché l'assalto di questi uomini armati di un cieco fanatismo non ottenga il loro scopo primario, che è quello di veder affondare secoli, anzi millenni di tentativi di costruire una Civiltà realmente degna dell'Uomo, del Pensiero, della Ragione.
Io mi rifiuto di vivere nel terrore, mi rifiuto di immolare al loro fanatismo la più piccola goccia della mia libertà, della mia gioia di vivere per ciò che sono, femmina, sensuale, omosessuale, miscredente, indipendente, intellettuale e artista, immagine riflessa delle loro ossessioni più tenebrose ed ottenebrate.
Mi rifiuto. Se vorranno uccidermi per questo, lo facciano, sarà sempre meglio che vivere nel mondo da loro propugnato, in un "pensiero" - o religione - fondata interamente e unicamente sull'odio e sull'invidia. Senza prospettiva di riscatto.

Per quanto riguarda la Francia, e Parigi in particolare, il mio cuore sanguina, poiché si tratta di territori, di una lingua, di un pensiero che ho sempre frequentato e amato profondamente, come coloro che mi seguono un pochino sanno. Conosco i Francesi, ho molte amiche e amici in Francia e a Parigi in particolare, e so come nei momenti capitali essi sappiano essere un popolo capace di reagire, di compattarsi, di esprimere quell'orgoglio loro così tipico e congeniale, che a volte noi Italiani troviamo un po' antipatico, ma che in fondo ammiriamo, perché proprio in momenti come questo vediamo come sia potente prezioso, e non solo per la Francia, ovviamente, ma per l'intera Europa.

Perché l'Europa deve resistere in quanto Europa, la sopravvivenza della nostra Civiltà dipende da questo: resistere nei propri principi di base più preziosi, Libertà, Uguaglianza, Solidarietà, senza cedere di un millimetro, senza lasciarsi travolgere dalla provocazione, e senza lasciare il minimo spazio alle forze del male e dell'idiozia che pur covano anche nelle nostre latrine, nei nostri letamai, e non vedono l'ora di poter rialzare la testa e farsi sentire.

Quanto a loro, questi che si credono combattenti e invece sono solo strumenti ciechi del loro stesso odio, che il loro Dio, quel Dio in nome del quale pretendono di parlare, li maledica, perché essi sono i veri blasfemi e bestemmiatori del loro stesso - preteso - Dio.


E anche oggi, più che mai, voglio chiudere con il mio consueto saluto, per voi amiche dilette e amici carissimi, con amore!


* * *


E ora, per un po', da me sarà silenzio.


* * *


Desidero precisare alcune cose, a seguito di una notte di riflessione e dello stimolo da parte di un messaggio di un amico.

Io qui mi occupo - in modo amatoriale - di Poesia, come sapete, e la Parola di cui parlo qui sopra e di cui dichiaro la tentazionedi un ammutolimento di fronte all'orrore è la Parola della Poesia. La parola della politica non mi compete se non come opinione.

Tuttavia, ripensandoci, non è vero che la Poesia sia impotente e flebile voce di fronte alla brutalità e alla barbarie dell'uomo sull'uomo, al contrario.
Da una parte tanti sono i Poeti, grandissimi, da Dante a Pasolini, che hanno saputo e voluto elevare la loro voce - e che voce - poetica e buttarla come una spada, o una vanga, nella mischia, nel sangue, o nella merda.
Dall'altra, se voglio essere coerente col mio discorso qui sopra ("Io mi rifiuto di vivere nel terrore") anche la voce innocente e apparentemente lieve della Lirica - il territorio in cui mi avventuro qui con voi - non ha ragione o motivo di tacere.
Anzi, se l'obbiettivo del terrore è oscurare e ottenebrare le nostre coscienze sotto una cappa di morte, noi, anche noi minuscoli dilettanti che scriviamo per la nostra semplice necessità di espressione, dobbiamo continuare a cantare, ad amare, e a cantare il nostro amore, per la vita, per la bellezza, per la carnalità, la spiritualità della nostra condizione umana. A dimostrare di fatto che no, costoro non ci fanno paura. Noi amiamo la vita, e temiamo di perderla. Al contrario di loro, che odiandola non pensano di aver nulla da perdere. Tuttavia, lo ripeto, io non temo affatto di morire se l'alternativa fosse quella di vivere nel regime da costoro propugnato, oppure in quello per reazione uguale e contraria imposto a noi su pretesto del terrore dalle forze oscure della reazione che abbiamo nelle nostre cantine, pronte a saltar fuori (limitazione dei diritti, delle libertà, dei movimenti, dei contatti tra sessi, popoli, etnie).

Sia ben chiaro dunque a questo punto che il mio silenzio ora non è di impotenza, ma di RISPETTO nei confronti delle persone che hanno perso la loro vita per un destino insensato, innocenti nel senso più pieno.

Sì, amiche care e amici, riprenderò presto a pubblicare, a esprimere in libertà il mio pensiero, il mio essere donna, libera, lesbica ed intellettuale (questo lo sottolineo non per compiacimento ma per provocazione, perché so come le ideologie che premono i grilletti di quei kalashnikov considerino questo come il concentrato dei loro demoni peggiori), il mio amore per la vita. La vita mia, delle persone, dell'Uomo, degli animali, del cosidetto "Creato".

Ancora, e sempre, con amore.



Milano, 14/15 Novembre 2015
Marianna Piani


. . .

mercoledì 11 novembre 2015

Il dirimpettaio


Amiche care, amici,

una breve composizione, un poco particolare, nata un mattino all'alba, mentre ricordavo - chissà perché - la mia prima cameretta da studentessa, a Bologna, affittata per poche lire, in un sobborgo non lontano dalle sedi universitarie che avrei dovuto frequentare.
Mi sentivo terribilmente sola e triste, era la prima volta che affrontavo un vero distacco dalla famiglia, un distacco che avevo cercato e voluto, intendiamoci, come tutte le adolescenti, ma che subivo con apprensione e con un senso di angoscia inspiegabile, quasi presentissi sordamente ciò che sarebbe accaduto di lì a non molto.

Iniziavano comunque per me degli anni pieni di entusiasmo e anche di incoscienza, all'epoca non mi era neppure chiaro cosa esattamente avrei voluto fare della mia vita, mi attirava l'arte e la scrittura, ma poi mi sarei dedicata più decisamente alle arti visive, per cui mi sentivo più dotata, sperando, vagamente, di poterne trarre un giorno di che vivere, ciò che alla fine è avvenuto, anche se attraverso strade e percorsi che allora non avrei mai potuto immaginare.
Di quel primo giorno, subito dopo essere sbarcata dalla Stazione Centrale, tristemente nota per fatti drammatici in quegli anni ancora vivi nella memoria, non ho impresso nella memoria tanto il mio primo ingresso alla Segreteria di Facoltà per i primi passi accademici di rito, quanto il mio incontro un poco traumatico con quell'appartamento sconosciuto, introdotto da un cerimonioso - forse fin troppo - padrone di casa, un signore di mezza età legato a certi ambienti religiosi salesiani. Mia mamma - che era a modo suo una credente - aveva cercato in questo modo una sorta di minima "garanzia" nel cercarmi un alloggio. Ero pur sempre una giovane ragazza di neanche diciannove anni, ed ero per la prima volta sola ad affrontare il mondo, lontana da casa.


La stanzetta era piccola, ma ricordo che aveva il soffitto sproporzionatamente alto, poiché era incastonata in un severo edificio d'epoca, privo di una architettura particolare, ma che di certo doveva aver visto molta Storia passare davano alla sua facciata. La stanza dava sul retro, verso un minuscolo cortiletto molto incolto e un vicolo pochissimo frequentato.
Nell'insieme ebbi un profondo senso di scoramento e angoscia, e trascorsi la notte, la mia prima notte di "libertà" e da "adulta", piangendo come una bimba, con la faccia affondata nel cuscino, che odorava vagamente di muffa mista a sapone di Marsiglia…




Tutto questo l'antefatto, ma non prendete tutto alla lettera come una pagina di diario, il ricordo si fonde in un'atmosfera tutta particolare, a un senso di smarrimento che mi appartiene oggi ancora.

Per voi, amiche dilette e amici cari questo frammento, ringraziandovi per la vostra presenza, un caro abbraccio, con amore.

M.P.




Il dirimpettaio


"Venga, s'accomodi"
disse al nuovo inquilino
che giungeva stanco
al suo nuovo soggiorno.

"Le ìndico la stanza -
entri... Le faccio strada"
e facendo strada aprì una porta
e poi un'altra, e un'altra ancora

dopo una incerta scalinata
"la stanza, veda, è questa"
facendosi da parte
passò di soppiatto uno straccio

sulla madia polverosa
"il balcone è piccolino"
(non voleva dire "angusto")
"ma è esposto sul giardino"

- che era uno scampolo di terreno
ricoperto di dense macchie
di verzura e rosmarino
e orlato da un contorto rovo.

"Qui non s'indugia alcuno
durante il giorno
a notte, appena qualche gatto"
di lì s'inerpicava edera tenace

sulle balaustre dei balconi
e sulle bigie cancellate:
di fronte, a pochi metri,
due finestre impolverate.

L'inquilino indugiò un istante,
sogguardò il locale triste,
il letto in ferro, conciato male,
e la cornice della finestra:

di là da questa, a poche braccia,
scorse dietro i vetri scivolare
l'ombra fosca sulla tendina
dello sfuggente dirimpettaio.

E lo colse un'angoscia tale,
mai provata prima.



Marianna Piani
Milano, 24 Maggio 2015


-

sabato 7 novembre 2015

Il Poggio sopra il Lago


Amiche care, amici,

Vi propongo oggi un breve "viaggio sentimentale", io e voi assieme, attraverso i luoghi, i miei più amati, sopra il Lago Maggiore, tra Arona e Stresa. Quel poggio che s'apre alla valle e al bacino lacustre, un po' dall'alto, proprio dietro casa.
Un paesaggio insieme dolce, e aspro, tra prati d'un verde inimitabile e scure macchie boschive sulle alture, tra una profonda e antica antropizzazione, con architetture  nobili e rurali in pacifica, si potrebbe dire amichevole convivenza, palazzine dal passato sontuoso spesso malinconicamente abbandonate, e la selvaggia presenza della natura di queste zone, dai forti e marcati contrasti e sbalzi d'umore, di stagione in stagione.
È il luogo dove mi sono innamorata dell'unico uomo della mia vita, che ancora adesso mi è rimasto amico e protettivo come un fratello, è il luogo dove mi rifugio quando la depressione e l'angoscia sembrano voler prendere il sopravvento sulla mia vita, è il luogo dove con più serenità posso dedicarmi alla scrittura, alla riflessione, all'assenza  dalla mondanità e dal brusio del quotidiano.

Amiche dilette, amici, vi lascio alla lettura, sperando di riuscire a trasmettervi un poca dell'incanto di questi luoghi, certo simili ai luoghi da voi per gli stessi motivi prediletti, e per questo penso che mi capirete, in questo mio racconto.

Con amore

M.P.





(Nebbiuno, Lake Maggiore - Private Shot)







Il Poggio sopra il Lago


Appoggiata a braccia nude
sul parapetto in legno grezzo
(che contrasto fra la mia pelle
- penso - così bianca, venata
azzurra, e quel grigio-nero
nodoso pino), ascolto
il mio lago laggiù che sbadiglia
nella quieta angoscia serale,
contemplo i natanti rigare
la superficie scintillante
di piccole schive gocce
di pianto, e respiro il sospiro
alato di esigui stormi
di folaghe brune che s'alzano
in volo assieme tutte festanti
nel loro omaggio conclusivo
al Sole che, come un attore
si lascia cadere innanzi
il rosso gravido sipario.

Da questo stesso poggio
ho veduto sgranarsi anni,
e stagioni, e gli inverni
dai cieli che paiono sul punto
di franare a fondovalle
colmando il lago di scorie
di ceneri umane e di tufo
che si trasmuta subito in torba
tra i canneti del finelago.
E poi le Estati improvvise
precipitare dalle alture
in forma di vampe di pioppi
e di cardi scarmigliati,
giù dalle ribollenti radure,
dall'ultimi strappi del bosco.
E le due stagioni di mezzo,
sorelle, una bionda, l'altra bruna,
l'una serena e gaia, l'altra
splendente di foglie in agonia
d'una ineffabile malinconia.

Da questo poggio, arioso e ampio,
ritaglio una pezza di creato
e l'aggiusto sulla coperta,
cucita accanto a tutte l'altre
per comporre questa trapunta
destrutturata ch'è la mia vita;
mi appoggio, sul parapetto,
il seno che s'empie e respira
tra le braccia a sé conserte
(il sole arrossendo mi bacia
giusto il cuore, in mezzo ai seni,
accendendone la grazia
di femmineo cedevole fulgore)
e lo sguardo si lascia struggere
là dove la valle e il giorno chiude
e la notte esce dal suo sacello
e passo passo, altura
dopo altura, scavalcando
i primi acquitrini, salendo
i sagrati e i campanili
e i borghi, e i porticcioli,
e i principeschi giardini
popolati di cigni e rose,
s'accinge a smorzare il lume al mondo.

Io rimango sola, stupita,
ad affrontare quest'ombrosa
Dama Nera, io sola che indubbiamente muto
mentre tutto intorno è immutabile
nel suo perpetuo ricorso circolare
sempre eguale, sebbene mai lo stesso.
Da questo terrazzo intesso
la trama del mio naufragio,
e quando infine il tempo
e lo spazio privati della luce
convergono in unico punto,
(così sono io - rifletto -
mentre osservo la mia ombra
fuggire dai miei passi
e sciogliersi infine nella bruma)
mi seggo, sul tavolato
che ancora emana calore,
raccolgo tra le mie braccia
le gambe nude e appoggio
la fronte sulle ginocchia
lasciando spiovere i capelli
avanti a me, come un diaframma
di seta a frange nere
tra me e l'abisso
che mi s'apre innanzi,
in difesa della mia malcerta
sanità mentale.

E sfuggendo finalmente
al mio corpo, mutata
in un velo nuziale di nebbia
mi lascio scivolare inerte
lungo la valle, quietamente
dolcemente ora sopita.


Marianna Piani
Nebbiuno/Milano 19-21 Maggio 2015


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mercoledì 4 novembre 2015

La pungente nostalgia



Amiche care, amici,

Lasciatemi ancora una volta indulgere nella serenità ormai perduta di alcuni paesaggi e ricordi d'infanzia.

È un tempo così pieno di magia, quando lo si ripensa a distanza di tempo. Ma quando lo vivevamo, non lo sapevamo, non ne eravamo coscienti, era semplicemente il nostro tempo, il passato ancora non non aveva senso, per noi, e il futuro era qualcosa che non ci riguardava. Né avevamo un paragone cui riferirci: se avevamo la fortuna di vivere davvero in un tempo sereno, agiato, e senza alcun problema, amati e protetti, ciò lo consideravamo semplicemente la nostra condizione, e non intuivamo che vagamente e senza davvero crederci che avrebbe potuto essere diversa di così. Come quegli uccelli liberi e giovani che a primavera si scatenano in voli infiniti in un cielo terso e azzurro lasciandosi andare a una infrenabile espressione di felicità, inconsapevoli che proprio quella fosse "la felicità" massima a loro concessa dalla Natura.
Da qui nasce il rimpianto, e la nostalgia: dal rendersi conto, ora che è tardi, di aver vissuto momenti di incomparabile gioia, senza averla saputa riconoscere.

Per voi, amiche dilette e amici, questa composizione in forma di "canzone", con amore.

M.P.




La pungente nostalgia 
          




          "Tutti riceviamo un dono.
           Poi, non ricordiamo piú
           né da chi né che sia.
           Soltanto, ne conserviamo
           - pungente e senza condono -
           la spina della nostalgia."

          (da Res amissa - 1987 - Giorgio Caproni)


Ecco: l'ombra dei rovi, sulle strade bianche,
più avanti le chiome dei gelsi, dall'acuto profumo
di crema, che richiama le vespe, e oltre
il moreto che copre il fossato, più volte
depredato, a costo di braccia, e gambe nude
sfregiate di graffi e ferite; e qui le fughe
davanti ai ragni crociati - o peggio, a quelli
dalle lunghe fini zampe e l'addome villoso
così orrendo da forzarci a strillare.

Ancora più avanti, i bassi muretti di pietre affilate
come vetri spaccati, da valicare poiché
per noi non v'era muro o confine che si potresse
giammai tollerare. Per questo puntavamo
i nostri sandaletti indifesi sull'infido pietrame
e non gridavamo, se ci ferivamo, per punto
d'onore, terrorizzate pure di stanare le serpi
assassine locali, presenti in mille narrari
e miti familiari, ma mai incontrate davvero.

Di contro, di cavallette e locuste, e farfalle,
ne stanavamo a bizzeffe, dal prato, a ogni passo:
chi ricorda le grasse farfalle dalle brevi ali
brune e mattone, che parevano piccole goffe
fate del bosco, scarse in magia?
E intanto, noi raccapricciando scuotevamo convulse
dalle cosce, da sotto le gonne, locuste impazzite
come noi dal terrore, saltando e strillando
e ridendo, tra le alte piante, sfiorando le ortiche.

Ecco, io fui una di queste minute
creature di selva: il seno non ancora
formato, le braccia e le gambe come magre
festuche, i capelli sempre impigliati nei rami
dei mille pensieri, e rosse ginocchia sbucciate
sotto la gonna strappata, rossa di terra;
la rossa avara terra dell'altipiano, laddove
giunge l'odore del mare, da lontano,
riconoscibile tra le mille fragranze


                                   della pineta.

* * *

Il Tempo è una marea, che non ricorre,
che non ritorna due volte a carezzare
la stessa scogliera; il Tempo è un mare
che muta a ogni onda, e sprofonda
in abissi che sono d'oblio, e quando
oblio non è, giunge il salmastro rimpianto.
Il sottobosco in autunno nella pineta riarsa
è un letto di aghi di pino, gialli e bruni,
e il profumo pungente che emana -

                                 è la nostalgia.


Marianna Piani
Nebbiuno, 18 Maggio 2015


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sabato 31 ottobre 2015

Il cuore a diec'anni


Amiche care, amici,

ritorno ai ricordi, alla bella e felice - per me - età infantile, in cui ho potuto godere della vicinanza di una famiglia meravigliosa:
un papà dolcissimo, tenero, un ingegnere tutt'altro che "freddo manipolatore di numeri", invece un amante del bello, che mi ha insegnato e trasmesso tutto il suo amore per l'arte e la scrittura (ho i suoi quaderni "segreti", fitti di una scrittura minuta e regolare, con cui tracciava note, bozze di lettere, commenti, piccoli racconti); una mamma bellissima (credetemi, non esagero, era fisicamente una donna di una bellezza straordinaria, anche se priva di malizia o di esibizionismo)  che era una autentica artista, anche se non di fama, e un'artista in tutti i sensi, anche caratteriali, da cui ho appreso la mia passione per la musica .

Purtroppo tutto ciò mi fu negato di colpo, senza alcun preavviso, così come fa a volte la vita - o per chi ha fede iddio - forse per metterci alla prova.
Però quegli anni felici sono durati abbastanza da depositarsi nella mia anima, come una solida base, come le fondamenta profonde e ben poggiate di un edificio, e mi hanno resa forte, concedendomi di "reggere" allo choc, pur non senza scompensi e squilibri; e ancora adesso essi sono l'eredità, il patrimonio morale che mi consente, pur nella mia povertà, nella mia solitudine, di vivere, positivamente, essi sono tutto il mio coraggio e la mia fortezza.

Posso ben dire di vivere grazie a loro e per loro. Loro continuano a salvarmi ancora adesso: quando sprofondo in uno dei miei abissi di depressione e inizio a fantasticare sulla morte, il loro ricordo mi soccorre, e mi rendo conto che farei loro un torto immenso e imperdonabile arrendendomi… Per cui mi sento in dovere morale di continuare a combattere, e mi risollevo.

Bene, l'infanzia tuttavia non è un paradiso uniforme e sereno, nel viverla dobbiamo affrontare piccoli dolori, piccole avversità (nel mio caso piccole, nel caso di chi non ha avuto la mia stessa fortuna possono trattarsi anche di terribili drammi), e comunque come tali non sono diversi e meno incisivi dei dolori, delle tristezze, delle solitudini, delle paure che soffriremo da adulti. Anzi, in qualche modo, sono anche più violente e strazianti. C'è però una differenza sostanziale, e su questa ho tracciato questa composizione, che vorrei ora condividere con voi, amiche dilette e amici cari, con amore.

M.P.






Il cuore a diec'anni


Se premo ben saldo il viso al guanciale
sentirò il mio proprio cuore pulsare:
forse nel rammentare l'ineguagliata
grazia dell'infanzia amata, sobbalza.

Non facevo così io a diec'anni
quando mi rifugiavo nel letto immenso
di mamma, e schiacciavo il viso arrossato
nel guanciale, pur di non farmi scoprire?

E così allora lo sentivo, il cuore,
che scalpitava nel petto, e nell'orecchio,
nell'eccitazione del gioco, affannata,
e intanto scoprivo il mio essere viva

cos'era, e di dove veniva. Più tardi
avrei appreso dai libri e dai poeti
che quell'oggetto, quel grumo di carne
che si dibatteva nel mio seno piccino

era il rosso, era il fuoco, la giovinezza,
l'amore, il coraggio, la fede che arde.
Tutto racchiuso in un piccolo astuccio
bivalve, gelosamente serrato.

L'avrebbe forzato un giorno qualcuno
spingendo un coltello affilato tra i bordi
serrati, e allora infine avrei conosciuto
qual è lo strazio d'un cuore violato.
 


* * *

Se premo forte il viso contro il guanciale
le lacrime imprigiono, tra gote e labbra
e il bianco cotone, che s'impregna d'amaro:
un sapore che sa di lontananza.

Non facevo così, a diec'anni, affranta
per qualche motivo, per celare il pianto
e i singhiozzi raggrumata nel mio lettino,
sola, orgogliosa di non farmi scoprire?

In cosa è diverso quel pianto di bimba
da quello che ora a stento trattengo
nel fragile astuccio rosso rubino
che palpita qui, nel mio seno da grande?

Il dolore, direi, è proprio lo stesso.
Di altro c'è solo, ora, il senso di morte.



Marianna Piani
Milano, 16 Maggio 2015


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mercoledì 28 ottobre 2015

Cancellata


Amiche care, amici,

alcuni di coloro che mi seguono da più lungo tempo sanno che io soffro di un male ricorrente, che mi costringe due o tre volte all'anno a un ricovero - quasi coatto - per ritarare e riformulare il sostegno farmacologico che mi consente di tenere il démone sotto controllo.
Questa composizione, scritta non molto dopo uno di questi ricoveri (brevi, per cortuna, di solito bastano due o tre giorni) ne è la cronaca puntuale, anche se trattata non in modo oggettivo e neppure soggettivo, ma dal punto di vista della malattia stessa.
Sono versi difficili da scrivere, per me, perché richiedono di richiamare alla memoria sensazioni che si preferirebbe rimuovere, dimenticare, avvenimenti che si vorrebbe buttare dietro le spalle, e basta. Il senso di angoscia e di smarrimento che si prova quando il proprio corpo smette di rispondere ai propri pensieri, e i propri pensieri smarriscono il sentiero inagevole ma protetto della ragione, per avventurarsi nell'oscura foresta dell'irrazionale.

Fortunatamente la medicina oggi offre rimedi potenti e non distruttivi, in grado di farmi riemergere presto a una accettabile "normalità", mai tanto agognata e rimpianta come quando mi trovo in quella situazione: io so - ragionevolmente - che è un momento di passaggio e che lo supererò, ma ogni volta, quando ci ricado, questa consapevolezza non mi aiuta per nulla, predominando invece il senso di abbandono e di perdizione, come all'inizio di un viaggio sia pur noto, in cui l'unica cosa certa è che siamo partiti, mentre l'arrivo, o il ritorno, rimangono nel segno dell'incognita.

Se mi permattete, condivido con voi queste riflessioni,  amiche dilette e amici cari, sempre con amore.

M.P.





Cancellata


Quando la cancellata grigiazzurra
si chiude con clangore alle mie spalle,
allora comprendo che la mia gabbia
non sono le sbarre di metallo
ossidato né il muro di cemento
e intonaco spaccato, abitato
da scheletriche lucertole affannate.

Sono fatte di niente le barriere
che mi tengono qui prigioniera,
ben più invincibili delle funi
che potrebbero legarmi i polsi
dietro i fianchi, più incorruttibili
della catena che potrebbe inchiodarmi
la caviglia al muro di questa cella.

La mia camera è di vetro, ma
senza finestre, senza visione:
a battere coi pugni le pareti
risuona come una brocca
vuota e fratta, e tutto questo
non porta luce, mi procura solo
ancora intollerabile dolore.

Chiunque può accostarmi, qui,
prendermi per mano, per trarmi
dove ogni volontà è negata,
chiunque può darmi aiuto oppure
violare la mia anima, il segreto
del mio spirito fiaccato,
chiunque ha su me dominio - illimitato.

Vi sono angeli e officianti qui
che s'aggirano attorno alle mie viventi
spoglie, dispensando misterici rimedi,
e parole, parole che non comprendo...
Per chi vive per amore di parole
ogni ingorgo di parole e di sentenze
è sofferenza aggiunta a sofferenza.

Cinquanta millilitri di tossina
per uccidere la mia mente, per fiaccare
il mio intelletto che s'accascia
già disperso nel labirinto della ragione,
per strappare via l'anima da un corpo
che è ancora bello da spiare,
oscenamente nudo sotto il camicione.

Mentre entra in circolo la sostanza
le palpebre si richiudono tumide e pesanti
sopra l'iride 
febbricitante, e quindi io
che sto credendo di morire

 non ne capisco il senso. Intanto
su tutto veglia l'orologio della corsia
costantemente indietro di due ore e trenta.




Marianna Piani
Milano, 11 Maggio 2015


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sabato 24 ottobre 2015

Suonatore errante


Amiche care, amici,

questa composizione, come vedete in calce, risale a maggio di quest'anno.
Come forse alcuni di voi sanno, io lavoro come freelance indipendente (con partita IVA), e di solito lavoro nel mio piccolo Studio, e incontro il committente, o il cliente, solo per meeting e presentazioni o consegne, quando addirittura i contatti non si limitano a email, SMS e conference calls. In quel periodo però avevo un incarico piuttosto importante per una società di produzione che richiedeva la mia presenza quotidiana presso gli uffici dell'Azienda, già a partire fin dall'alba. E così, come fa la gran parte delle persone che lavora comunemente nelle Banche, nella scuola, negli Uffici, prendevo ogni giorno di primissimo mattino la Metro ad Amendola (la stazione più vicina a dove abito) per recarmi dall'altra parte della città dov'era la Sede centrale dell'Azienda, un percorso piuttosto lungo che tra l'altro richiedeva due cambi di linea e almeno 45 minuti di viaggio, sia all'andata che al ritorno.

Non facendolo usualmente, sono sempre piuttosto sensibile alle situazioni che offre questo mezzo di trasporto collettivo, dove una folla di persone di ogni ceto, sesso, etnia, trascorre un periodo di forzata promiscuità, temperata da una forma di auto-isolamento protettivo. Mi ha sempre colpito quale senso di solitudine si legge nei volti delle persone, una solitudine paradossalmente accentuata, forse perfino creata, proprio dall'affollamento. Gli individui, forzati ad una vicinanza fino al contatto con estranei, del tutto innaturale, difendono istintivamente la loro individualità cercando di creare una barriera che è tanto più densa e impenetrabile quanto più ristretta è l'area di libertà attorno a loro.

Ma vi sono momenti, quasi surreali in questo contesto, in cui questo viaggiare in apnea, richiusi come in uno scafandro ermetico a prova d'emozione, viene scosso e messo in discussione da un qualche evento che, sia pure affatto raro, si discosta dal piatto procedere ripetitivo del solito trantran quotidiano.
Di questo io cerco di raccontare in questa composizione, più narrativa che lirica: prendetela come un bozzetto preso al volo, o un'istantanea rubata, un'incongruenza, una turbolenza nel flusso della routine quotidiana, come quella melodia dolce e triste che emerge all'improvviso dal rumore di fondo grigio e assordante della corsa del convoglio dentro al tunnel...

Come sempre, condivido con voi, amiche dilette e amici, questi pensieri, con amore.

M.P.







Suonatore errante


La solitudine contemporanea
viaggia e alloggia nelle costipate
carrozze della metropolitana.

Visi di donne, uomini, ragazze
affrante sulle panche, imbambolate,
destini provvisoriamente uniti

in un mare d'estraneità dal corso
della realtà, forzosamente, come
un discorso frantumato, interrotto.

Nulla è meno armonico del suono
dei treni dissipati quasi con rabbia
nella canna di fucile sotterranea.

Per questo, ogni parola è vana,
ogni pensiero è perso in un altro,
ogni sguardo è riflesso contro una lastra.

Lo scuotimento inerte sugli scambi
desta all'improvviso molti sopori
e ne promuove altri, e altri scioglie

dietro i sogni e le chimere degli stanchi
viaggiatori, sopraffatti dai rumori
e da solitudini travolgenti.

Forse per questo giunge come strano,
dalla distanza incommensurabile
del fondo del convoglio, questo suono

di una malinconica melodia
tanto triste da parere avulsa
da ogni sentire terreno e umano.

Tanto desolata da insinuarsi
tra quei corpi astanti - quei visi assenti,
quelle mani aggrappate alle barre

d'alluminio raggelanti, radici
di mangrovie affioranti dal metallo
del pavimento - risuonando accordi

esotici e divaganti per le menti
inconsapevolmente già in ascolto
da un lacerto immemorabile di Storia.

Da quella Storia, che in ognuno giace,
da quei tempi, da quegli eventi, emerge
come un dio selvaggio - e senza nome -

il suonatore dall'alito di vino
dal cinereo volto scarno incolto
e l'olezzo di miseria nelle mani.

Aleggia sostenuto dal fraseggio
di un'orchestra immaginaria, dal coro
degli angeli suoi fratelli, finché

s'interrompe sull'accordo, affranto,
e mentre il treno torna al sottosuolo
impetra una moneta di compianto.



Marianna Piani
Milano, 8 maggio 2015

mercoledì 21 ottobre 2015

Tre di Maggio



Amiche care, amici,

l'anniversario della fine di un'amicizia e di un amore, e il racconto di ciò che avrebbe potuto essere, se l'amore avesse retto al tempo, io e la persona amata, coi suoi sogni, le sue visioni, i suoi racconti, le sue fascinazioni… Immaginando ciò che avrebbe potuto essere, e non è stato. No, senza rimpianto, solo un poca di amarezza, e tanta tenerezza.


Per voi, amiche dilette, con amore

M.P.







Tre di Maggio


È il tre maggio, è notte,
è trascorso l'intero giro

di quest'anno senza resipro,
io giaccio nel letto vasto e vuoto
sotto un piumino lieve
che non mi grava il corpo,
ma mi protegge, invece,
mentre altri sono i gravami
che mi schiacciano nel buio
di questa stanza cupa e sorda
che fu la nostra.

Nemmeno un bisbiglio più proviene
dalla strada, nonostante
la finestra sia socchiusa;
il vento si è placato ormai
da qualche ora, mentre
il temporale di ieri notte
con il suo rombar di tuono
 
e lo scrosciare della pioggia
sui lustri lastricati come torrenti

non è più nemmeno
uno sbiadito ricordo.

Tu avresti dovuto essere qui,
a quest'ora, accanto a me,
coricata al mio fianco,
gli occhi nel buio schiusi
sebbene così stanchi,
le mani dietro la nuca
a giocare con quei tuoi capelli
di corallo, come se fosse
un nonnulla quella tua bellezza
radiante di sé anche
nello scuro più profondo.

Avresti dovuto essere qui,
a un palmo dal mio viso,
a ragionare di stelle
e di astri, di nebulose, e galassie,
e di spazi cosmici e anni-luce,
in questa tua passione sconfinata

per l'Infinito, per quegli insondabili
misteri del Creato
in cui tu ti perdevi come in sogno,
e io dietro te fedele, a inseguire te
e il tuo sogno.

Avresti potuto essermi vicina,
proprio ora, supina
su questo vasto vergine giaciglio,
a bisbigliare nelle mie orecchie
cose che non sapevo,
per vedermi stupefatta, estasiata;
cose di mondi così esotici e lontani
da farmi trasognare, nel dormiveglia,
di voli, di smarrimenti,
di cieli senza confini
di viaggi senza ritorni.

E io sarei rimasta in silenzio
per non fermare quel tuo
prodigioso narrare,
ammirata, e forse anche
perché delle mie Emily,
delle mie Sylvie, delle mie
pallide sacerdotesse di penna e carta
a te non importava più di tanto,
ti bastava, indulgente,
accarezzarmi i capelli
e soffiarmi lieve in viso:

per spazzare via, tu dicevi,
certi pessimi pensieri.
E allora, restavamo in silenzio
entrambe, come assorte,
lungamente,
a guardare le stelle fluorescenti
che avevamo incollato al soffitto,
proprio sopra il nostro letto,
che rilucevano nel buio
dapprima intense, poi, gradualmente,
sempre più spente.

"Guarda che belle
le nostre stelle" dicevi, all'improvviso.
e io sapevo che da quel momento
la nostra notte chiara
si sarebbe popolata
di vividi colori,
delle nostre tenere follie,
 
dei nostri colmi cuori,
delle melodie, delle carezze,
delle nostre umili fragili
fuggevoli certezze.

Avresti potuto essere qui, ora,
come allora, accanto a me,
su questo letto, in questa stanza,
in questo lato della Galassia,
in questo angolo dell'Universo
tutto nostro.


Marianna Piani
Milano, 3 Maggio 2015

sabato 17 ottobre 2015

Ultima pioggia d'Aprile


Amiche dilette, amici,

un altro "paesaggio con figure", del tutto diverso, quasi opposto al precedente ("Abbondanza"), seppure composto a pochissimi giorni di distanza da quello.
Vi sono giorni in cui l'angoscia di vivere mi prende a tal punto da non riuscire a rimanere concentrata su nulla di ciò che sto facendo, per lavoro, per dovere o per svago che sia. Sento la necessità, l'urgenza infrenabile, di uscire, di gridare alla gente il mio disagio.

E non crediate che la scrittura mi soccorra: come ho detto in altre occasioni in queste pagine, la scrittura non è una terapia, non è psicoanalisi o indagine filosofica, mentre la vita ci assale con le sue emozioni più acute, siano esse di gioia come di dolore, noi possiamo solo limitarci a vivere, non ci è dato di ragionarci o di riversare queste emozioni in qualcosa di compiuto e intelligibile. E soprattutto, quando infine ne fossimo in grado, tale scrittura non può darci alcun sollievo. La scrittura per me è solo un mezzo per non perdere del tutto la ragione, per non smarrire la rotta nel mondo reale in mezzo a queste bonacce e a queste tempeste dell'anima. La scrittura non salva, accompagna soltanto. Ma può a volte spezzare il muro della solitudine, donando qualcosa di sé al mondo ("donando", badate bene, non "vendendo", per quello ci sono altri mestieri, altrettanto antichi)…

Per questo, per fortuna, ci siete voi, amiche dilette e amici cari, cui posso rivolgermi,  con amore.

M.P.






Ultima pioggia d'Aprile


La città s'è spenta strada per strada
sciogliendosi nella malinconia
di questo brusio d'acqua e di folla,
di questo sciabordio di vetture
che scivolano torpide nelle vie
allagate in agitate fiumane.

La luce s'è fatta gravido piombo,
le lamiere dei tetti, e gli asfalti
delle strade sono lucide pelli
di rospi e di serpenti di mare,
i passanti, che si fanno più radi,
scivolano in fretta lungo i muri

come se li gravasse una colpa.
Io non dormo, aggrappata al guanciale,
vi sprofondo l'orecchio, ascolto
semi sommersa nel lino la voce
salmodiante dell'acqua che percuote
venando i vetri delle finestre

d'un pianto che non si placa, né placa.

Potrei uscire, invece, gettarmi
nella via, così come sono, indosso
una vestina bianca, e un paio
di scarpe leggere, bianche anch'esse,
i piedi affondati nella corrente

che turbina inquieta verso la piazza,
fradicie d'acqua e sgomento le gambe,
il petto ansante sotto la camicia
tutta incollata alla pelle, le braccia
strette al seno, gelate, e sulle spalle
i capelli lustri, inondati, spioventi:

potrei uscire e inveire da pazza
alle lastre serrate dei palazzi,
ai fari giallastri degli autotreni
e a quelli violetti dei lampioni
di strada, alle serrande sbarrate,
alla gente che sfugge indifferente -

gridare tutto il mio inascoltato
                                  furore!



Marianna Piani
Milano, 2 Maggio 2015


mercoledì 14 ottobre 2015

Abbondanza


Amiche care, amici,

ero felice… O almeno così mi sentivo, in quei giorni di fine Aprile. La primavera era nell'aria, nel respiro, nel corpo, si stava aprendo una stagione di luce, di vitalità ed eccitazione.

Sapete, il mio male mi porta a momenti di grande esaltazione, seguiti da crolli verticali nella più scura depressione, e quello allora poteva sembrare uno di quei momenti di "alte luci"; ma in realtà non lo era, per fortuna.  Ho imparato col tempo a distinguere per tempo gli "attacchi" perniciosi del male dai più normali momenti alti o bassi emotivi, simili a quelli che a ognuno capita provare nella vita. Gli episodi di parossismo maniacale, come si chiamano tecnicamente, arrivano improvvisi, inattesi e affatto motivati da nulla che non sia un cortocircuito tutto e solo mentale, com poca o nessuna attinenza col mondo "reale" circostante. Questi momenti di felicità "normale" sono invece chiaramente indottida condizioni particolari, ambientali, affettive.
Nel mio caso la Natura è di certo la fonte più grande di gioia e serenità, le sensazioni che suscita in me sono sempre cariche di emozione e di piacere, spirituale, visivo, ma anche fisico, tattile, sensuale.
In questa composizione, strutturalmente semplicissima, ho cercato di restituire queste sensazioni, queste emozioni, come in un quadretto impressionistico, secondo una mia consueta predilezione nell'affidarmi alle immagini e alla loro evocazione.

Condivido con voi questi versi, di tono sereno, dove insolitamente per me quasi non ha spazio la malinconia.

Con amore, amiche dilette e amici.

M.P.





Abbondanza


Evviva, evviva quest'abbondanza!
No, non dico di tesori, o di quattrini,
né di bicchieri e piatti colmi:
dico di luce, di vita, di baldanza,
di sfrigolar di gente nelle piazze,
di pullular di rane negli acquitrini
lungo i bordi delle strade.

Dico il sole che s'avanza
cingendosi dell'alloro del trionfo,
arroventando l'asfalto delle vie
che s'incendia sotto gli assi
degli autocarri, dico della luce
che ci abbaglia rimbalzando
contro le lastre dei palazzi

che il bagliore manda in pezzi.
Dico i fiori che tracimano
nei prati, allagando d'oro

di topazio e di rubino
il nostro sguardo trepidante
mentre un cielo acquamarina
allaga ogni residuo spazio.

Dico il cielo degli amanti
che consumano il loro ardore
in letti sfatti di calore, copulando
irrorati dei loro dolci umori
fin sull'impiantito della cucina,
la passione ribollente nella pelle
contro il freddo delle piastrelle.

Dico il manto delle nebbie
che si squarcia al mattino
come l'abito che l'impazienza
ti lacera sul seno rivelando
in pieno sole il tuo bel petto
candido come il marmo fino,
palpitante come d'una colomba.

Dico i prati, i pasturi, i boschi
in rigoglio di violette e di siepi
di lamponi, i torrenti roridi
dell'acque dei ghiacciai più alti,
i voli quasi folli delle api
tra le aiuole dei rododendri
e delle rose rosse, inebriate.

Dico il mio stare al culmine del poggio
a osservar le rondini a cento e cento
turbinare come lucide saette
sopra il lago, e a pelo tra i canneti
e i salici secolari delle rive caste
rabbrividenti al deflagrare
delle fioriture di rododendri

e di rosse labbra adolescenti:
dico le ragazze dalle svelte gambe
di cerbiatte che sciamano cicalando
negli aifon in cima ai loro tacchi alti,
ridendo al mondo intero e alla vita
che le irrora di bellezza immeritata,
inspiegata, come le campanule nei prati -

queste frullanti Effimere sfuggenti.
Ecco: dico la Stagione dei fervori,
delle ortensie e degli amori
consumati in mezzo ai fiori
o nelle piazze cittadine
o sui pavimenti delle cucine,
o agli ingressi delle officine,

Dico di questa stagione esplosa
all'improvviso nelle vie
travolgendo come un rivo
impetuoso ogni anima,
ogni corpo, e ogni cosa.

Dico: evviva, evviva
questa splendida abbondanza!


Marianna Piani
Milano, 26 Aprile 2015