«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

mercoledì 30 marzo 2016

Stella all'incrocio



Amiche care, amici,

Ancora un ritratto urbano e notturno, questa volta un paesaggio con figure, o forse un piccolo reportage fotografico, in BN, alla maniera di un
Robert Doisneau.
La Stella di cui si occupa questo componimento è una giovanissima prostituta, che ho visto "esercitare" all'incrocio situato a poche centinaia di metri da casa mia, a Milano, una notte che rientravo tardi da una riunione a bordo d'un taxi.
È stato un lampo, un passaggio rapido, come uno scatto fotografico, sotto i fari violacei della vettura.
Quel tanto per cogliere una bellezza non vistosa, nemmeno virginale ovviamente, ma incredibilmente "innocente". Da qualche indizio (ma non posso esserne sicura, perché era di corporatura minuta, la pelle bronzea, perfetta, mani e piedi piccoli, femminilissimi) potrebbe essere stata una giovanissima transessuale, poiché la zona è frequentata da questo genere di prostituzione, ma ciò non importa, anzi, sarebbe ancor più sorprendente - e in certo modo inquietante - questa bellezza chiara, emozionante, al limite dell'adolescenza, incastonata in un quadro così sordido e cupo.
Un contrasto in qualche modo intollerabile, quale solo le metropoli di una certa dimensione sanno dare.

Tristezza estrema della condizione femminile, del mercato del sesso e del  corpo tacitamente tollerato, forse perfino incoraggiato, sui bordi delle nostre strade.
Che storia, che vita si cela dietro quell'esile e perfetto, giovanissimo corpo di donna (un transessuale, se tale fosse, è una donna, forse per certi aspetti perfino di più di una donna "vera", perché è il risultato di un percorso umano, e non di una casualità biologica)? Quale è e sarà il suo destino?
Questo pensiero mi trasmette una malinconia infinita.


Con dolente amore


M.P.






Stella all'incrocio

 

Quella ragazza, forse vent'anni,
le lunghe infinite bellissime gambe
elevate al cielo da quei tacchi
spropositati, i capelli in noce pregiato
che piovono molli, appena ondulati
fino alla vita, fino alle anche,
le braccia brune atteggiate
e rifinite come quelle d'un marmo
canoviano, così fini e sottili
da dare emozione al solo mirarle.

Quella ragazza, della bellezza
e splendore del Sole di Giugno,
lo sguardo lontano - offuscato
da un'ombra liquida e greve -
lontano da quelle pupille, impure
ma innocenti, come gemme
prima del taglio,
e quelle labbra,
purpuree e risolute,

troppo avvezze a mentire.
(Oh, quelle labbra, un poco
imbronciate, quelle labbra,
che grazia, che incanto!)

In questa Milano umida e calda
come una vagina, e deserta
come un campo di marte,
che incongruenza una stella,
o un angelo male caduto,
con quelle gambe brunite
come fusti di canna,
che lampeggiano ai fari passanti
nella liquida notte urbana
come ali pronte alla fuga,
che miraggio di giovinezza
quel corpo perfetto, snello,
sinuoso, quella fattezza
ancora infantile, indifesa,
gentile... Un monile. Di vetro.
Sottile. Già in pezzi.


* * *
 

Un colpo di brezza greve
solleva le scorie, le lordure,
i bocconi di cibo avariato,
dal selciato, la polvere bigia
prodotta da milioni di combustioni
irrita gli occhi a un pianto fugace,
alcuni lacerti di carta
organizzano un mulinello,
una danza strisciata,
un Tango frusciante,
quasi sensuale,
lì in mezzo all'incrocio stradale.

E quando alla fine
la Skoda giallina accosta,
l'Angelo, il Canova, la Stella,
la fanciulla Sirena, si porge
al finestrino abbassato e lascivo,
vi appoggia le braccia di marmo
con ostentata indifferenza,
gonfia il seno che trabocca
lo scollo, allusivo, votivo.
Due frasi sibilate,
così terrene,
e l'idillio è sedato.

Non seguo oltre.
Non assisterò
a questo finale,
non voglio ripensare
a quelle labbra,
che hanno del santo,
e a ciò che ora sapranno fare.
Rimane l'idea, il sogno,
e la bellezza che aleggia
a quel crocicchio, selvaggia,
irreale, assurdamente
incontaminata.




Marianna Piani
Milano, 27 Luglio 2015
.

sabato 26 marzo 2016

Epifanie e Cosmognie - 8




Amiche care, amici

Ottavo appuntamento (e ultimo, ma ci sarà ancora un piccolo "epilogo") di questo breve viaggio sentimentale alle mie personali origini, dove è sorto e si è evoluto il mio modo di essere, dove hanno le radici le mie speranze, anche molte illusioni, ma soprattutto quello che considero il mio miglior lato di personalità, la mia apertura al mondo.

La piazza di cui parlo in questi ultimi versi - dal nome completo Piazza dell'Unità d'Italia, che però i Triestini, sempre poco propensi alle retoriche e frettolosi perché stimolati dalla bora, chiamano confidenzialmente "Piazza Unità" - è una buona immagine-metafora di questo stato d'animo, una piazza che ha solo tre lati, il quarto, come un palcoscenico, aperto direttamente sul mare. Non mi risulta vi siano al mondo molte piazze così (nemmeno Piazza San Marco a Venezia, chiusa gelosamente dalle sue logge), e questo scenario è quello che ogni "nativo" come me si è trovato davanti al naso dalla nascita. Uno spazio aperto, non chiuso e protetto, con l'orizzonte come ultima visuale, e poi, secondo la stagione, l'incanto di una baia in cui il mare ha il medesimo color cobalto del cielo, oppure la furia (familiare, non selvaggia) degli elementi, con le onde che schiumeggiano eccitate e inquiete contro la banchina, investendo di salso i passanti fino a parecchie decine di metri più all'interno.

I sono convinta da sempre che nascere con una visuale del mondo così aperta sia la condizione di partenza più favorevole per crescere, come spero di aver fatto io - senza merito, solo per spinta ambientale, e grazie ai miei meravigliosi genitori - con una mente, uno spirito, aperti, senza pregiudizi, desiderosi solo di accogliere, incontrare, di muoversi, di scoprire.


Per voi, amiche dilette e amici, con un particolare pensiero ai miei conterranei, con amore

M.P.










Epifanie e Cosmogonie



8

La Piazza


Sapete, voi che viaggiate:
quella piazza si getta verso il mare
con uno slancio disperato,
come un estremo afflato, le braccia
aperte a raccogliere in sé
tutto ciò ch'è disposto
a dare il mondo a chi vi s'apre.

Il celebrato vento scavalca
con il suo noto grido rauco
il palazzo dorato, e s'abbatte
su chi si avventura nella larga
spianata, come un guerriero
di ventura, come un marinaio
che traversa il ponte nella bufera.

Poco più in là è la prua
spazzata dalla marea, il ponte,
propaggine naturale della piazza,
che punta al largo, tra le onde
bianche come chiome di sirene.
Occorre una sorta di coraggio
per raggiungere il capo estremo

in quella nebbia di mareggiata
che rumoreggia e acceca.
Tutto quel mare, tutta
quella salsedine che brucia
gli occhi e il viso, che penetra
il respiro, è il fuoco ardente
che spinge questa mia gente

a fuggire, a partire, a lasciare
queste coste per altri mari,
altre terre, altri confini, altre
conoscenze, altre saggezze.
E a chi rimane, gli rimane
questa smania inconsapevole
di andare, del remoto, dell'ignoto.

Una culla, un'appendice
di terra così angusta, così ristretta
da averla cento volte maledetta,
eppure chi vi s'allontana veramente
la rimpiange per la vita intera:
così è il canto triste e consumato
del navigante, e di chi qui è nato.



Marianna Piani
Milano, 18 Gennaio 2016
.

mercoledì 23 marzo 2016

Le polveri



Per oggi avevo tutt'altra composizione in programma, ma stamattina ci siamo tutti svegliati in un nuovo incubo, e ha mutato l'andamento della mia giornata, e anche l'ordine di queste pagine.

Non sono usa a pubblicare "a caldo", mai, lo sapete, ma in questo momento non m'importa nulla di ciò che è opportuno o meno, o di quali siano le regole che mi sono imposta, del bon ton o della buona conversazione: in questo mio personale "salotto buono", dove amo intrattenere le persone che amo e rispetto, che siete voi, amiche care e amici, è entrata la polvere della battaglia.

Ci sono solo due vie che mi sono concesse, qui e in questo momento: il silenzio, e la voce.

Il silenzio per il rispetto delle vite stroncate, è forse la via migliore, la più dignitosa e dettata dalla pietas.
Ma non mi basta, stavolta.
La voce, il far sentire il suono della propria libera voce proprio quando l'obbiettivo di chi attacca è quella di tacitarla, è doveroso:  è la via dettata dalla humanitas.
La mia scelta dunque è questa. E se voce deve essere, sia alta, chiara e forte. Senza preoccupazione di "bello scrivere", di compiutezza formale, di prosodia.

Se resteremo fedeli ai nostri princìpi fondanti, amiche dilette e amici, la paura, il terrore, non ci piegherà, mai.

Con tutto l'amore di cui dispongo.

M.P.









Le polveri


Le polveri della Storia,
lorde di vita, sfumano la scena,
un grido ottunde il pensiero,
grottesca l'ombra d'un corpo
si giace nel fondo dell'anima
nostra, torto nel proprio dolore.

Un sottile vapore di sangue
si deposita sulle lenti
dei nostri apparecchi, ciechi,
e ora a pezzi per il troppo peso
che grava sopra ogni fotogramma
come un masso d'ambascia.

Le polveri della Storia
trascinano seco un turbine
di colpe, di menzogne,
di atroce miseria, di vergogna,
che ci si scaglia addosso
soffocando la nostra pietà

e il respiro, che ci muore
in fondo alla gola, nei bronchi,
negli alveoli, assieme al grido
che vorremmo lanciare: un grido
ultimo, potente, ostinato,
questo grido d'amore soffocato

che ci gorgoglia dentro, lungamente.
Noi ci risvegliamo, ancora una volta
coperti da quella polvere bianca,
fine, insinuante, indecente, che forse
è di pietra, forse di corpi combusti,
turpemente vaporizzati.

La nostra ignominia,
il prezzo che grava su noi
di pianto, e strazio di genti,
il costo per la nostra superbia
ci viene ributtato addosso.
Adesso. Ma questo

non ci induca a una morte
più mortale della stessa morte,
non abdichiamo dal più sacro
nostro unico ufficio: più della pena
vinca l'amore, questo amore nostro
di anima, e carne, e parola.

Le polveri della Storia
depositano sui corpi vivi
e su quelli morti una patina d'odio
e di vendetta. Sta a noi
mondarla dal cuore, sta a noi
sradicare da dentro di noi

il nostro terrore, sta a noi
opporre alla morte la nostra esistenza,
battendoci contro la nostra paura
brandendo l'unica arma
di cui disponiamo, senza timore:
la nostra libera vita.




Marianna Piani
Milano, 22 Marzo 2016

sabato 19 marzo 2016

Epifanie e Cosmogonie - 7



Amiche care amici,

non poteva mancare, in questa mia piccola raccolta di memorie legate alla mia terra, un omaggio esplicito al mio primo punto di riferimento letterario, quell'Umberto Saba che frequento (come lettrice) da quand'ero bambina. Credo che il primo libro di poesia che abbia mai avuto sia proprio quell'Oscar Mondadori (che ho ancora nella mia biblioteca personale, tutto scompaginato, consumato dall'uso, sottolineato, annotato) con una selezione dal suo Canzoniere.
Saba e la sua (e mia) città sono un binomio inscindibile, la sua voce poetica, in apparenza così lieve, così limpida, ma percorsa sempre da un'inquietudine profonda, mi hanno impressionato indelebilmente, come una pellicola fotografica, con quegli scorci, di quei pensieri, di quelle figure sfuggenti. E così la sua scrittura, il tono lirico ma senza compiacimenti, è stato il terreno di crescita della mia immaginazione e, più tardi, dopo una lunga maturazione, della mia versificazione.

Saba non "rappresenta" una Città, È questa città, questo "ragazzaccio aspro e vorace"...

Io sono sempre statauna ragazza piuttosto solitaria, ho sempre amato le lunghe passeggiate, immersa nei miei pensieri, per le mie coetanee sono sempre stata un poco "strana", anche perché mi comportavo un poco da "secchiona", ma della "secchiona" non ho mai avuto l'aspetto fisico (intendo quello che ne è lo stereotipo). A parte la mia statura, diciamo contenuta, per il resto sono sempre stata una ragazza non vistosa, ma che non passava inosservata. Ero timidissima e riservata, introversa e riflessiva, ma nello stesso tempo ero squillante e viva, tutt'altro che restia a sfoggiare la mia femminilità, già da giovanissima.
Ebbene, di queste passeggiate, di questi pensieri, di questa sorta di meditazioni, tutto questo ciclo di composizioni è il frutto e il ricordo. Ma in special modo di questa settima narrazione, che ora io qui affido alla vostra indulgenza, amiche dilette e amici cari.

Naturalmente, è superfluo precisare che si tratta di una passeggiata e di un incontro del tutto immaginari. Forse...
La forma? Ovviamente una collanina di sonetti, liberi.

Con amore

M.P.











Epifanie e Cosmogonie
 

7

A zonzo, e Saba



Mi capitava, ora è cosa rara,
di andare a zonzo, come un viandante,
per questa mia città a suo modo
fascinosa, eppure anche tanto
trascurata, per nulla conosciuta,
così poco vissuta se non
tra le pagine di una certa letteratura,
o nelle foto in biancoenero
alle pareti dello storico buffet
del Liceo. "Dò viena e una bireta"
e il ricordo dell'atmosfera
di questi mezzodì d'inverno
troppo duri e freddi fuori,
fin troppo caldi lì all'interno.

Mi è capitato più volte allora
di seguire i passi di quel vecchio
dolce e un po' scontroso,
il bavero rialzato e il frontino
calato sopra gli occhi, in segno
di gelosa ritrosia: lo seguivo
senza volere, poiché per caso
la sua strada era la mia.
Lo seguivo dalla bocca dell'angiporto
verso la rada fino ai pontili
dei bacini di carenaggio, oppure
risalivo la via qui chiamata
acquedotto, fino in fondo lì dov'era
il teatro nuovo, e poi come un bosco.

Quindi ancora fino ai giardini
lì a fianco, dove indugiava
a osservare i piccioni strepitare
e gli storni litigare con la bora,
gli uni e gli altri con uguale affetto,
e con una sorta di dolente brama.
E all'imbrunire, precoce
in quella stagione, lo immaginavo
sotto un lume, circondato
dai suoi preziosi antichi libri
nell'oscura lignea libreria,
perduto tra i suoi fogli
a ricamare versi chiari, a evocare
le figure e i paesaggi cari.

Seguivo forse un'ombra?
O un'idea, o un'illusione,
o un delirio della mente? Chissà:
forse seguivo il niente.
Poggiavo ogni mio passo
sul suo passo cauto e stanco
sulle piastre del selciato
fino in cima all'erta,
ai muri antichi del Castello.
Qui dai suoi occhi contemplavo
il mare giù che inargentava
sotto le chiglie dei bastimenti in rada.
Forse anch'io - come lui, i fanciulli,
e gli uccelli - ero in gabbia, e sognavo


liberata di volare sopra il golfo
e sopra il mio dolore ostinato.
Egli, se mai c'era, non mi guardava:
non poteva, e forse non voleva.
Sedeva a lungo sul muricciolo
sul bordo del bastione più severo
fumando adagio, quasi con religione
la sua fida pipa, di spalle al mare.
E allora i suoi occhi chiari
umidi da vecchio che mai invecchia
erano essi stessi il mare.
Io sedevo poco più in là, godendo
l'orgogliosa immaginaria grazia
di essere, anonima ragazza,

per un istante io quella donna sua
di "Trieste e una donna".



Milano, 20 Ottobre 2015

mercoledì 16 marzo 2016

Parole su Parole



Amiche care, amici

Dedicai questa composizione tempo fa a un'amica, giornalista e scrittrice di grande valore, e poetessa dal talento vigoroso e originalissimo.
Pensai a lei, e al suo rapporto con la Parola, lei che aveva dedicato la sua vita proprio alla Parola, come una Sacerdotessa la dedica, la immola al proprio Dio.
Più volte ho avuto modo di parlare con lei su questo tema, e più volte le ho confessato come la mia vocazione e la mia Fede per la Parola come Valore Asssoluto venga anche dal fatto di averla incontrata sul mio cammino.
Pur non essendoci mai incontrate di persona, ci lega un rapporto di grande affetto e, almeno da parte mia, di intensa ammirazione. Ormai non potrei mai immaginare una vita prescindendo dalla sua "presenza".
Abbiamo un rapporto tenerissimo, tutto fondato, guarda caso, proprio sullascrittura, sulla Parola appunto, e questo fatto da solo dimostra la potenza di questa molecola costitutiva del Discorso sull'animo umano.
La composizione è - nella sua stessa forma - un omaggio a questa poetessa, e alla Parola stessa, unite idealmente in una unica entità inscindibile: per questo non ho inserito interpunzione, e i versi si incastonano uno nell'altro in una catena ad andamento circolare, senza fine, arieggiando (alla lontana) il suo stile,

Grazie per la lettura, amiche dilette e amici, grazie infinite

Con amore

M.P.





Parole su Parole
(Frammento)


Queste parole intrise
queste parole offerte
queste parole di dolore
oppure di godimento
queste parole prese
e mai lasciate sperse
nell'Universo

non sono più parole
ma creature ma gocce
di sangue stille
scaturite una a una
dal vivere dal soffrire
dal rivivere dal gioire
e morire mille volte

sono acqua limpida
che scava rocce e cuori
sono molecole sospese
capaci d'edificare
sotterranee cattedrali
di candido calcare
goccia a goccia

sono gocce di lavanda
sul collo e sull'incavo
del seno dove sbocciano
fiori di fragranza
di miele e di veleno
e affonda amore
le sue ferite

sono sperma che si sparge
sul ventre ansante
di piacere o rabbia
sono labbra umide
di brama sono pianti
sono piogge sono perle
sono diamanti

sono madida condensa
che appanna il vetro sono
schizzi di torrenti sulle felci
sono i tuffi innamorati
dei batraci negli stagni
sono canti nella notte
che fa eco alla luna

sono fiumi sono laghi
sono ciò che fa tenera
la terra sono ciò che muta
la terra in mota
la mota in molle argilla
l'argilla modella in forma
la forma in simulacro della vita
 

la vita si fa carne
la carne prende umano aspetto
in attesa d'un Dio distratto
che dia via il suo fiato
e ne faccia nuova vita
intrisa di speranza
o del tutto disperata.


Queste parole
che non sono più parole
che sono solo vita.



Dedicata a Rosanna Marani
e alle sue preziose "Parole"
Marianna Piani
Milano, 24 Maggio 2015
.

sabato 12 marzo 2016

Epifanie e Cosmogonie - 6



Care amiche, amici,

in questa sesta passeggiata tra i ricordi nella mia terra natale, vi conduco in un luogo molto particolare, cantato a suo tempo da Saba, descritto - e frequentato - da Joyce, da Svevo.
Si tratta della Città Vecchia, che i triestini chiamano "citavecia", luogo anch'esso meta di molti miei girovagari giovanili, attratta, come in  questa lirica è espresso, dai muri vecchi, decrepiti, corrosi da salso, gelo e vento, il cocktail autodistruttivo e sublime di questa città unica e affascinante.
La Città Vecchia, dunque, e questi muri, e le tracce dell'umanità plebea e nobilmente volgare (da vulgus) che li aveva popolati, che ne costituiva un tempo (ora la zona è stata quasi completamente "risanata" da interventi urbanistici e di "valorizzazioone") il suo fascino indomito e corrusco, tutto particolare. Ma ancora adesso vi sono scorci in cui, se vi ci avventuriamo - a piedi, tutta la zona è pedonalizzata, anche perché non vi sarebbe spazio per veicoli a motore - e ci lasciamo catturare dalla memoria che quei muri ancora custodiscono.

La affido volentieri alla vostra lettura, confidando nella vostra sensibilità, e forse curiosità, perché no, anche turistica.

Con amore
M.P.









Cosmogonie ed epifanie
 


6


La Città Vecchia, e quei muri



Erano i muri
che m'attiravano a quei luoghi,
non i rumori, non gli odori, che anzi
m'opprimevano a volte
come un sentore di morte.
Né erano i resti, le tracce
d'un passato languente,
o ridotto a spettro senza dimora
e senza storia.

Erano i muri,
calcificati, alti, scarnificati
dall'abbandono non di anni,
di ere; gli intonaci grigi
spaccati, corrosi dalle stagioni,
spinti alla rovina da gramigne
maligne, giallastre, ostinate,
come colate di pus
da ferite infettate.

E poi giù i muraglioni che da tempo
immemorabile frenano il declivio
fatale del colle verso il mare,
che allora ai miei occhi
già non erano che un groppo
di memoria rappresa nel vento.
E le vie aspramente acciottolate,
e le scalinate di pietre sconnesse
come tastiere divelte.

Potevo cantare, salendo
e scendendo quei gradini,
bianchi, e neri, e bianchi
e neri ancora. E cantavo, di fatto,
se pur a mezza voce, cantavo,
che per me è raro, in chiave soprano
mentre passavo la mano
su quei muri, incurante
delle abrasioni del sasso sul palmo.

E poi ancora le case,
le esangui ruvide case, molte
disabitate, con le finestre
e gli abbaini tetri, cavi,
come buchi di tarli;
non erano più dimore,
e non erano vuote soltanto,
erano svuotate, risucchiate
dall'interno, stremate.

Erano visi di vecchi, affacciati
un'ultima volta al loro mare,
le guance scarnite rigate di pioggia
come lacrime di acre rimpianto,
e dietro essi le ombre
delle vite qui sciolte e consunte,
con i loro vizi, le loro fedi,
e le industrie, e i pensieri, e gli amori
appassionati, o annoiati, o malati.

Tutto polverizzato assieme alla calce
di quei muri, dispersa da un vento fiero
fino al largo di questo eterno mare
bianco, eternamente ritornante.




Marianna Piani
Milano, 3 Settembre 2015
.

martedì 8 marzo 2016

Le ragazze innamorate



Amiche care, amici,

Anticipo a oggi, 8 Marzo, la pubblicazione di questa lirica breve, che avevo precedentemente programmato per mercoledì.

Da qualche giorno meditavo di come dare voce a questa festa, ormai un po' ritualizzata e un poco, come dire, stanca, e avevo pensato di lavorare attorno a un tema che mi sta molto a cuore da sempre, quello della violenza contro le donne, quella violenza in particolare che si consuma giorno per giorno, quasi invisibile, tra le mura domestiche o nelle stanze degli uffici, una violenza sottile, continua, di cui di rado emerge qualche punta estrema, ma il corpaccione grosso e pesante rimane sommerso, difficile da valutare di dimensione se non che abbiamo la sensazione che sia molto vasto e profondo. Una forma di violenza non espressa in atti o fatti, ma che che noi donne subiamo da millenni e che siamo abituate a sopportare per la grandissima parte dei casi - nostro malgrado - in silenzio, con un atteggiamento che va dalla alzata degli occhi al cielo al pianto doloroso, segreto.
Non dirò oltre, perché tutte voi sapete bene di cosa parlo.

Ma si tratta di una festa, perdio, io personalmente sto passando un periodo difficile, e contemporaneamente esaltante, con un amore nuovo, sorgente, che impegna tutto il mio cuore e la mia mente, e con il lavoro che mi occupa la giornata con esigenze pesanti, assillanti, e con assai magre soddisfazioni economiche (
Ormai, anche per comprarmi un paio di scarpe devo pensarci cento volte, e alla centunesima rinuncio…), e su tutto questo qualche indizio preoccupante di recrudescenza del mio male, dopo un lungo periodo di "silenzio", come i primi tremiti sotterranei di un vulcano in quiescenza.

Per questo, trovandomi a riprendere questa poesiola lieve, dedicata esplicitamente alle giovani donne -  ragazze normali e magari, come me, innamorate (lo si capisce da un certo sguardo, da una certa luce negli occhi, inequivocabile), ragazze più giovani di me che rendono con la loro bellezza più bello tutto ciò che le circonda, anche il grigio ostile paesaggio urbano - per questo, dicevo, ho pensato di cogliere l'occasione  per dedicare questa cosetta a noi donne, tutte, quelle giovani e quelle giovanili, tutte bellissime, come siamo quando esercitiamo semplicemente e con Grazia il privilegio del nostro essere donne.

Buon otto Marzo amiche mie dilette, per voi questo mazzolino fiorito, non giallo - quello lasciamo che ce lo dedichino i nostri amici, compagni, amanti e colleghi - ma multicolore.

Un bacio, con amore

Vostra
Marianna





Le ragazze innamorate


Punteggiano i viali dei loro sorrisi
illuminano le attese di sguardi svagati
appoggiano lievi il trepido seno
ai balconi fioriti, abbracciando
chi forse arriva, e chi certo parte,
e chi le accende di ansia e di dubbi.

Ma i loro cuori non alloggiano dubbi,
le loro labbra hanno baci e sorrisi,
l'Universo intero è dalla loro parte,
e come gli angeli volano vaghi
incontro al cielo, così nell'abbraccio
palpita voluttà nel loro petto audace.
 


* * *

Passeggiano leste lungo le vie
impazienti di giungere al luogo
del loro convegno con l'anima amata,
corrono agili e pronte a balzare
sui mezzi o a sorvolare i gradini
delle metropolitane e a svanire.

Sognano di lasciare tutto e partire
come il vento che spazza le vie
del centro, di risalire i gradini
della passione, fino al luogo
dove gioiose si potranno gettare
tra le braccia della persona eletta

che - in amore - le aspetta.


Marianna Piani
Milano, 24 Luglio 2015
.

sabato 5 marzo 2016

Epifanie e Cosmogonie - 5



Amiche care, amici,

il Parco di cui qui parlo, amatissimo dagli abitanti di Trieste, è quello annesso al romantico e vagamente misterioso castello di Miramare. Una costruzione candida come un fantasma che si affaccia su un piccolo promontorio chiusura del golfo. Per chi non lo conoscesse dirò che si tratta di un vasto terreno adibito a paco, piuttosto mosso, pieno di angoli incantevoli, eletto dai cittadini a meta preferita della prime passeggiate primaverili, lungo il mare.
È un altro dei luoghi in cui trascorsi molte ore della mia infanzia e prima giovinezza. Il luogo era bello, vario, perfino avventuroso, e poi io non mi accorgevo dei segni di un decadimento che pian piano avanzava, sorretto da un'incuria crescente, da una cronica penuria di fondi per interventi di consolidamento e manutenzione, resi complessi dalla estensione del comprensorio e dalla varietà della sua orografia. Un degrado che ho dovuto constatare con  dolore in alcune mie visite recenti a quei luoghi.


Ma qui, ancora più precisamente parlo di un luogo particolare, all'interno di questo parco.
Su un terrazzino di fronte al mare, a un paio di centinaia di metri dal castello, seminascosto dalle fronde dei pini e dei lauri, gli antichi Signori del luogo avevano installato una piccola batteria di cannoncini, dal fusto in bronzo, schierati puntando al mare con intenzione di difesa dell'edificio da (improbabili) attacchi provenienti dal mare.
Un angolo un poco defilato, quindi, dove da bambina venivo volentieri a giocare, protetta dalla fitta vegetazione che racchiudeva il luogo, e dove poi da adolescente mi piaceva appartarmi per le prime trepide effusioni con qualche incerto ragazzino bruno (confesso che ho sempre avuto un debole per i ragazzi bruni, un po' selvatici, un po' plebei…).

Vi offro questo quadretto di paesaggio, come una vecchia cartolina in Kodacolor, sperando che vi piaccia, anche se non avete mai visto o visitato i luoghi.

Con Amore

M.P.







Epifanie e Cosmogonie

5


Il Parco



Ciò che fu quel parco,
ciò che furono i Giardini
a lauri e pini e rampicanti,
ciò che furono, e mai più saranno.

Così come fu, e mai più sarà
l'infanzia e la verde giovinezza
che qui consumai, in serena
ispida sfrenata libertà

da fanciulla bennata e fortunata:
ciò che fu ai miei occhi
quel luogo aperto
al vento e alle stelle.

E al mare, sempre eguale
allo sguardo sognatore
un partire sempre, sempre tornare,
sempre mutevole, sfuggente.

Quella terrazza, coperta
sotto un tetto di pini marini,
densi, torti come vecchi venerandi
saggi e stanchi di una vita

troppo consunta per essere gradita.
Qui i pezzi, massicci bronzi scuri,
vanamente ormai puntavano alla baia

ad alzo quarantacinque.

Da decenni lo facevano, fedeli
e inutili cimeli d'una battaglia
mai combattuta, testimoni
d'una nobiltà che si dissolveva

tra l'artificio d'una natura
resa ghiribizzo, ornamento,
e la cornice dorata d'una consuzione
presente a ogni passo

a ogni svolta di sentiero,
a ogni gradino squassato
dalle radici degli ippocastani
sussiegosi e fieri.

Ma che sapevo, io fanciulla,
di tutto questo disfacimento,
io che vivevo il pieno sole
del mio Aprile pazzo e scatenato?

Quelle bocche bronzee
erano muti compagni
delle mie solitudini accigliate:
da piccolina quando cavalcioni

m'inzaccheravo la gonna a fiori -
che detestavo - per raggiungere
la cima ed empir di ghiaia
quelle cavità che furono letali.

Più tardi quando quello
fu il segreto luogo in cui accolsi,
stupita e senza respiro
i primi fuggevoli baci,

trepidante tra colpa e desiderio.
Ero allora solo una gattina
accalorata, ma la vita
già mi traversava con viva passione.

E i gatti, loro, gli irsuti gatti
della costa, storpi, guerci,
claudicanti come un equipaggio
di corsari senza patria né padroni,

avevan fatto di quel terrazzo
sotto i cannoni, giustamente,
una loro personalissima Rocca.
Intanto un vivace maestrale

canticchiava tra i rami scuri,
e le pietre del castello, così bianche
da parere eterne, rispecchiando
la mia giovinezza pazza e pura,

grano a grano si consumavano
in un lento ineluttabile
passare del tempo. Così fuggevole,
come il mio, è ogni mattino.



Marianna Piani
Milano, 12 Luglio 2015
.

mercoledì 2 marzo 2016

Nel Silenzio



Amiche dilette, amici

un breve scorcio, un villaggio in riva al mare, fermo a un tempo antico, imprecisato, in un pomeriggio tardo d'estate, e la sensazione che ogni unico minimo evento, in quell'atmosfera immobile, quieta, rallentata dal caldo come lo scorrere denso di un fiume a fine percorso, fosse il segno inequivocabile del peso del Tempo. Il luogo, il momento e le immagini sono reali, un ritratto mnemonico ma fedele.
È una lirica breve, e proprio per non diluire la sua densità non voglio dirne oltre, e la lascio volentieri alla vostra lettura, se lo vorrete.

Con amore

M.P.




Nel Silenzio

 


Così fragrante è il vapore del mare
d'Estate, così distante il respiro
della pineta, la sera, e sulle
verande gli anziani fumano pipe
venerande e le donne sventolano scialli
come stendardi rassettando i cortili
tra i roseti e le siepi di lauro.
Il tutto nel più assorto silenzio.

Nel silenzio, il volo d'una falena
basta a far sentire il vasto respiro
dell'Universo, l'eco di una goccia
di pioggia isolata e solitaria
basta per suggerire a ogni cuore
il senso d'un tempo ch'è movimento
da quand'è iniziato, per la sola direzione
concessa: dall'oggi - al nulla - all'eterno.




Marianna Piani
Milano, 12 Luglio 2015
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