«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

domenica 12 aprile 2020

La parola, con pena, muore


Amiche care, amici,
non me la sento di pubblicare nulla di “pasquale”, in questi giorni, no.
Lo spirito è troppo greve, vi pesano migliaia di morti. Diciannovemilaquattrocentosessatnotto, al momento in cui scrivo queste note. C’è di certo più motivo di lutto che di festa.

Invece, mi sono imbattuta in questa sestina, di cui non ho conservato nemmeno la data, ma penso che risalga anch’essa, come le precedenti, a circa un anno fa, dal momento che era annotata nello stesso taccuino.

Il senso di non sentire più come adeguata a ciò che al mondo accade la mia modestissima parola mi era già allora ben evidente. Una crisi che è continuata, e mi accompagna da tempo, e ora è davvero esplosa.
Mentre prima il pensiero fluiva quasi senza sforzo sulla carta, e non avevo poi altro da fare che selezionare il degno dal mediocre, ora ogni singola parola mi costa uno sforzo, direi perfino un dolore, quasi fisico. Il mio antico, eterno dubbio sul “senso della poesia”, se non di tutta di certo della mia, è riemerso con prepotenza, è diventato ineludibile, dominante, e praticamente con esso ingaggio una lotta strenua tutte le volte che mi siedo all’apparecchio (o sul taccuino) e tento di rispondere all’intima esigenza, pur rimasta costante, di scrivere. Una lotta che sempre con maggiore difficoltà e con sempre minor frequenza riesco temporaneamente – solo temporaneamente – a vincere.

E forse soltanto adesso mi avvicino a comprendere qual è il vero dramma, il vero limite, il più autentico disorientamento di chi ha l’immensa arroganza di "scrivere". E capisco come solamente se si è sostenuti da una reale, insopprimibile NECESSITÀ ci è concesso di continuare a farlo.

Con amore
M.P.



La parola, con pena, muore.


La parola, con pena, muore.
Nulla è tanto indicibile quanto
ciò che davvero accade.
Hanno levato ai poeti ogni diritto
a scrivere a mani inermi di ciò
che duole, o esalta il cuore.

Ogni segno tracciato sulla carta
è uno squarcio indecifrabile,
svuotato, cavo,
ogni battuta sulla tastiera
è solo uno schiocco secco
che vorrebbe portar luce,

e invece
conduce a nuova disperazione.

Intanto, i portatori di veleno,
i dioscuri del nulla, gli ignari
s’ergono sul mondo, digrignando
tra i denti ossa e calpestando
libri, fiori, carcasse di bambini
gonfie d’acqua putrida e immonda.

Intanto, per adesso, essi trionfano:
s’espandono e diffondono
il morbo, suppurando le ferite
e lacerando il corpo
in piccoli brani di carne morta.
Ognuno ha chi odiare, ora.

E la parola, con pena immensa,
qui muore.


Irlanda, 2019
Marianna Piani



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domenica 5 aprile 2020

Ciò che non farò domani



Amiche care, amici,
Mentre passiamo questi lunghi giorni chiuse/i in casa (anche qui in Irlanda avviene la stessa cosa adesso, il mondo si è improvvisamente come piegato su sé stesso per resistere alla violenta bufera), ho ripreso questa lirica, scritta giusto un anno fa, per la consueta revisione prima di pubblicarla qui per voi.

A quel tempo, se qualcuno, come lo “Spirito del Natale” di Dickens – diciamo un “Ghost of the Spring Yet to Come” – mi avesse trascinata avanti nel tempo e mi avesse fatto assistere a quello che sta succedendo davvero ora, in questi giorni surreali, non avrei mai potuto credere ai miei stessi occhi, mai!
Eppure, questi versi messi giù così tanto tempo fa, in ben altra temperie emotiva, stranamente mi appaiono come se avessi potuto scriverli proprio ora, per quanto mi sembrano rispecchiare fedelmente il mio stato d’animo attuale.
La voglia di lasciarmi tutto alle spalle, angosce, paure, dolori, e di immergermi nella serenità indifesa della mia compagna, che proprio qui e ora, mentre sto scrivendo queste note, sta riposando sul letto dietro le mie spalle, e – semplicemente – consegnarmi nuda, subito, al suo amore.

Ma non è mattino ora, siamo alla fine del giorno, piove, e un vento tutto irlandese si fa sentire contro le finestre chiuse come un brontolio ostinato e profondo.
Forse è proprio lui, lo Spirito della Primavera Passata, che viene a trovarmi. Forse mi vuol far capire che anch’io ho colpe, che anch’io devo espiare...


Vi lascio alla lettura, se vorrete, con amore

M.P.




Ciò che non farò domani



Domani
non mi sveglierò al chiacchiericcio
del notiziario, non ascolterò gli allarmi
di quelle voci impostate e calme
che annunciano probabili
intollerabili sconquassi.

Non sfoglierò in rete
improperi irosi, singulti
d’odio e insulti senza freni,
non leggerò a me dirette
minacce di bestie cieche, e stupri
putridi di gruppo, o solitari.

Non imbraccerò un’arma
per scendere nelle strade
contro un nemico infame,
non attenterò alla vita del tiranno
prima che sia troppo tardi,
come vorrei, domani.

Invece
crederò che sia un tempo sano,
un giorno come un altro nel calendario,
mi convincerò che la guerra cieca
alla ragione non sia mai stata
proclamata, né la follia mai data.

Domani
non ti desterò all’alba con un grido
sfuggito all’incubo distorto
da una memoria vaga, ma palpabile, reale:
non ti dirò del mio malessere,
della nausea acuta che mi pervade.

Ti lascerò riposare, immersa
nel tuo sereno diletto, nella tua assenza
da ogni strepito del male,
nella tua innocenza ignara: per quella,
un po’ a sorpresa, quell’alba stessa
ti vorrò amare.


Marianna Piani
Irlanda, primavera 2019


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domenica 29 marzo 2020

Tornar casa



Amiche care, amici,

come tutti, anch’io sono nell’isola del mio isolamento forzato, fronteggiando distanze che fino a ieri trascuravo, e che oggi mi paiono incolmabili.
In particolare, da emigrata (o “expat”, come si dice oggi), la distanza con i luoghi e le persone del mio passato in questi giorni è improvvisamente piombata al di là di ciò che appare come un abisso invalicabile, da cui tutti i ponti sono stati fatti saltare. Ponti che, ne siamo terribilmente consapevoli, richiederà un tempo al momento del tutto imprevedibile ricostruire.

Sembra fosse una vita fa quando, solo l’anno scorso, riuscii a ritornare per un paio di giorni a Trieste, la mia città di nascita, luoghi da cui non mi sono mai veramente staccata, anche se ormai sono trent’anni che li ho lasciati.

Scrissi in quell’occasione la lirica in dialetto che oggi ho pensato di pubblicare qui. Non lo faccio spesso, né spesso scrivo in dialetto, una lingua che ha un suono particolare per me, che pure non ho mai davvero praticato come “lingua-madre” (a casa con i miei si parlava quasi esclusivamente in italiano), ma che ho evidentemente assorbito quasi inconsapevolmente nei miei anni d’infanzia e adolescenza, semplicemente frequentando la scuola, le strade, gli amici.

L’effetto di straniamento che mi ha sempre accompagnato a ogni ritorno in questa città, passaggi sempre brevissimi purtroppo, è sempre stato molto accentuato. Ogni volta la sensazione dominante, sorprendente, è quella di ritrovarmi come se non mi fossi mai allontanata. Luoghi, voci, persone, emozioni, colori, erano e sono sempre gli stessi della mia memoria. Anzi non è nemmeno corretto parlare di “memoria”, ma piuttosto di qualcosa più vicino a quello che in psicologia si chiama “imprinting”, una sorta di calco istintivo primordiale in cui ci ritroviamo, come in un ritorno all’origine, a una immaginaria e protettiva placenta.
Eppure non è che tutto sia rimasto davvero uguale: l’architettura, le strade, ma anche le facce, il comportamento e il linguaggio delle persone, tutto è mutato, a volte anche in modo drammatico.
Il fatto è che questi luoghi e immagini “originari” sono interiorizzati dentro di noi, ce li portiamo dietro ovunque, e per sempre. E quando, anche dopo molto tempo, ci ritroviamo davvero, fisicamente, in quei luoghi, misteriosamente la nostra percezione ci fa sentire “a casa”, come se il tempo fosse tornato indietro di decenni.

In questo però, attenzione, riconosciamo e ritroviamo non tanto i luoghi, quanto noi stessi in quei luoghi.

Al testo dialettale faccio seguire una mia traduzione, per chi non fosse delle mie stesse origini. 

Buona giornata, amiche dilette e amici, il sole splende, nonostante tutto, e lo farà più a lungo oggi, nonostante le angosce che siamo vivendo in questi giorni.
Con amore
M.P.




Tornar casa

Son tornada qualche volta, in passà,
e ogni volta iera come se no fussi
mai scampada, tuto ugual preciso
a co che iero partida,
che par più de mile ani fa.

La mia strada iera quela, precisa,
larga, drita, una riveta prima in salita,
e po’ in dissesa, zo verso el mar.
Da una banda xe la cesa
bianca, bruta propio come la iera,
un scatolon de piera netà;

dal altra, oltre el mureto
che el xe ’ncora quel de alora,
el scalo, ’n do una volta coreva i treni,
e più in fondo el porto, e drio ‘ncora
el golfo, carigo de vele, de bastimenti.
’Desso xe palazi novi, ufici, marmi,
che no lassa l’ocio ’ndar oltra.

Prima ‘ncora, da ’sta banda – streta
che no passa gnanca un furgoncin
de quei pici – la canisela sconta
che la se rampiga fin in cima
al cole, strucada in mezo a do muri
alti, veci, batudi de crepe e busi
in do se scondi le lusertole
che scampa via a ogni muleto
che passa de là.

E de là in cima, de indove se vedi
el golfo, in fondo fin ale lagune
de Grado, se se buta per la riva
zo fin in Cavana, e pò in Piaza Granda.

No solo i muri, ma fin anche la zente
che ciacola e bagola nela piazeta,
e quei che cori de furia, e i fioi
che ziga, e i zoga, tuto quanto
ugual preciso a quel che gavevo lassado
mile ani fa, contenta, imborezada,
senza pianti e rimpianti drio.

E ben, ’desso so che la zente, el ziel,
el mar, i lioghi in dove gavevimo zogà
co ierimo putele e fioi bordelando,
i ne resta drento, par eterno
intati, sebèn che i xe tuti cambiadi.

E anche dopo ani e ani lontani
i ne par come che non fussimo
mai andadi, mai scampadi,
tornadi Ulissi ‘desso, foresti de noi stessi,
quel che ’desso semo, noi
quel che ierimo, no semo più.


Marianna Piani
Trieste, Primavera 2019






Tornare a casa


Son tornata, qualche volta, in passato,
e ogni volta era come se non fossi
mai fuggita, tutto uguale,
identico a quand’ero partita,
che pare mill’anni fa.

La mia via era quella, la stessa,
larga, dritta, prima in salita,
e poi in discesa, giù verso il mare.
Da un lato, la chiesa,
bianca, brutta proprio com’era allora,
una scatola di pietra ripulita;

dall’altro, oltre il muretto
che è sempre quello di allora,
lo scalo, dove un tempo incrociavano i treni,
e più avanti il porto, e più avanti ancora
il golfo, pieno di vele, e di navigli.
Adesso solo palazzi nuovi, uffici, cemento
che non lascia passar di là lo sguardo.

Prima ancora, da questa parte – stretta
che non passa nemmeno un piccolo furgone –
il vicolo nascosto
che arrampica fino in cima al colle.
Strizzata tra due muri alti e antichi
tormentati di crepe e buchi
dove si nascondono le lucertole
che fuggono a ogni ragazzino
di passaggio.

E da lassù, da dove si spazia
sopra il golfo, fino in fondo alle lagune
di Grado, ci si butta giù per la discesa
fino in Cavana, e poi in Piazza Grande.

Non soltanto i muri, ma perfino la gente
che chiacchiera e va a zonzo in piazzetta,
e quelli che corrono di fretta, e i bimbi
che strillano e giocano, tutto è rimasto
lo stesso a ciò che avevo lasciato
mille anni fa, contenta, eccitata,
senza un pianto né rimpianto.

Ebbene, ora so che la gente, il cielo,
il mare, i luoghi dove giocammo strepitando
quand’eravamo bimbe e bimbi,
ci restano dentro, in eterno,
intatti, se pur tutti cambiati.

E anche dopo anni e anni di lontananza
ci pare come se non fossimo mai andati,
mai fuggiti, e poi tornati Ulisse,
stranieri a noi stessi
come ora siamo, noi
ciò che fummo, non siamo più.

Marianna Piani
Primavera 2019


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sabato 21 marzo 2020

I lamenti



Amiche care, amici.
Dunque oggi è la “giornata mondiale della poesia”.

Negli anni passati lo ho “celebrato” con tutta la sghemba serenità che questa ricorrenza mi suscitava, anno dopo anno, perché quello della poesia lo considero il mio secondo mestiere, o forse addirittura il primo, almeno per l’impegno che mi richiede e la costanza che mi impone, fin da giovanissima. Un impegno non retribuito, del tutto gratuito, e proprio per questo più caro anche di quello che mi permette di vivere, in modo dignitoso, in una bella casa in capo al mondo, in compagnia di un’artista meravigliosa, due viziatissimi e amatissimi gatti e una collezione di peluche invidiata da tutti.

Quest’anno tutto è diverso, la ricorrenza cade in un momento di così cupa prostrazione che è impossibile perfino fermarsi un attimo a riflettere, non parliamo neanche della possibilità di celebrare, che implicherebbe una gioia e una spensieratezza che ci sembrano lontanissime, irraggiungibili.

Eppure, se anche spesso mi piace citare il monito di Pierpaolo Pasolini sulla “inutilità della poesia”, tanto da farlo mio fino a intesservi dei versi, forse in momenti come questi si può percepire, in filigrana, contro il buio della notte che ci accieca, la più autentica essenzialità della di questo che alcuni considerano un “genere”, ma che per me è il fondamento stesso dell’arte.
Infatti “inutilità” sottende un giudizio - appunto - utilitaristico, economico, che certo, nella sua totale gratuità, la poesia non ammette. La “essenzialità” intende la sua irrinunciabilità da parte dell’Uomo, la traccia che la poesia scava nella vita di chiunque di essa si nutra, per condurlo fuori dalla solitudine, dalla perdizione, dal dolore, dalla follia.

Per questo, per la altissima sfida che in questi giorni la poesia si trova a dover affrontare, ho scelto di “celebrare” questa giornata non con una mia composizione, che sarebbe quanto mai inadeguata, ma con i versi di uno dei più grandi poeti italiani moderni, se non il più grande in assoluto, secondo il mio parere, una dizione poetica che gli anni stanno valutando sempre di più, anche in confronto di altri grandissimi suoi contemporanei.

In queste lunghissime ed evanescenti ore libere regalateci da questa catastrofe, vi trasmetto l’invito - e in fondo è proprio questo il senso di questa “giornata mondiale” - di provare, sia che siate degli appassionati evoluti che dei lettori occasionali, a leggere/rileggere qualche pagina di poesia. Sullo sfondo del silenzio delle nostre città, con la luce che oggi ci pare perfino stridente di una primavera che comunque, infischiandosene delle nostre stupide angosce, oggi stesso inizia il suo percorso.

Vi lascio ora alla lettura di Giorgio Caproni, un sonetto tratto dalla raccolta “Il passaggio d’Enea” (1943-1955), dove appaiono evidentissime TUTTE le qualità della poesia, quando è GRANDE Poesia: densità, armonia, equilibrio perfetto tra parola e struttura, tra discorso e narrazione, musicalità, ritmo, emozione, lussureggiante ricchezza filosofica e perfino (laicamente) religiosa.
E, come potrete constatare voi stessi, sono versi, sono parole sconfinanti e senza tempo, folgoranti, che paiono scritte oggi proprio per le tragedie di questi giorni…

Con amore, oggi più che mai.

M.P.





I lamenti

I

  Ahi i nomi per l’eterno abbandonati
sui sassi. Quale voce, quale cuore
è negli empiti lunghi – nei velati
soprassalti dei cani? Dalle gole
deserte, sugli spalti dilavati
dagli anni, un soffio tronca le parole
morte – sono nel sangue gli ululati
miti che cercano invano un amore
fra le pietre dei monti. E questo è il lutto
dei figli? E chi si salverà dal vento
muto sui morti – da tanto distrutto
pianto, mentre nel petto lo sgomento
della vita più insorge?… Unico frutto,
oh i nomi senza palpito – oh il lamento.


(Giorgio Caproni)



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domenica 15 marzo 2020

Il mio Dio tace



Di fronte a ciò che accade in questi giorni, la tentazione forte per me è di scomparire, di tacere, di chiudere la porta e spegnere la luce.
Non lo farò, non certo ora.

Mai come ora sento di dover mantenere viva la mia voce, il mio pensiero, mai come ora sento il bisogno di condividere con altri le angosce e le speranze, oggi in lotta tra di loro senza quartiere. Mai come ora sento quanto è importante ciò che da umani più ci lega, questo sentimento così disprezzato da tanti in questi ultimi tempi, l’empatia.
L’empatia non è cosa da santi o eroi, tutt’altro. È il più comune e facile dei sentimenti umani, il più umano e naturale, perché ci attribuisce una identità di specie, indispensabile per la nostra salute mentale, fisica e sociale. Chi in questi tempi (ma da sempre nella storia) lo combatte, lo rifiuta, lo contrasta, lo nega, compie forse il più grave dei crimini - non verso il mondo, ma verso sé stesso: quello di negare a sé la propria stessa qualità di essere umano.

Manterrò fin che posso vive queste pagine, per quel che valgono, per quel che possono contare, per quel che possono comunicare, trasmettere e soprattutto ricevere.

Un messaggio che, fin dall’inizio, è stato questo libero ragionare di amore, per amore, sull’amore e con amore.
M.P.





Il mio Dio tace


Che mi aspetto dal mio Dio, se mai c’è?
Non miracoli, non pietà, non benedizione:
forse neanche solo comprensione.
No, non pretendo che lui mi ascolti,
troppe sono le incombenze cui è costretto,
troppe le dilazioni, troppi e grandi
i fallimenti sulle spalle sue gravanti
perché possa pure
dare bada a me sola.

Comprensione poi di che?
Forse per tutte le illusioni
che ho patito in questo
mio lungo tempo dissennato.
O forse
perché son nata donna e quindi
confinata lungi dai palazzi
e dagli altari a scontare
la mia colpa originale,
il peccato più mortale,
quello che pare
non potere mai trovare
requie alcuna, né perdono.

Il mio Dio tace, certo non mi ascolta.
Non è affatto buono.


Marianna Piani
Irlanda, Maggio 2019


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domenica 8 marzo 2020

Ogni idillio è morto



Senza commento, in questi tempi aspri e gravi…

Ma con amore, come sempre
M.P.







Ogni idillio è morto.


Non so più farlo, non posso farlo:
sedermi a una panchina, al parco,
all’ombra d’un vecchio olmo,
con un quaderno azzurro, ad annotare
i varianti toni del fogliame.

Quel tempo è scorso, quel tempo
è morto, e non lo rimpiango.

Le parole sono divenute dure
e grevi come massi, e come lastre
tombali scure, e d’aspetto aspro,
gelate sotto le mani;
non so più dire nulla, né annotarlo.

Che sia finita l’era della parola
per me ora, che sia morta?

Tacciano i letterati, tacciano i poeti;
nulla di ciò che appare bello e sano
è più in vigore ormai.

Ogni idillio è morto.


Marianna Piani
(data non registrata, 2019)


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sabato 15 febbraio 2020

La fede e l'oscuro



Amiche care, amici

Non commento oggi questo mio testo, già corposo in sé, che ho immaginato in forma di dialogo tra la mia visione cupa di un mondo sempre più disperato e chiuso e ciò che rimane della speranza e della fede dei miei anni migliori.
Certo che quando la scrivevo, ma ancora ora purtroppo, assistere a morti innocenti nei nostri mari e a un continuo rigurgito di odio, intolleranza e, perfino peggio, indifferenza, non aiutava a distinguere una luce in questa oscurità che si addensa sempre di più. Se non proprio l’impegno di quelle persone che ancora credono nei princìpi morali in cui siamo cresciuti e che sono al fondamento della nostra stessa civiltà
Io continuo a sperare, con tutta me stessa, che la civiltà potrà alla fine avere il sopravvento sulla barbarie.
Altrimenti a cosa verrebbe vivere?

Con amore, sempre!
M.P.





La fede e l’oscuro


L’amico:
«Non c’è fede, amica mia.
Non dico fede trascendente,
non dico nemmeno in Dio,
o pensiero, o Scienza, o Conoscenza:
dico mera fede, fede in qualcosa
che risieda in noi,
e che da noi s’estenda
a ciò che siamo al mondo,
e col mondo si confronti.»

Io:
«Mio caro, io la temo
questa tua visione senza luce,
senza respiro, temo
che se così fosse essa sarebbe
inesorabile fattrice
di smarrimento, di solitudine,
e di paura.»

Lui:
«La morte della fede, certo,
uccide la speranza,
termina ogni futuro,
si appiattisce contro un muro
di pietra inerte, 
lascia un vuoto nella crosta
come un buco senza fondo,
e nell’anima questo buco
che tutto ingoia è tutto annulla
è la paura: questa paura
su cui oggi si regge il mondo.»

Io:
«La catastrofe che tu paventi
non s’è attuata ancora,
c’è ancora chi vi si oppone,
chi impegna la sua vita tra lo scherno
degli stolti astanti che non sanno
capire i segni che il destino
ci invia in abbondanza.»

Lui:
«Lasciami finire amica mia:
la fede muore, soffocando
la speranza, e questa,
precipitandoci nella paura
che è la materia oscura
che origina il nostro Universo,
uccide la più preziosa
e potente delle umane qualità,
ciò che chiamiamo “carità”.
Senza carità nel mondo
ogni umanità s’annulla,
diserta, tradisce tutta sé stessa.
Con ciò quindi non ci salveremo.
Mentre sul fondo dei nostri mari
giacciono corpi inermi, affogati
nelle urne del nostro odio,
la nostra umanità una volta ancora
verrà sopraffatta.»

 . . . . . . 


[ Nulla può dire di tutto questo 
la poesia, nulla può fare, 
tranne che esistere e testimoniare 
ciò che accade.]


Marianna Piani
Irlanda, Marzo-Aprile 2019


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domenica 9 febbraio 2020

My Hand Hurts


Amiche care, amici,

un piccolo evento banale, nulla di davvero grave, tuttavia sufficiente a mutare per un po’ il corso e il tranquillo fluire quotidiano della vita.

C’è da dire che la mia compagna è musicista e polistrumentista, per cui questo evento, già in sé doloroso, lo è più ancora perché incideva sul suo lavoro, o meglio, sulla sua arte, sulla sua stessa capacità di esprimersi. Oltre al dolore, l’angoscia di non sapere, infine, come sarebbe andata, per quanto tempo sarebbe durata l’immobilità forzata, ma più di tutto l’impedimento improvviso a un bisogno, a una impellente necessità, un po’ come se ci venissero assicurate alla caviglia delle catene che ci impediscono di muoverci non solo fuori, ma perfino nella stessa cella di una prigione.

Ora, a un anno di distanza, l'incidente, dicono dovuto a un eccesso di esercizio e di lavoro, è finito e perfino dimenticato. Tre/quattro mesi di riabilitazione, durante i quali lei ha comunque potuto continuare con il canto, non essendo per fortuna il suo apporto limitato agli strumenti, il tutto con l’appoggio affettuoso del suo gruppo che l’ha sostenuta perfino modificando per lei, temporaneamente, il repertorio.
E infine, per me, il ricordo di un periodo di difficoltà che abbiamo potuto affrontare insieme, io facendo per un po’ cucina, da piccola infermiera e da casalinga a tempo pieno, ruoli che non amo e cui sono pochissimo tagliata, ma nobilitati, anzi, resi lievi così, banalmente, semplicemente, dall’amore.

Vi lascio dunque oggi a un componimento lieve, colloquiale, quasi da camera, ma, come sempre, appunto, con amore.
M.P.





My Hand Hurts


Mi duole la mano, mi dicesti.
Per un po’ non ti credetti, pensavo
fosse un pretesto, per farmi far cucina
al posto tuo, cosa che assai detesto.

Che cattiva sono, che ingenerosa!
Presto mi avvidi che mi sbagliavo:
ti lamentavi, in certi momenti
perfino gridavi, e ti aggravavi.

Ti trovai in bagno infine, la sera,
che singhiozzavi in silenzio, una cosa
che per te segnala massima angoscia:
Mi fa male, non posso suonare!

Ci affrettammo al pronto soccorso,
dopo le lastre sapemmo che occorreva
un intervento, urgente, per ridare
funzione alla sinistra. Non uno scherzo.

Nulla di trascendentale, dicevano,
per loro era una faccenda banale,
e noi tacemmo, cercammo di ragionare
che così fosse, ma lo schianto

poco dopo ci scosse dal nostro torpore:
occorreva passare attraverso il dolore
per ritrovare il nostro equilibrio turbato,
la nostra mite sorte d’amore percossa.

Ora, sulla scomodissima panca
e in un caldo torvo che non riscalda
attendo soltanto il suo
e del suo canto ritorno.


Marianna Piani
Irlanda, Marzo 2019



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sabato 1 febbraio 2020

Un anno



Amiche care, amici.

Questa poesia la scrissi quando fu un anno dalla mia “fuga d’amore” in Irlanda, e rimase incompiuta. Non so, o non ricordo, perché mi interruppi allora, ma ora, che gli anni ormai sono due, l’ho ripresa e finalmente completata, aggiungendo un paio di strofe e mutando qualche verso, e ve la propongo qui, riprendendo anche la mia consuetudine settimanale di pubblicazione interrotta per una lunga ma irrinunciabile pausa di riflessione. Ho tuttavia lasciato la data originaria, di prima stesura, come faccio di consueto, ma questa volta con una scelta ancor più motivata, e ho mantenuto il titolo, doverosamente.

Forse oggi finalmente inizio a sentirmi più stabile, più serena, e certamente meno in fuga. Appena arrivata – un anno in realtà in questi casi è pochissimo – le sensazioni e le emozioni erano ancora troppo vive e coinvolgenti per poter essere trattenute in un verso: ogni parola scritta mi sembrava inadeguata, oppure goffa, oppure già consumata dall’uso, oppure scontata. Mai si può scrivere impunemente a ridosso d’una emozione, quando il taglio incide ancora la carne viva, che sanguina e pena. Mai è possibile raggiungere un risultato che lontanamente rifletta il nostro dolore, o la nostra gioia. Occorre tempo, a volte molto tempo, per comprendere, per uscire dal centro del vortice.
Ora piccole nuove radici stanno spuntando e si stanno aggrappando a questa terra, che è anche la terra della mia compagna.

Vi lascio alla lettura, con amore, come da anni ormai qui scrivo per salutarvi e ringraziarvi per la vostra presenza…

MP




«È un’ora incerta e lunga, tempo
di acquate e fumi, il sole indica
gli orti d’Irlanda...»

(Franco Fortini, 1948)

Un anno

Un anno, l’intero giro di un anno
è andato, da rifugiata,
vissuto accanto a chi amo,
lontana da chi in patria detesto.

Ho appreso a contare i minuti –
anziché i mesi – al suo ritorno,
e ho compreso questo verde smeraldo
ch’ella ha negli occhi da dove proviene.

Ho conosciuto le nubi veloci
in fuga come ovini sbandati,
e il mutare repentino del giorno
da limpido a cupo, e da radioso

a tremendo, e ho capito
quella malinconia profonda
nel ritmo giocoso del flauto, quel pianto
nella voce gioiosa del suo canto.

Ho incontrato nei viali
e in ogni giardino, i corvidi neri
eleganti, non troppo guardinghi,
in cerca del loro motivo di vita.

E gli scolari, in divisa, e i gabbiani
che s’incrociano scambiandosi i gridi
e i colori della loro lingua salmastra
spazzata dal vento mai quieto.

Ho conosciuto, di quel vento,
l’ululato alla notte, che non spaventa
ma parla di mare, di libero andare,
e anche un po’ di nostalgia di casa.

Un vento che abbraccia
mentre m’abbraccio alla mia ragazza
che dorme serena al mio fianco.
Ignara di essere rara.

Di essere il frutto d’un ghiribizzo
di vento e di uno schizzo di mare
sulla cima d’un onda, insolente
come un riccio dei suoi capelli

da sirena gaelica a guardia del Porto.
Io m’accosto
la guardo sognare. Mi accorgo
solo ora quanto la mia vita è cambiata:

e già un anno è passato,
inoppugnabilmente.


Marianna Piani
Kilkenny, Marzo 2019



(Per chi volesse, la mia ultima raccolta "Sillabario lirico e sentimentale" (ISBN 978-0-244-18660-9) è disponibile su Amazon, sia in versione tradizionale QUI che eBook QUI)

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lunedì 27 gennaio 2020

Le ceneri di Aushwitz






Memoria e sopravvivenza, empatia e disperazione


Da anni questa per me è una "giornata particolare", per riprendere il titolo di un film fondamentale del grande Ettore Scola.
Come nel film citato, gli echi di una piazza mediatica mi raggiungono qui, nel mio rifugio un po’ appartato, ed io mi sento spinta a esaminare la mia coscienza, ciò che ho fatto o non fatto della mia esistenza, una vita in fondo così fortunata e serena, mentre quella di miei antenati in quegli anni terribili era minacciata da un mostro d’odio, paura e viltà in apparenza inconcepibile per qualsiasi mente dotata della pur minima traccia di umanità.

In questi ultimi anni, tuttavia, hanno iniziato a giungermi dalla piazza echi diversi, stridenti, cupi, oscuramente minacciosi come i cumulonembi che si addensano prima dello scatenarsi di una tempesta.
Gradualmente, quasi impercettibilmente, la “Memoria” cui questa giornata è dedicata, si è trasformata in preoccupazione, ansia, paura. Qualcosa ha iniziato a mutare a velocità crescente, lì fuori, qualcosa che mi sconvolge dall’interno come le scosse premonitrici di un sisma, la cui violenza distruttiva al momento non è possibile prevedere, ma che che sappiamo, proprio dalla Storia, che potrebbe anche essere catastrofica, e questa volta forse senza ritorno.

Le riflessioni si sono fatte così via via più grevi, più febbrili, più dolorose. Che cosa ha provocato questi movimenti tellurici che sembrano mirare ad una negazione della vita stessa dell’uomo dall'uomo? Ma, soprattutto, com’è possibile che, a cent’anni dall’innesco di quel processo di degrado e di estrema disumanizzazione che ha portato infine alla morte del mostro stesso assieme a milioni di innocenti, vi siano persone che seguono, riprendono, propugnano ancora questo delirio?

Di recente più di qualcuno, in particolare situato proprio tra le fila di quella schiera di estrema destra che si sta progressivamente attivando e perfino dilagando un po’ in tutto mondo occidentale, non a caso ha posto il sigillo del negazionismo decretando che non vi fosse più senso nella divisione politica tra destra e sinistra, che essi pretenderebbero superata dai tempi. Che nazismo e fascismo siano prodotti di una gigantesca mistificazione storica. Che il male e la disumanità non sia che una invenzione di chi tale male e disumanità ha subìto. 
Si tratta ovviamente di una visione criminalmente distorta e delirante della realtà fattuale. E proprio ora, mentre tale contrapposizione raggiunge al contrario una vastità e una ferocia nuova e del tutto imprevista e imprevedibile nei suoi possibili sbocchi, tale narrazione equivale a un tentativo ulteriore di cancellare il senso stesso della Storia.

No, chiamiamole come vogliamo, ma la battaglia in corso è proprio tra una visione dell’umanità in senso illuministico, aperto, di speranza e di libertà, di inclusione e di collaborazione, e una con la testa rivolta all’indietro, come le schiere dantesche degli impostori della quarta bolgia, puntata a una rivincita della peggiore espressione di disumanità che la Storia abbia mai prodotto, e tutta mirata, con varie gradazioni dall'ipocrita al fanatico, all’esclusione, all’isolamento, alla paura, all’odio.
Ma qual è il fondamento primo, profondo, di questa estrema diversità di visione, tra individui, esseri umani, in apparenza così simili tra loro? E quale è l’essenzialità di questa scelta, questo bivio che fa schierare, in particolari momenti storici di particolare crisi e pericolo, persone dotate in apparenza di analoghe facoltà intellettive, culturali, emotive su fronti così radicalmente contrapposti?
E infine cos’è che rende una scelta giusta, etica, produttiva, evolutiva, di salvezza, e un'altra  sbagliata, mortale, immorale, autodistruttiva, di disperazione esistenziale?

Io credo che si tratti, alla base di tutto, di una questione di empatia.

Vale a dire di quella facoltà, così peculiare delle specie umana, di saper partecipare al dolore, al disagio, allo strazio - e di converso alla gioia, alla serenità, alla nobiltà - di un essere umano diverso da sé stessi.

Esistono esseri che sembrano incapaci di provare empatia, per i quali ciò che conta, come per un istinto atavico, belluino, è la LORO persona, la LORO unicità, la LORO vita, il LORO tornaconto, a scapito di quella di ogni altro, e comunque di chiunque sia fuori dalla propria ristretta cerchia familiare, dalla propria tribù, dalla propria isola “felice”, più o meno angusta che tale gabbia sia.
Sono coloro che si parcheggiano in seconda fila di traverso, oppure sul marciapiede, perché non riescono, e nemmeno vogliono, immaginarsi nei panni dell’altro automobilista costretto a manovrare per poter passare, oppure del portatore di handicap che deve scendere in mezzo al traffico per poter evitare l’ostacolo da loro creato.
E, gradino dopo gradino discendendo nell’ignominia, sono coloro che non sanno immaginarsi al posto dell’immigrato costretto a notti di gelo e fame in mare, perché non riescono né vogliono considerare/accettare l’umanità in un “prossimo” che sia, anche di poco, diverso da loro.
Così come tali furono coloro che guardavano serenamente il fumo alzarsi dai crematori mentre occupavano le case di proprietari depredati di ogni avere e dignità umana solo perché appartenenti a una pretesa "razza inferiore".
O infine, nell'ultimo girone più vicino a Satana, luogo perfettamente logico e conseguente nell'architettura del male, coloro che attivamente li depredavano, torturavano e infine sterminavano, in massa, a milioni, uomini, donne, vecchi, bambini, lattanti, senza distinzione.

Esistono dunque persone incapaci di empatia, altre al contrario che non riescono a non sentire sulla propria pelle, sulla propria esistenza l’offesa, le ferite, le ingiustizie inferte ad altri, come se fossero inferte a loro stesse. E, badate, non si tratta di vocazione alla santità, non si tratta di eroismo, ma di semplice, elementare coscienza della propria stessa fragilità.
Questo è il grande, profondissimo, incolmabile solco che divide l’umanità in certi particolari circostanze, in momenti storici in cui la crisi di valori e di pensiero investe una società complessa ed evoluta come la nostra (e come fu ad esempio quella della Germania prima del Nazismo, una delle culle più eminenti della Grande Cultura Europea).
Non è questione di destra e sinistra, questa: è una questione di giustizia o ingiustizia, di carità o individualismo, di speranza nel futuro o di condanna alla propria autodistruzione.

Perché alla fine l’essere umano è “condannato” all’empatia, per semplice spirito di sopravvivenza di una specie così eminentemente sociale, e dotata di autocoscienza, qual è la nostra.
La negazione di questa essenziale pulsione nega la stessa umanità dell’essere umano, e non solo dell’altro, del diverso, del “nemico”, ma specularmente anche di sé stessi. L’insensibilità cieca nei confronti dell’umanità del deportato gassato e incenerito nei campi ha alla fine, per fortuna, portato alla cancellazione da ogni consesso umano dei carnefici. Dico per fortuna perché l’unica alternativa a questa macabra ordalia finale sarebbe stata l’auto-estinzione dell’intera specie.

Questo è ciò che la memoria di questi fatti ci insegna, come un punto fermo fissato PER SEMPRE.
Questo segna oggi il limite di ciò che non potremo mai permetterci di valicare ancora.
Ed è per questo che non possiamo rimanere inerti di fronte ai ritorni di questa letale malattia autoimmune che a ondate investe le società, riportando intere masse all’egoismo più cieco e primordiale e togliendo loro la capacità di provare empatia, e di conseguenza, come dicevo, distruggere senza scampo il senso stesso della propria sopravvivenza specifica nell’economia dell’evoluzione terrestre.
Il Male è banale, e per questo si tende a sottovalutarlo, per pigrizia, per ignavia, per stupidità, per distrazione. E quando esso finalmente agisce, è ormai tardi per poterlo contrastare.
La Memoria è l’unica arma efficace che abbiamo a portata di mano per smascherarne l’orrido che cela, e neutralizzarlo prima che possa agire.

Alla fine, la Memoria che commemoriamo in questo giorno, ma che ci deve illuminare la mente in ogni giorno della nostra vita, non è altro che l’istinto di Sopravvivenza della nostra umanità.
La Memoria non è un rituale, laico o religioso, di appartenenza e di richiamo a un passato a noi remoto, estraneo, ormai consumato e irripetibile. La Memoria - specialmente oggi - è uno stato permanente di lotta e di resistenza.

Forse mai come oggi, dopo 70 anni da Aushwitz, è importante tenere viva questa Memoria, come antidoto all'individualismo suicida, e arma carica di difesa per la nostra insorgenza contro il Male.


(Come chi di voi ha la bontà di seguirmi qui si sarà accorto, mi sono presa un lungo periodo di pausa nella pubblicazione delle mie poesie, forse il più lungo e sofferto da quando ho iniziato questa attività con voi, perché frenata da una forma di pudore, di ritegno di fronte a una situazione che sento molto dolorosamente e con angoscia. Come affermava qualcuno, è difficile, dopo Aushwitz, fare poesia. È difficile trovare il senso di questo “strumento di conoscenza” così profondo, ma allo stesso tempo così evanescente, in tempi di crisi così profonda, nello scatenarsi di forze così oscure e pericolose.
Tuttavia la poesia si impone anche al di là delle mie intenzioni, del mio disagio. Ha continuato a fluire, in qualche modo, anche se ne ho momentaneamente sospeso la “pubblicazione” regolare. Non appena sarò riuscita a fare chiarezza per la mia sensibilità e la mia coscienza, riprenderò a pubblicare. La mancanza di questo mio ponte di comunicazione con il mondo, con voi, si sta facendo sentire, con crescente urgenza. E solo l’urgenza, non la consuetudine, può giustificare questa grande espressione di narcisismo che è la Poesia agita ed esibita…)

Con amore, a presto, spero, molto presto

Marianna 



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