«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

domenica 30 marzo 2014

Nel vetro


Amiche carissime, amici,

oggi vi offro uno dei miei autoritrattini, in parte vero, in parte immaginario, in parte giocoso, in parte tormentato.
Lo specchio per me, come per Borges, e forse come per ogni donna, è una inquietante presenza, un testimone importuno, un "convitato di vetro" che ripete la realtà attraverso la nostra percezione.
Qui, nello specchio, mi rivedo, qui trovo una me stessa di volta in volta diversa, sempre stranamente imprevedibile. Ci sono momenti in cui mi vedo bella, ma con la sensazione che la figura che scorgo lì incorniciata non mi appartenga per nulla. In altri momenti mi detesto, mi sento così scomoda, stretta nelle mie fattezze, del tutto inadeguata ad affrontare ancora una nuova giornata.
In ogni caso, parlarne è un atto di aperto narcisismo, e non ne voglio sfuggire: il narcisismo, la vanità, sono parte inscindibile della mia personalità, così come lo è il mio bisogno di mostrarmi al mondo in una cornice di abiti ed accessori che mi rendano desiderabile e femminile ed espressione del mio sentirmi bene, oppure come reazione al mio disagio.
Ciò che rimane sempre, costante, però, è il senso di disorientamento, di frantumazione che si cela dietro questo sottile diaframma di fragile cristallo…

Voglio rendervi parte di queste riflessioni, amiche dilette e amici, come sempre, con amore.

M.P.




Nel vetro


Un nastro di raso pervinca
tra i capelli, uno sfumato leggero
tra le palpebre e le sopracciglia,
gocce di corallo cobalto
sulle unghie di smalto e le labbra
rubino come una coppa di chianti.

Ardore e colore, la figura che vedo
viso a viso, nel vetro, è me stessa, riflessa:
la camicia s'apre sul petto ansioso
a scoprire una riga di seno, piccolo seno
sotto una collanina d'ambra e perline,
e un piccolo cuore sottopelle che pulsa.

Spalle nude come colline innevate,
nude anche le gambe, levigate, diritte,
snelle e ribelli, gambe da danza zigana,
e piedi nervosi, lunghi, taglienti,
nei sandali essenziali, inconsistenti,
stretti alle sottili caviglie, giunchiglie.

Le pupille sono gocce di pece -
roventi, si muovono infaticabilmente,
perlustrando nel panorama del mondo
dove posare i loro voli impazienti:
per mutare il destino, e finalmente
incontrare uno sguardo insistente

verde smeraldo, come sognato
da sempre. Una breve lucente risata
scuote i capelli, scuri, densi,
e il nastro di raso frulla lieve
come una farfalla che beve avida
il calice del suo fiore di campo - e subito fugge.

Così il vento scuote il vetro, brevemente,
tintinnando. Basterebbe ora una spinta:
il mondo e il vetro andrebbero in pezzi,
e con essi esploderebbe la mia figura
in mille frammenti e particelle,
mille occhi, mille mani, mille cuori.

Vorrei essere questo sciame
di atomi di me, radianti in un cosmico vuoto.
Lasciate che la luce come un maglio
frantumi la mia coscienza, lasciate
che io non abbia alcuna certezza, né immagine,

né respiro, né vita: soltanto pura incoerenza.


Marianna Piani
Milano, 4 Gennaio 2014

sabato 29 marzo 2014

Sorellanza ininterrotta



Amiche dilette, amici,

amara e triste ricorrenza per la mia memoria; come alcuni dei miei amici e lettori più fedeli ricordano, molto, troppo tempo fa - eppure mi pare ieri - mia sorella minore mi lasciò, per andarsene per la sua strada, all'improvviso, senza preavviso, e senza una spiegazione che mi potesse non dico far accettare, ma almeno aiutare a comprendere.
Avevamo avuto una infanzia e una prima giovinezza da unitissime, lei era stata per me amica, compagna, confidente, complice, tutto.
Certo, il disfacimento improvviso della nostra famiglia, avvenuto all'improvviso pochi mesi prima, aveva contribuito, e forse aveva scatenato il processo. E certo già allora, come per me oggi, le nostre menti erano fragili e indifese di fronte a quel cataclisma, ma io ero pronta a lottare, a proseguire il viaggio assieme a lei, la amavo, come ancora l'amo, e non avrei mai e poi mai nemmeno immaginato un qualche genere di vita senza di lei, accanto.
Se ne andò invece, e fu per sempre. Fu come una morte, che della morte per me aveva tutto, tranne la corruzione del corpo, e la possibilità di piangere per qualcosa di definitivo e irrimediabile.
Io infatti non l'accettai mai, rimasi per anni - e lo sono tutt'ora - in attesa di un ritorno, qualunque esso sia, che pure so essere impossibile. E questa attesa mi nutrì una speranza, e mi privò di quella via di umana accettazione che accompagna ogni "vera" morte di una persona molto amata. Il nostro codice genetico contiene la facoltà di "accettazione" della morte di chi amiamo, attraverso una lunga e dolorosa elaborazione che ci porta gradualmente ad abbandonare la casa comune e a imparare a procedere da soli. Con il tempo, il più delle volte il dolore si sposta nelle camere della memoria, e la vita prosegue. Se non accadesse così, per noi la vita stessa sarebbe intollerabile, destinata ad una atroce e continuamente rinnovata solitudine. Ciò che più ci spaura non è la fine della nostra esistenza, ma l'abbandono da parte di chi amiamo, di chi dà alla nostra esistenza un senso, un significato, una ragione d'essere. Con mia sorella non ho potuto mai avviare questo processo, e in qualche modo la sua scomparsa è come una morte che si rinnova giorno per giorno, incomprensibile, inaccettabile ed inaccettata.
Mi rimangono i ricordi, cui aggrapparmi, e una grande, immensa malinconia. Grazie al cielo mi è stata concessa questa capacità di esprimermi, che certo non lenisce la ferita, né tanto meno la rimargina, però mi aiuta a sentire ancora accanto a me la sua indispensabile presenza.

Condivido con voi, amiche mie care e amici gentili, questi pensieri, più che mai con amore.

M.P.






Sorellanza ininterrotta


Quanto ho viaggiato, con te, dimmi
sorella mia diletta? Quante sono
le gonne, e le vesti, e le paia di scarpe
che ci siamo scambiate
per sentirci parte una dell'altra?

Quanti pensieri, quanti misteri,
quanti sentieri abbiamo diviso,
quanti pianti, e quante gioie,
quanti bicchieri di vino rubino,
quanti giochi, e quanti baci, anche?

E quanta rabbia, piccola mia,
quanto disgusto alla menzogna
e al tradimento, e quanta audacia
nell'aggredire tutte sole il mondo,
e quanto patimento alle ferite subite

mai ricucite, e quanta perdizione
sfiorata, quanta disillusione
al momento di aprire il libro
delle nostre ingenue speranze
alla quotidiana esistenza.

Quanti sogni, quanti volti
hanno segnato i nostri passi,
quanti rimorsi hanno gravato

le nostre braccia. Per mille anni
ho letto sulle tue labbra i miei pensieri

per mille anni ancora ho veduto
nei tuoi occhi le mie speranze
e i miei inesprimibili terrori,
quante volte ho sentito
il tuo cuore pulsare con il mio

strette seno a seno per accoglierci
o per lasciarci andare
o per consolarci delle nostre colpe,
o delle nostre piaghe scoperte,
o per volerci soltanto un poco di bene.

Ho amato i tuoi capelli chiari,
così diversi dai miei troppo neri,
come una lupa ama la sua luna,
di cui sente scorrere come d'argento
il sangue nelle cavità del proprio cuore.

Vorrei vederti ancora una volta sola,
sfidare il vento sul ciglio della roccia,
vorrei rivedere per un istante ancora
le tue mani che serrano il pugno
rivelando l'indaco delle tue vene.

Vorrei ghermire quelle tue mani, vorrei
non lasciare che tu spieghi le tue ali
da airone bianco e mi lasci sola.
Non vorrei che mai ci accada
ciò che alla fine ci è accaduto.

Veglierò, te lo prometto cara,
veglierò sul tuo ritorno, notte a notte,
giorno a giorno, come veglia l'aquila
nel nido sulla cengia - folle di speranza -
il piccolo precipitato nell'abisso.



Marianna Piani
A Paoletta
Milano, 31 Dicembre 2013


mercoledì 26 marzo 2014

Rumore bianco



Amiche care, amici gentili,

mi concedo oggi uno di quei momenti di serena contemplazione e di paesaggio, che come sapete prediligo.
Sono le mie lunghe notti bianche, ma in questo caso il paesaggio diverso, suggestivo e malinconico.
Era poco prima della fine dell'anno, in montagna, presso un'amica. Un'amica importante.
Il giorno prima era stata una di quelle giornate di sole, gelide brevi e sfolgoranti, che di quando in quando colgono quasi alla sprovvista, in pieno inverno e in altitudine.
Nessuno poteva prevedere che il tempo poi repentinamente sarebbe mutato, tanto che fu una sorpresa quando mi alzai inquieta e ansiosa, come portroppo faccio spesso, nelle primissime ore del mattino, e scostai le tendine della piccola finestra dello chalet in cui eravamo, e scoprii il paesaggio drammaticamente trasfigurato da una intensa nevicata notturna, la prima della stagione - mi fu detto - di una certa entità.
Come sapete, la neve si annuncia con la sua specialssima voce, che è la voce non di un silenzio, che è semplicemente una passiva sottrazione di suono, ma - come dire - di un suono "in negativo", una vibrazione che restituisce una sensazione di vuoto, attiva quindi, inconfondibile per chi sa ascoltare.

"The sound of silence", per dirlo con il titolo di una vecchia, celebre (e bellissima) ballata di Simon & Garfunkel:

"Hello darkness, my old friend,
I've come to talk with you again,
Because a vision softly creeping,
Left its seeds while I was sleeping,
And the vision that was planted in my brain
Still remains
Within the sound of silence."

 Io l'ho chiamato "rumore bianco", prendendo il prestito il termine dalla fisica acustica (“Il rumore bianco è un particolare tipo di rumore caratterizzato dall'assenza di periodicità nel tempo e da ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze." cit. Wiki) per cercare in qualche modo di definirlo, e di rappresentarlo.


Come sempre, comunque, dopo l'amore io mi sentivo immensamente sola, come svuotata, e non so perché preda di una infrenabile malinconia, e la luce spettrale, il silenzio innaturale, la solitudine delle vie celate sotto il manto scintillante, tutto questo, a quell'ora tanto notturna che già poteva dirsi mattutina, sembrava provenirmi da dentro, e rispecchiarsi al di là della lastra della finestra, nel ritaglio di mondo che riuscivo a distinguere nella luce incerta dell'illuminazione stradale.
La composizione nacque il giorno dopo, ma le sensazioni descritte sono quelle della mia veglia solitaria, seppure a due passi appena da chi amavo, trascorsa immobile in compagnia del ticchettio di un orologio a muro, e del respiro tranquillo e profondo di lei che dormiva ignara e serena nella camera accanto.
Quella storia è finita, così come quella neve ormai ha avuto il tempo di dissolversi e riformarsi più volte. Rimane questo piccolo quadro, quasi monocromatico, a memoria di un istante di vita, e come tale, intimamente prezioso.

Desidero condividerlo ora  con voi, amiche dilette e amici, come sempre, con amore

M.P.





Rumore bianco


E tutto qui sulla terra, attorno a me,
si fece silenzio.
Il pianto d'un bimbo, lontano,
il guaito d'un cane in attesa,
il brusio impalpabile del bosco,
il passaggio dei rari veicoli, lenti.

In punta di piedi, infreddolita,
raggiunsi la finestra, che emanava
un insolito lucore lunare,
e scostai poco poco la tenda:
il fenomeno inatteso era in atto
in un turbinio di candidi afanni.

Candida era la veste leggera
sopra il candore della mia pelle,
candido il nobile larice che era
mio dolce gemello, candido
il cielo che sospirava d'alba,
candide le mie mani sul vetro - gelate.

Candida la passante, con il suo bimbo,
immersi nell'indistinto opalino mattino,
sospirando candidi sbuffi di fiato,
candidi i loro passi, infitti nitidi
come spilli nella memoria, presto sepolti
da ancora più incombente candore.

Soffuso di candore era il profumo
dell'aria, e della candida legna che ardeva
in qualche camino vicino,
e candido era il giovane vento
che turbinava sui parapetti
creando spirali e volute di stelle.

Candido - anzi bianco - il rumore
del mondo, tutto attorno,
e bianco e vuoto e desolato
quello dei miei sensi
abbandonati allora finalmente
in un nulla senza rimpianto.



Marianna Piani
Plateau d'Assy, 28 Dicembre 2013


domenica 23 marzo 2014

Luce Coerente


Amiche care, amici,

non commentrò direttamente questa composizione, poiché voglio lasciare questo racconto aperto alla vostra più libera interpretazione.

Vi sono composizioni che nascono del tutto evidenti, nella loro referenzialità diretta o indiretta, altre che richiedono un grado di lettura più complesso, più approfondito, più stratificato.
Per queste ultime preferisco non interferire narrando della loro genesi o della mia personale visione, devono essere in grado di comunicare direttamente, se ci riescono, con il cuore e l'anima del lettore. Queste, più di altre, devono ricevere dal lettore quell'apporto sostanziale che ne giustifichi l'esistenza. Oppure fallire la loro missione.
Ogni lirica narra qualcosa di chi la scrive. Alcune però non narrano lo scrivente, cercano invece di esprimere l'emozione, trascendendo la scrittura, trascendendo l'esperienza dello scrivente stesso.
La versificazione, anche la versificazione libera che io prediligo, ha una funzione fondamentale: quella di fornire una "struttura", un telaio, che consente di dare forma comprensibile e intelleggibile al magma ribollente che costituisce il pensiero affluente. Questo è principalmente il motivo perché affido alla Poesia i miei pensieri. Se non lo facessi, non sarebbero che informi e incomprensibili borborigmi.

Ecco dunque, per voi, buona lettura e un abbraccio a tutte voi, amiche dilette - e a voi amici - come sempre, con amore.

M.P.






Luce Coerente


Venne alla vita come un'ipotesi aperta,
o un enigma irrisolto, solare, sfolgorante
come una stella perduta in un sistema
senza galassie, né ammassi globulari,
sola, nebulosa di energia inespressa.

Il suo sguardo era puntato al mondo
come un raggio di luce coerente,
la sua mente era nutrita del dubbio,
la percezione del bene e del male
la spingeva a ignorare l'abisso

e a trovare riposo tra le braccia
accoglienti del suo Apollo bruno,
dove mai nulla - pensava - l'avrebbe
corrotta, nulla l'avrebbe distolta
dalla sua prima missione di donna.

Brevemente sfolgorò la sua stella
in quel firmamento già colmo di luce.
Brevemente si fece carne e terra
e casa e urna e femmina e sposa.
Brevemente fu Rosa sbocciata

e ramo di Pesco a Primavera.
Brevemente: poiché l'inverno venne
presto sopra un refolo di tramontana
gelando il cielo al primo tramonto,
rinsecchendo ogni gemma o embrione.

Il frutteto non produsse frutta alcuna,
il roseto disperse invano il profumo,
sopravvissero soltanto scorticati rami
e nude radici conficcate tra i sassi.
Lei vagò a lungo il vuoto di quelle terre

languendo spenta, come una cometa
al più remoto suo gelido afelio.
Non conobbe più nulla, non seppe
sperare, non ebbe più fede neppure
nel nucleo di luce che custodiva nel cuore.

Il suo raggio penetrò profondo la notte
trovando a sbarrargli il cammino
soltanto lo scudo lucente di Diana.
Il mondo mormorò illuminato, sollevato:

ella - a piedi nudi - si mosse ancora alla vita.


Marianna Piani
Plateau d'Assy, 27 Dicembre 2013

sabato 22 marzo 2014

Il Mare d'Inverno - VI - Epilogo


Amiche dilette, amici,

Siamo giunti alla conclusione di questo mio breve viaggio nelle mie terre d'origine, con una piccola composizione che ho pensato di aggiungere come commiato. Non sarà ancora un omaggio a uno dei molti scrittori e poeti che da quelle terre hanno ricevuto ispirazione, ma di una tappa che, per chiunque si rechi da quelle parti, non può mancare: il Castello di Miramare e l'annesso Parco.
Sono infiniti i ricordi biografici che sono per me legati a questo particolare luogo: la sua bellezza, la sua tranquillità, ne facevano una delle mete più consuete per le passeggiate domenicali con la famiglia, ai tempi della mia infanzia. Già il nome in sé è evocativo del suo aspetto, una costruzione a metà tra il severo e il lezioso, in pietra bianchissima, geometricamente squadrata ma nello stesso tempo mossa ed enigmatica, quasi elusiva nella sua forma architettonica, "seduta" su un piccolo promontorio spinto come a chiusura scenografica del golfo, con alle sue spalle alcuni ettari di parco, in gran parte coperti da una foresta in miniatura.

Ci sono ritornata di recente, in una delle mie brevi escursioni in quelle zone, e ne ho ricavato una di quelle particolari emozioni che si provano a volte nel tornare, dopo un lungo distacco, in luoghi particolarmente amati e famigliari, impressi per così dire nel proprio "codice genetico": la sensazione rassicurante di ritrovare tutto uguale, come se non ci fossimo mai allontanati, e nello stesso tempo il disorientamento e l'inquietudine di scoprire il mutamento profondo operato dall'inesorabile trascorrere del tempo.
Così è avvenuto in questa mia esplorazione solitaria in luoghi che ritrovavo dopo anni, incrostati nella mia memoria. Ogni pietra, si potrebbe dire ogni filo d'erba, era dove l'avevo lasciato, tanto tempo addietro, ogni profumo, ogni scorcio, ogni raggio di luce erano gli stessi che potevo rivedere nella mia memoria, quelli su cui tante volte, da bambina, avevo corso, avevo respirato, vi avevo visto stagliarsi la mia ombra. La panchina su cui mi sedevo con mamma a ripassare il sussidiario e la lezione di storia, era lì, al suo posto, intatta. Il parapetto in pietra sotto i pini su cui camminavo in equilibrio, con l'emozione di avere sotto di me a precipizio il mare, era sempre quello, immobile e saldo.
Eppure, dopo un poco che mi aggiravo tra i vialetti ben noti, respirando questa sensazione rasserenante di continuità e di identità, iniziai a rendermi conto che tutto, ogni singola pietra, ogni angolo di aiuola, ogni scorcio, era profondamente mutato, degradato, leso, come l'anima invecchiata e stanca di una persona che ripensa a sé stessa tanti anni prima.
Da questo contrasto, da questa riflessione, ho tratto lo spunto per questa breve composizione, che vorrei porre quindi come conclusione alla piccola "raccolta" dedicata a queste terre e al loro mare. Quando la scrissi non la pensai a questo scopo, ma la volli dedicare a una amica cara che in queste terre vive.
Oggi la dedico anche a tutte voi, amiche care e amici, accomiatandomi temporaneamente con voi da questi luoghi, con affetto, un po' di nostalgia, e amore.

M.P.





Il Mare d'inverno
 (cinque vedute di città)

Trieste, Il Castello di Miramare



VI


Miramare autunnale


Il parco era silenzioso
nel pigro pomeriggio dell'Ottobre,
godeva di quella luce giallo oro
che era l'ultimo suo incanto
prima che precipitasse la densa sera
e poi il precoce livore invernale.

Vi era, diffusa nell'atmosfera
una quiete che pareva innaturale,
come una sorta di svagata attesa
che sommergeva ogni cosa,
ogni scoglio che indugiava a riva,
ogni uccello che cercava un suo nido.

Erano anni giallo oro loro stessi,
quelli in cui io bambina correvo i viali
ramificati come radici sprofondate
verso il mare. E il mare, laggiù,
che tanto spesso ribolliva di vento,
era allora una vibrante lastra di metallo.

Com'erano simili i percorsi,
e le visioni, e i suoni, e il profumo
delle essenze aspre e dolci immerse
nel sentore agro del salso
diffuso dal vento lieve, e l'orizzonte
che prometteva infinite distanze.

Le distanze rassicuranti, familiari
dell'arco di quel golfo, con i leggiadri spettri
di bianche alture a chiudere la scena.
Com'era sempre identico quel sole
che si prendeva cura dei bimbi
che giocavano vociando attorno alla fontana;

E com'era sfolgorante la pietra
della torre merlata del castello,
orgogliosa della sua aristocratica
ineffabile vaghezza. E i richiami
delle mamme nel  loro aspro-tenero dialetto
quant'erano simili a quelle del mio tempo!

Eppure nulla è rimasto ciò che era.
L'erbe sulle morbide aiuole d'un tempo
sono ispide ora, scompigliate,
bruciate dal vento e dall'oblio,
radici affiorano dalla terra già corrose
come mani scorticate dal precoce gelo.

Non v'è più un solo cigno rimasto
nel laghetto, un tempo così sognante,
ora incanutito di foglie morte e alghe;
non danzano più i ditischi e le idròmetre
sul pelo dell'acqua contaminata,
dove languono rade foglie di ninfea.

Il bordo del sentiero cede al passaggio,
disgregandosi sotto ogni passo;
nel fondo, dietro i pini che si sporgono
sulla scogliera, il castello di sasso bianco
appare, posseduto da un rimorso acre;
gli oleandri - impoveriti - gli reggono ancora il manto.

Il ricordo è un sottile diaframma di dolore
che riveste ogni cosa d'una patina dorata.
Tutto rifulge nel tempo, e tutto scade,
tutto si erode, tutto trapassa: eppure io,
le gambe nude raccolte tra le braccia
su queste rive sento d'essere infinita

nell'infinito ciclo della rinnovante vita.




Marianna Piani
Chamonix, 24 Dicembre 2013
Dedicata a Paola C.
amica, conterranea


mercoledì 19 marzo 2014

Il Mare d'Inverno - V



Amiche dilette e amici cari,

ultimo appuntamento della nostra breve passeggiata nelle terre, geografiche e  letterarie, delle mie origini.
Per la verità ci sarà ancora un ulteriore tappa, idealmente legata a questa "escursione", ma questo è l'ultimo incontro con una voce poetica legata in qualche modo a questi territori e al mio retroterra di formazione, alla mia Weltanschauung personale.
Non si tratta strettamente della mia città, qui, ma piuttosto dello stesso mare, e dello stesso frammento di cielo. Un poeta grandissimo e forse meno noto di quanto meriterebbe, in quanto scrittore superficialmente definibile "dialettale": Biagio Marin (Grado, 1891-1945).
La sua, in realtà, è una lingua, particolarissima e rara, dolce e armoniosa, mediata tra la morbidezza veneziana e l'asprezza triestina, in qualche modo perfetta per il suo modo di versificare. Parlata esclusivamente in un piccolo angolo di mondo, questa cittadina deliziosa, quasi un frammento di Venezia staccatosi dalla Città madre e approdata, chissà come, poco più a est.
Ora è un sito turistico, offre una stupenda spiaggia in cui spesso da bimba venivo con la famiglia in estate. Affittavamo una casetta, e facevamo "vita di spiaggia", cosa che nella nostra città non era dato fare, poiché la costa è rocciosa, e non offre lagune sabbiose. Quelle iniziano proprio dalla zona di Grado, e si estendono per tutto l'arco dell'alto Adriatico, fino a Venezia e oltre.
Amo il dialetto, in generale ogni dialetto, e naturalmente amo quello delle mie terre. Ogni tanto, in segreto, mi ci cimento anch'io, ma si tratta di esercizio sporadici, poiché sono emigrata troppo presto perché questa lingua si depositasse e stratificasse veramente nel profondo del mio pensiero. Quando mi esprimo in dialetto, mi sono resa conto, lo faccio come se mi avvalessi di una lingua che conosco in modo quasi perfetto, che so, l'inglese o il francese, ma che non riesce a piantare le sue radici così profondamente da poterla padroneggiare fino al punto di esprimere emozioni profonde.
Confesso di aver progettato inzialmente questo piccolo "omaggio" proprio in dialetto, dialetto triestino ovviamente, perché il gradese non sarebbe a mia portata, ma poi ho rinunciato, occorre padronanza assoluta dello strumento per creare musica armoniosa.
Il Gradese di Biagio Marin è proprio un esempio di come in poesia la parola si fa musica, e la musica si muta in pensiero, in immagine, in figura. È tutta qui, secondo me, l'essenza della poesia: non è più concetto mutato - utilitaristicamente - in parola, ma parola mutata - musicalmente - in emozione.
Qui di seguito, come è un po' nel mio "stile", un piccolo bozzetto ad acquarello: immaginate lo sciabordio quieto del mare tra le barche, e il profumo di una gelateria artigiana, poco lontano. Buona passeggiata...


 Per voi, amiche care e amici, come sempre, con amore.

M.P.




Il Mare d'inverno
 (cinque vedute di città)

Grado, verso la laguna

"Me, vardo a le stele dei sieli,
ai nuvoli d'oro, ch'el vento disperde,
a l'ultimo verde che
incanta la tera."
                   (Biagio Marin)



V


Marin


Il sale del tuo mare impregna l'arenile
della piccola isola vissuta da sempre
di umile orgogliosa pesca
e reti calate sui bassi fondali
e rari villeggianti di finestate.

Lungo la costa nascosta e tra i canneti
vengono a nidificare gli aironi
e le folaghe delle paludi, giunte
da chissà quale contrada lontana,
e i gabbiani si contendono a gridi

l'imboccatura del minuscolo porto
ingombro di pingui bragozzi
immobili e pigri agli ormeggi
come i vecchi color rame
ozianti alle porte delle osterie.

Contemplando da qui il cielo
e contemplando il mare,
rivelare al mondo quant'essi
siano gemelli, azzurri entrambi
al mattino, e chiari come i tuoi occhi;

e la notte carichi di stelle
che paiono scintille, ovvero
lucenti di fiammelle, lampare
e lune, come costellazioni
d'uno sconfinato astrolabio.

La voce e il canto di queste onde
raggiungono le lontane sponde
dei più alti sensi umani,
questa voce raccoglie il Poeta
tra le sue mani e le disperde al vento.

Il vento vigoroso di queste terre,
asciutto come il vino delle vigne aspre
delle colline di gesso e calce:
il vento porta in sé quel canto,
e lo eleva come un calice santo.



Marianna Piani
Milano, 15 Gennaio 2014

domenica 16 marzo 2014

Il Mare d'Inverno - IV




Amiche dilette e amici,

tappa d'obbligo, si può dire, quella di oggi: una breve passeggiata immaginaria a fianco dello scrittore più noto e celebrato di questa città, così apparentemente smagato e ironico, così vicino a quella che è la più autentica mentalità degli abitanti di questo "angolo dell'impero".
Perché Trieste è stata da sempre, in un modo o nell'altro, l'angolo di un qualche impero, la Repubblica Veneta un tempo, l'Austria Asburgica in seguito, e ora angolo remoto ed estremo d'Italia, il suo estremo confine orientale.
Sapete, a Trieste non si può "passare" o capitare per caso, a meno che non si sia diretti verso qualche luogo esotico dell'Est o sud-est Europa. A Trieste occorre proprio andarci. In pratica esiste una sola arteria, e un'unica linea ferroviaria, che collega questa città al resto del mondo, e un'unica direzione, sulla direttrice est-ovest. È la città più linearizzata che conosco, se escludiamo certi borghi di montagna, sviluppati lungo una vallata o stretti contro le rive di un lago. Trieste, grosso modo, la possiamo immaginare come un unico lungomare, stretto da pendici scoscese e poco praticabili e dalla linea di confine, che nell'insieme creano una strettoia in alcuni punti larga pochi chilometri, che dà accesso a una angusta appendice di territorio. Una via lungo la costa, la Strada Costiera appunto, molto bella, simile un po' alla croisette di Cannes-Montecarlo, e, solo di recente - quasi parallelo - il tracciato autostradale scavato a forza tra le brughiere carsiche, e in mezzo alle due rotabili la strada ferrata: sono tutto ciò che collega fisicamente la città al resto del Paese. Nulla a che fare con le città radiali tradizionali, in cui si accede più o meno da tutti i punti cardinali, e in più magari c'è un fiume che l'attraversa creando una ulteriore varietà di collegamento.
Nulla di tutto questo, il destino di questa città più di altre è legato al mare. È da qui che si diramano (in passato, ora non più) le rotte per i luoghi più diversi, esotici e lontani. Ed è attraverso il mare che si sono incontrate qui, come ad un crocevia, le più disparate etnie e culture, facendo di Trieste, paradossalmente e in barba alle limitazioni degli accessi terrestri, uno dei centri storicamente più cosmopoliti e "multietnici" d'Europa. Ciò che vediamo realizzarsi solo in questi ultimi anni nelle nostre città, con la presenza più o meno integrata di diverse culture ed etnie, è stata da sempre caratteristica saliente della città.
Da qui si è probabilmente forgiato il carattere tipico - generalizzando si capisce - della popolazione Triestina, abituata allo scambio, piena di stimoli e di spinte culturali le più diverse, all'accostamento, quasi all'accatastamento in poco spazio di più religioni e chiese, dedita con abilità mercantile al commercio, disinibita e socialmente libera, capace di esprimersi con una forma di ironia scettica e aconfessionale, così tipica di queste zone. Un abito mentale connaturato financo nel suo modo di esprimersi, nel suo particolarissimo dialetto, di ceppo chiaramente veneto, ma terreno di incontro e di scontro di almeno altre due linee linguistiche, la slovena e l'austriaca, senza trascurare forti presenze di francese (da Napoleone), greco e yiddish.
Questo Ettore Schmitz con cui ci accompagniamo per passeggiare lungo una delle tante vie traverse che in questa città conducono al mare, è una espressione massima e nobile di queste mentalità, di questa cultura e di questa sensibilità.
Un Ettore Schmitz dedito a un lavoro assolutamente borghese, da dirigente industriale nel ramo vernici marine, sposato con la figlia del proprietario della fabbrica, apparentemente lontanissimo dall'arte e dalla letteratura, eppure capace di incarnare assieme a Freud, Joyce (guarda caso) e Proust la svolta epocale di un'intera civiltà, che si avviava presto all'olocausto e al suo graduale decadimento. Tale fu la separazione, la sindrome di sdoppiamento di quest'uomo, da spingerlo a scrivere sotto pseudonimo, in modo semiclandestino, pur intrattenendo saldi collegamenti con le intellettualità più rilevanti dell'epoca.

Sono infinite le affinità che sento con questo scrittore, io donna, io lontana da Trieste dai miei primi vent'anni, io espressione del mio tempo, magmatico e disperso.
In questi versi, lascio libero spazio a queste affinità, immaginando di incrociare, al di là del tempo e dello spazio, lo sguardo di questo Artista, indagatore ed enigmatico.


Vi lascio a queste mie riflessioni e a questi versi, amiche care e amici fedeli, come sempre, con amore.

M.P.




Il Mare d'inverno
 (cinque vedute di città)
Trieste, dal Colle di San Giusto




IV


Svevo


La via svoltava stretta,
poi scendeva ripida verso la riva
affollata di genti e di faccende
odorosa di vino, di salso e di fritto.

Io ero la ragazza dall'esile collo
e la camicia di seta che custodiva
stretto il petto magro sotto i merletti,
e le chiome raccolte sotto il cappello

di paglia, sghembo: la ragazza bruna
che il poeta seguiva con sguardo stanco
dietro il fumo azzurrino della sigaretta
e che avrebbe volentieri chiamato per nome

...se solo il mio nome avesse saputo.
Angiolina era già nella sua mente, sebbene
mai forse avesse conosciuto una ragazza
che a quel nome rispondesse, ma di certo,

sovente aveva incontrato una fanciulla
com'ero io allora, con quel collo alabastro,
quel vergine petto, e quegli occhi
fieramente agitati di mare e di vento.

I quartieri eleganti del Borgo, e quelli straccioni
della Città Vecchia, si fondevano affollati fitti
accosti al porto, e le immense carene nei bacini,
esponevano i ventri nudi al sole, lustri di colore.

Tutto questo era ciò che lo tratteneva
prigioniero in quei luoghi, catene di sangue
e di ferro incrostato di ostriche e coralli,
come le àncore piantate nella fanghiglia del fondale.

Ma più ancora legato lo teneva
la Femmina ch'egli amava e bramava
sopra ogni cosa, ogni convenienza, ogni ragione,
lei che era forte e fiera come la bora di primavera.

Vi era nelle sue provate membra il peso greve
della indecisione, dell'inettitudine all'azione,
dell'ipocrita sua lussuria, e sola lo salvava
la sua candida voce di poeta, libera e inquieta.

Egli sapeva che v'era un solo luogo, al mondo,
dove il paesaggio, gli edifici, le navi dell'uomo
e le donne dai capelli di vento si fondevano
in un'unica onda marina, per travolgere il tempo.

Mai, in vita, avrebbe lasciato egli quel luogo!



Marianna Piani
Milano, 19 Dicembre 2013

sabato 15 marzo 2014

Il Mare d'Inverno - III


Amiche care, amici,

ecco la terza "stazione" del nostro breve viaggio sentimentale nelle mie terre d'origine.
O meglio sarebbe dire la mia "città d'origine", poiché Trieste, in quanto tale, dagli anni '50 può vantare un "territorio" assai limitato, stretta com'è tra il confine orientale, le alture carsiche e il mare.
E infatti mi diverte quando qualcuno, saputo della mia origine, mi chiede di precisare: Trieste città? In effetti ben poco d'altro c'è intorno, se non consideriamo le cittadine e i villaggi dell'angusto entroterra, in gran parte di lingua slovena, e quelle della costa, piccoli e deliziosi villaggi di pesca (e, ora, di turismo e balneazione) come Barcola, Santa Croce, Sistiana o Duino.
Ed è proprio qui, a Duino, che ha luogo il nostro incontro di oggi con uno dei Poeti da me più amati, tra quelli in lingua tedesca, tanto è vero che è probabilmente il Poeta in tale lingua che più di frequente ho cercato di tradurre.
Rilke, a rigore, non sarebbe da annoverare tra gli scrittori e poeti della mia città, non solo perché Duino non è propriamente Trieste, ma anche perché egli a Duino ha soggiornato solo per pochi mesi, giusto il tempo per iniziare il celeberrimo e celebrato ciclo di elegie, una collezione di gioielli poetici che ha pochi eguali nella storia della letteratura europea del '900.
Tuttavia il mio "viaggio" è puramente ideale, non ha alcuna pretesa storica o critica, ovviamente, si limita a raccogliere delle suggestioni, e a riproporvele, senza alcuna intenzione se non quella di condividere con voi, lettrici e lettori, qualcosa che mi appartiene. E l'atmosfera, il suono, l'emozione che comunicano le liriche Rilkiane per me sono indissolubilmente legate ai luoghi in cui per la prima volta le ho incontrate, nella mia vita, che incidentalmente coincidono, nel caso delle elegie duinesi (Duineser Elegien), con i luoghi che ne hanno visto la scaturigine prima.

Confesso che non condivido l'acceso misticismo del Poeta, che di certo non è nelle mie corde né nel mio stile, tuttavia adoro la sua intensità di pensiero, la sua musicalità e la sua straordinaria potenza evocativa. Di quando in quando mi piace immergermi in queste atmosfere, in queste temperie espressive, come alcuni tra i più attenti lettori avranno avuto già modo di accorgersi, ma ancor più amo evocare nella memoria questi luoghi, che sono stati i luoghi prediletti della mia infanzia. Sulla piccola baia che accoglie il porticciolo di questa minuscola cittadina si affaccia credo ancora oggi un ristorantino in cui spesso la Domenica scendevamo a pranzare con la famiglia, quand'ero bambina. Non sapevo nulla, all'epoca, di Rilke o del leggendario Castello, anche se mio papà me ne raccontava spesso la storia. Tuttavia c'è qualcosa in quel mare, in quel colore verde cupo, nell'eco della risacca delle onde imprigionate all'interno della piccola insenatura, tra barche di pescatori e da diporto, qualcosa di indimenticabile, che avrei trovato, qualche anno dopo, nelle mie letture ancora "ingenue" di questo grande poeta. E a tutto questo si intreccia la leggenda della "Dama Bianca", una spettrale apparizione sbozzata in un particolarissimo sperone di roccia, a picco sopra il mare, in cima al promontorio che chiude la baia.

Vi invito a passeggiare con me ora, amiche dilette e amici, lungo questa scogliera affacciata al mare, come sempre con amore.

M.P.




Il Mare d'inverno
 (cinque vedute di città)

Duino, la Rocca e la Dama Bianca



III


Rilke


Il mare è vorace, qui, come un ragazzo
che gusta l'amore la sua prima notte:
si avventa sulla scogliera con ardore folle,
e l'addenta con furia al collo alle labbra al seno.

Il mare risale verticale la rocca
in progressione vertiginosa, e al colmo qui s'impenna
al vento che accoglie l'onda e ne scompiglia la chioma
verdazzurra strappandole ciocche di schiuma d'alba chiara.

La tempesta qui è attesa, quasi evocata, invocata, mai temuta,
mentre le notti di bonaccia inquieta, quando ogni anima
e ogni cosa qui raggela, lascian cadere la luna nell'acqua
come un volto pallido abbacinato che annega di abbandono.

Che rimbombo, che ruggito fanno le onde assieme
spezzando gli ormeggi nella cala! Nel silenzio teso
denso d'attesa, invece, la donna abbandona la sua veste
di pietra bianca, e pallida, nuda, risale la diroccata torre.

Sola, folle di rabbia, folle di desiderio, folle di ardore,
la donna spalanca le sue braccia, offre il suo corpo illeso
alla vendetta, e alla nebbia salmastra che l'investe
inondandole il viso della voglia, del bisogno di vita estremo.

Per questa voglia nel vuoto ella si getta,
a raggiungere il suo mare, il suo amante, il suo sposo,
per unirsi a lui per sempre e divenire infine
onda bianca tra le bianche disperate onde

dal vento imprigionate tra le sponde della baia.



Marianna Piani
Trieste, 18 Dicembre 2013

mercoledì 12 marzo 2014

Il Mare d'inverno - II



Amiche dilette, amici,

Proseguo con la mia piccola serie di omaggi alla mia città d'origine attraverso lo sguardo dei suoi scrittori.
E in particolare oggi in compagnia di uno dei poeti da me più amati in assoluto, fin dai tempi dell'infanzia, Umberto Saba.
Per questo, per questi echi lontani di mare e di vento che ancora accompagnano i miei ricordi più belli e sereni, nell'evocare quel nome e quei luoghi, non ho potuto fare a meno di ritrovare me stessa: una me stessa ragazzina, un po' scriteriata, scompigliata e libera come l'aria, tutto ciò che io ero prima che la vita mi piombasse addosso, facendomi conoscere il dolore, e la sua aspra lezione di verità e coscienza.

Dovete sapere che esiste ancora, a Trieste, praticamente intatta, la Libreria Antiquaria che appartenne a Saba e che vide il Poeta per lunghi anni al lavoro, tra scaffali di libri antichi e preziosi, e dove presumibilmente stilò molti dei suoi gioielli.
Per me Trieste è infatti anche il luogo dei miei primi incontri letterari, indimenticabili e indimenticati, ed è la città in cui è scattata la scintilla del mio personale vivissimo amore per il libro, questo strumento insostituibile della memoria dell'umanità; il libro come contenuto, e come oggetto, come altre volte ho avuto modo di esprimere in queste pagine.
Ad ogni modo, Saba, la sua libreria e la città, assieme sono la rappresentazione perfetta del mio concetto di vita e di maturazione umana, filtrata attraverso la narrazione e la memoria.
E nella scrittura, come sempre, ho recato il mio modesto omaggio all'Artista, riecheggiandone un poco la voce, e lo stile...

Dedico queste riflessioni, e questi versi, a voi, come sempre, amiche care e amici meravigliosi, con amore

M.P.




Il Mare d'inverno
 (cinque vedute di città)

Trieste - La Libreria Antiquaria


II

Saba


Chiamami a te, quando vuoi, giovane vecchio,
e attendimi, in cima all'erta esposta al vento
del nordest che non perdona, ululìo cupo di rami.

La stradina discende diretta al mare, nero e bianco
di spuma come il mosto nel tino, vena di sassi
che scorticavano le mie ginocchia da piccola

saltafossi che ero, allora, nelle estati scatenate:
fanciulla, così simile a uno dei fanciulli da te
troppo amati, corti capelli corvini e occhi di pece.

La donna ch'era in me, e che tu pur avresti ammirato
e teneramente amato, premeva già prepotente il petto
e il pullover e la gonna plissé segnata di pece di scoglio.

Le braccia chiare, scoperte, non esili, ma sode,
da ondina già esperta, senza la minima ombra
alle ascelle, ti avrebbero fatto sognare, più avanti,

nelle tue lunghe pause di meditato silenzio
così fecondo di voraci parole, e di arditi pensieri.
Pensieri alti come quei gabbiani alti all'orizzonte,

liberi, come quei passeri, quei colombi, quegli storni
che popolano il tuo mondo d'innocenza, di strepiti e voli.
Densi, come i volumi dal dorso consunto sugli scaffali.

Chiari, come altrettanti soli ardenti sulle marine aspre
di salso e di scogli, dove noi riposammo, fanciulle,
come sirenelle bruciate dal sole, dal riso, e dall'incanto.

Tu scrivente fosti testimone di quest'essere pure e vitali,
e ammirasti la nostra pelle di alabastro, invincibile
al desiderio, inespugnabile fortezza dell'innocenza.

Ora alle erte e ai declivi rimane solo il vento, e il mare,
alle schiere di libri il mistero inalienabile delle storie,
agli uccelli e alle fanciulle il canto e l'inerme purezza.

Tutto è diverso, e tutto è eguale, nel tempo, la bella città
riposa sul tuo grembo e tu, indulgente suo sposo,
le carezzi il capo con la dolcezza dei tuoi infiniti pensieri.




Marianna Piani
Trieste, 17 Dicembre 2013

domenica 9 marzo 2014

Il Mare d'inverno - I


Amiche dilette, amici,

eccomi al rientro, dopo una assenza obbligata, non del tutto piacevole, ancora piuttosto stanca e frastornata devo dire.
Mi pare di essere rimasta lontana da voi per un millennio, eppure si tratta di pochi giorni. Mi sembra perfino che sia mutata la stagione, complice l'atmosfera quasi primaverile di oggi a Milano. Mi sono svegliata - cosa per me del tutto inconsueta, essendo io mattinierissima - alle undici e venti.
Mi siete mancati molto, e moltissimo mi è mancata la scrittura. Per la prima volta nel corso di uno di questi miei frequenti esili l'isolamento e il trattamento cui mi sono sottoposta mi ha impedito di scrivere anche una sola riga, un solo verso. Non si è trattato di nulla di doloroso, dal punto di vista fisico, ma ho sofferto parecchio proprio di queste deprivazioni: la mia linea di comunicazione con voi, e con chiunque (Internet in generale mi era irraggiungibile per la mancanza di collegamenti accessibili) interrotta, e l'impossibilità di scrivere. Non che non avrei potuto farlo, un taccuino e una penna sarebbe stata sufficiente, ma la mia mente era stata del tutto estraniata. Potevo pensare, e ritrovare la mia libertà nel pensiero, ma non ero in grado di mettere giù una sola riga che fosse intelligibile.
Ad ogni modo basta, ormai è finito tutto, riprendo pian piano possesso della mia vita, e soprattutto riprendo il contatto con voi, sperando di ritrovarvi.

Nel lasciarvi - se rammentate - vi avevo promesso di iniziare al mio rientro a pubblicare qui un piccolo "ciclo" dedicato alla mia città d'origine.
Poco prima della fine dell'anno vi feci uno dei miei brevi viaggi ricorrenti, ospite di una delle poche amiche che mi sono rimaste in quei luoghi, frequentati fino all'adolescenza e poi abbandonati, dopo lo sfaldamento della mia famiglia.
Si trattò di pochi giorni, di cui avete già avuto traccia nella mia lirica precedente "Parlare del mare d'inverno" che potrebbe fare da "prologo" al corpo principale di questo piccolo ciclo poetico. E proprio per questo ho pensato di intitolare il ciclo appunto così, "Il mare d'inverno".

Sentivo il bisogno di ritrarre la mia città, ma volevo ritrarla da una prospettiva che potesse restituirne l'atmosfera molto particolare, una delle caratteristiche più salienti di questo piccolo centro di commercio e cultura, sviluppatosi in modo del tutto originale in un incrocio originalissimo di geografia, storia e etnia.
Io credo che Trieste sia forse la città più "letteraria" del nostro Paese, così come Roma è la più monumentale, Firenze la più pittorica, Venezia la più musicale, Napoli la più teatrale, Vicenza la più architettonica (semplificando, beninteso, fino a un livello di "solgan")
Trieste non ha un aspetto architettonico paragonabile a quasi ogni città Italiana, pare più una città Europea in questo senso, con una logica urbanistica della giustapposizione e del patchwork, molto moderna, ma senza una vera organicità. Il "collante" che tiene insieme scorci e vedute (peraltro di grande bellezza e nobiltà) è quasi esclusivamente letterario, e lo si trova nelle pagine che nel corso specialmente del novecento la hanno descritta e incarnata, da Svevo a Magris.
Per questo, quando mi sono messa dietro al cavalletto con l'intenzione di "portarmi a casa" qualche paesaggio, qualche veduta a colpo di pennello, ho deciso di procedere in modo sghembo, indiretto, cercando di figurare le prospettive, le immagini e i colori (e anche i suoni, le luci, i caratteri, le persone) attraverso gli occhi di alcuni degli Autori che di quelle terre si sono occupati, o che sono vissuti immersi in quella luce, accanto a quel mare.
Aggiungo solo, per cercare di farvi comprendere meglio, che quel mare ha una voce del tutto particolare, unica, e per chi come me è nato sulla sua riva si tratta di una voce assolutamente riconoscibile ed inconfondibile.
Così come riconoscibile e inconfondibile è la voce dei Poeti di queste terre.

Se permettete, condivido con voi questo viaggio, sperando che possa incuriosirvi, interessarvi, o intenerirvi. Come sempre per voi, con amore

M.P.





Il Mare d'inverno
 (cinque vedute di città)

(Trieste - Il Canale, da Ponte Rosso)




I

Joyce


Forse cento volte transitò su questo ponte
il poeta del viaggio dall'anima all'Uomo.
Forse cento volte osservò distratto le barche
che s'azzuffano ancora scosse dal vento forte
e forse il suo sguardo si posò cento volte
sul volto fiero della ragazza che traversa
ora in fretta la piazza, sulle agili caviglie.

Quanto son belle e ardite, forse pensava allora,
le caviglie di queste donne, così snelle, ma salde,
come colonne tornite nel marmo, puntelli di grazia,
e com'è affascinante il loro passo,
quand'è sicuro, eretto, scandito dal suono deciso
del tacco sul selciato. Forse, seguendo quel passo
egli fantasticava di possederne, un giorno, il corpo.

Forse cento volte acquistò un soldo di castagne
roventi al carretto fermo al capo della piazza,
prima di svoltare nella via, verso il portale
sorvegliato da angioli liberty anneriti dai fumi
della città, e ogni volta aveva indugiato titubando
ai gradini dell'entrata, non sapendo decidersi
se varcare la soglia tra l'amore promesso

e il compromesso. Si girava allora un istante ancora
col pretesto di sbucciare un frutto annerito, e restava
ad ammirare e invidiare la libertà incosciente d'un piccione
che si lanciava ad ali chiuse a capofitto dalla cornice
del tetto per piombare veemente sulla compagna in attesa.
Perché un poeta, alla cui genìa sapeva di appartenere,
doveva perdere ore di vita e di voli, per la sua pena?

La ragazza intanto, e la sua gloriosa gonna fluttuante,
si allontanava nella via verso il tempio, dove terminava
il luccicare del Canale, e si infilava in un uscio nero
dalle grate di ferro brunito. E fu perduta per sempre.
Intanto nei viali si attizzavano i lumi, per accogliere
la notte che s'avvicinava, e il mare, poco lontano,
mormorava il suo svagato pensiero, nel respiro della marea:

La città era la donna, e il vento le sollevava la gonna.
Il suo volto era quello pallido e duro del Castello,
la sua voce e il canto erano le campane che scompigliavano
gli stormi dei gabbiani, come le chiome chiare agitate,
liberate in quel vento, e il suo sguardo blu cielo
era la luce del faro, a sentinella dell'intera baia d'argento.

Il portone si chiuse infine alle sue spalle con un tonfo d'ottone,
il poeta, con le sue visioni al fianco, salì solitario le scale.



Marianna Piani
Trieste, 15 Dicembre 2013