Amiche care, amici,
alcuni di coloro che mi seguono da più lungo tempo sanno che io soffro di un male ricorrente, che mi costringe due o tre volte all'anno a un ricovero - quasi coatto - per ritarare e riformulare il sostegno farmacologico che mi consente di tenere il démone sotto controllo.
Questa composizione, scritta non molto dopo uno di questi ricoveri (brevi, per cortuna, di solito bastano due o tre giorni) ne è la cronaca puntuale, anche se trattata non in modo oggettivo e neppure soggettivo, ma dal punto di vista della malattia stessa.
Sono versi difficili da scrivere, per me, perché richiedono di richiamare alla memoria sensazioni che si preferirebbe rimuovere, dimenticare, avvenimenti che si vorrebbe buttare dietro le spalle, e basta. Il senso di angoscia e di smarrimento che si prova quando il proprio corpo smette di rispondere ai propri pensieri, e i propri pensieri smarriscono il sentiero inagevole ma protetto della ragione, per avventurarsi nell'oscura foresta dell'irrazionale.
Fortunatamente la medicina oggi offre rimedi potenti e non distruttivi, in grado di farmi riemergere presto a una accettabile "normalità", mai tanto agognata e rimpianta come quando mi trovo in quella situazione: io so - ragionevolmente - che è un momento di passaggio e che lo supererò, ma ogni volta, quando ci ricado, questa consapevolezza non mi aiuta per nulla, predominando invece il senso di abbandono e di perdizione, come all'inizio di un viaggio sia pur noto, in cui l'unica cosa certa è che siamo partiti, mentre l'arrivo, o il ritorno, rimangono nel segno dell'incognita.
Se mi permattete, condivido con voi queste riflessioni, amiche dilette e amici cari, sempre con amore.
M.P.
Cancellata
Quando la cancellata grigiazzurra
si chiude con clangore alle mie spalle,
allora comprendo che la mia gabbia
non sono le sbarre di metallo
ossidato né il muro di cemento
e intonaco spaccato, abitato
da scheletriche lucertole affannate.
Sono fatte di niente le barriere
che mi tengono qui prigioniera,
ben più invincibili delle funi
che potrebbero legarmi i polsi
dietro i fianchi, più incorruttibili
della catena che potrebbe inchiodarmi
la caviglia al muro di questa cella.
La mia camera è di vetro, ma
senza finestre, senza visione:
a battere coi pugni le pareti
risuona come una brocca
vuota e fratta, e tutto questo
non porta luce, mi procura solo
ancora intollerabile dolore.
Chiunque può accostarmi, qui,
prendermi per mano, per trarmi
dove ogni volontà è negata,
chiunque può darmi aiuto oppure
violare la mia anima, il segreto
del mio spirito fiaccato,
chiunque ha su me dominio - illimitato.
Vi sono angeli e officianti qui
che s'aggirano attorno alle mie viventi
spoglie, dispensando misterici rimedi,
e parole, parole che non comprendo...
Per chi vive per amore di parole
ogni ingorgo di parole e di sentenze
è sofferenza aggiunta a sofferenza.
Cinquanta millilitri di tossina
per uccidere la mia mente, per fiaccare
il mio intelletto che s'accascia
già disperso nel labirinto della ragione,
per strappare via l'anima da un corpo
che è ancora bello da spiare,
oscenamente nudo sotto il camicione.
Mentre entra in circolo la sostanza
le palpebre si richiudono tumide e pesanti
sopra l'iride febbricitante, e quindi io
che sto credendo di morire
non ne capisco il senso. Intanto
su tutto veglia l'orologio della corsia
costantemente indietro di due ore e trenta.
Marianna Piani
Milano, 11 Maggio 2015
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Marianna Piani
Milano, 11 Maggio 2015
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