«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

Sette Sensi






Sensi







Preludio




Venne giusto il giorno, e l'ora, e il momento,
troppo precoce, troppo improvviso, troppo atteso,
il momento di lasciare, per sempre, la fanciullezza,
appesa a due seni acerbi e due stille di rugiada
color rubino - subito sorbite dalle invidiose coltri
del mio lettino. E venne la Regina della Notte
in sontuosa veste di tulle e organza, al mio cospetto.

Venne, recandomi uno stiletto di cristallo
l'elsa ornata di gemme e la cifra d'ossidiana
con il mio nome a caratteri d'arabesco.
Disse, con sguardo dolce, ma voce ferma:
– Cara, sei donna, e il tuo destino ora e sempre
è iscritto nel tuo corpo, com'è il tuo nome
iscritto sulla lama nuda di questo coltello.

– La lama di cristallo è per aprirti il ventre
quando ti si chiederà di versare il sangue
per il privilegio di poter creare come Dio la vita.
Queste gemme sono ciascuna
la sola via che t'è concessa
per accedere alla conoscenza
del mondo e di te stessa.

– Attraverso questo topazio sfaccettato
potrai mirare il firmamento e l'universo della bellezza,
dallo smeraldo avrai gli arpeggi e i canti
dei cherubini e degli usignoli all'alba,
dall'ametista il calore degli abbracci
dell'erba nuova, e l'aspro graffio del frumento,
dall'acquamarina il profumo ondivago del salso

e della menta e del finocchio in rigoglio
sulle sponde dell'oceano-vita. Dal rubino avrai
il sapore dei baci di chi t'ama e il vino
di cui t'inebri nelle notti di abbandono,
nel diamante che vedi sul colmo dell'elsa
il più puro e atroce dei tuoi doni: la conoscenza
e l'intuizione che porta indifferente gioia, oppure

assai più di frequente pianto – Così disse e tacque
la Regina, e mi porse lo strumento ancora sfavillante
con le sue mani bianche. Io, nel cuor mio ancor bimba,
esitai, tremando, come trema la cerva immatura
sul bordo della radura: non di paura, ma combattuta
tra il ritirarsi protetta nel fitto della foresta oppure
affrontare l'ignota brughiera, in campo aperto,

pur di scoprire le fragranze dei fiori novelli
e dei primi nettari offerti alle api, alle farfalle,
e agli innamorati. Svanì la Regina prima dell'alba
e all'alba ritrovai il suo dono tra le mie mani.
Sapevo ora che lo avevo, oscuramente sapevo
ma per certo, che la mia sensualità era un'arma
tagliente e fragile, spietata e senza prezzo.

Sapevo già dal primo istante, di poter ferire
oppure ferirmi, versare il mio sangue alla vita,
o anche morirne. Sapevo che ogni respiro
del mio essere femmina era stretto nel mio pugno,
gracile esangue pugno adolescente, fragile,
eppure tanto saldo da sfidare l'angoscia
impugnando la speranza sola, come una spada.

Sensuale sensibile sensitiva sentimentale
insorgente femminilità, tesoro e tormento
della mia vita!



Marianna Piani
Nebbiuno, 11 Agosto 2013





I 

Vista


È la chiave del cielo, che s'apre con fiotti
e ciuffi del colore del giacinto e del croco, al mattino,
ed è l'onda increspata dal vento del grano
che agita gli steli, offrendo al Sole l'oro e il bronzo
dei tuoi capelli, ondeggianti anch'essi come flutti
di spighe che lussureggianti inondano i poderi
senza recinti né cancelli dei tuoi vasti pensieri...

È il cupo granito del cielo in tempesta
che squarcia di strappi di luce abbagliante
le cortine chiuse dell'orizzonte, sopra il mare,
ed è il rincorrersi come fanciulli in gioco
degli sbuffi di schiuma sopra le onde già in fuga
in direzione incerta, ed è ancora la sfida
della luce che s'apre la strada tra nembi di piombo.

Sono i tuoi occhi, ad aprire la strada alla luce,
i tuoi occhi che della luce hanno la natura
di cristallo e di fuoco, i tuoi occhi e i loro sguardi
che infiammano sugli argini le siepi riarse,
e le esplosioni di porpora e sangue delle azalee,
e il richiamo non lontano dei roseti di sangue
e delle distese di gramigne punteggiate di ciclamini.

I tuoi occhi creano spazio, nell'atto di vederlo,
e come architetti o ragni ingegnosi tessono tele
di fili dai punti di fuga alle orizzonti, fabbricando
con ciò spazio dentro spazio, dimensione che erompe
nella dimensione, eludendo la logica oscura
delle ombre, che dello spazio sono sovrane.
L'Architetto Sommo è Dio, lo sguardo ne è il compasso.

E quando la luce svapora, e gli eventi già si fanno
memoria, ciò che rimane è la traccia - incisa a bulino
sulla corteccia del tempo - dell'istante, del puro istante,
di ciò che, estranea a ogni Tempo, la luce ha svelato
a ogni sguardo come il tuo: innocente, intatto.
Il mondo organizzato secondo linee, geometrie, fughe,
si frantuma in una fantasmagoria di frammenti di specchi.

Noi abbiamo fede in ciò che ci concede di contenere
nella nostra mente viandante, esiliata da ogni potere,
l'esondante caos della vita che ci sommerge, eppure
ne comprendiamo l'inganno, la mistificazione profonda
dove nulla di ciò che ci appare immutevole, costante,
è mai quiete, tutto mutando senza tregua, né requie,
né riposo, né respiro, né sosta. Tutto. Tranne l'istante.

La visione è percezione puntiforme, unica, disperata
di un solitario istante.



Milano, 20 Febbraio 2013




II

Udito


Ogni onda, alla fine d'un viaggio da arcipelaghi remoti,
risale la sua ultima duna sulla battigia, sommovendo
nella nube di sabbia uno scroscio di valve morte, e ricci cavi,
e spoglie di granchi, e grigie argille, intonando il canto perpetuo
dell'Oceano nella culla del mondo. Un canto muto
sommesso, mai finito, cullante come una monotona nenia
di levatrice, matrice dei destini di un mutabile universo di flutti.

Il frinire dei grilli, largo, spiegato come una distesa di campane
a martello lungo la valle, accoglie la notte in un saluto
di festa e di gelida nebbia soffusa di suoni, e un sentore di brina.
Poi sorge il brusio e il ronzio delle api, sempre più assordante,
riempie le arnie e le strade di industrioso brulicare di vita.
E presto, con l'agonia lunga del cielo stellato e il trionfo
del Sole sul suo carro falcato, sarà il frastuono delle cicale.

Il bimbo sul bordo del precipizio, rosso in volto
per lo sforzo e le squillanti risate, strilla il suo nome,
per sentirselo ridire, più volte - come un coccio levigato
picchia sul pelo dell'acqua dello stagno in ripetuti saltelli -
dall'eco solenne dei canaloni. Uno falco, oppure un nibbio,
risponde da dietro un seracco che taglia il cielo, più in alto,
e il suo fischio selvaggio si fonde alla voce, tra le rocce.

Il suo volo largo, planato sopra la valle che sfila tra cime
schierate come severe clarisse in preghiera, ora scende,
in picchiata. E sfiora la superficie del torrente, scintillante
come una coda di cometa sfarinata tra i rododenri fioriti.
Le rapide frangendosi nel letto pietroso bisbigliano,
ma subito innalzano gridi di guerra, e più a valle, un salto
improvviso interrompe il grido e lo muta in un ruggito.

Distante, lo scampanìo della mandria all'alpeggio
intesse un dialogo fitto con la voce del vento,
e il vento fugge, e s'insinua tra le canne all'argine
della palude, e qui il suo arco intona la melodia dolente
che culla nel sonno imminente i segreti nidi degli aironi.
Una viola, da qualche segreta stanza nella città già sopita,
riprende il tema, con la sua voce densa e suadente.

Il canto s'avviluppa e s'inviluppa nell'aria serale ancor dolce,
la singola nota insegue la nota, e d'altra nota ancora
è seguita, e ogni suono, ogni armonia, ogni sfavillare
del tema è assolto, e risolto, in un nuovo sviluppo e inviluppo
più nuovo, come il richiamo e la risposta di un usignolo
alla sua bella, nel cuore calmo della sussurrante foresta:
che lo interpella, inattesa, per chiudere il giorno in una danza...

Il suono è un flusso di onde, le onde scorrono
nell'alveo dei torrenti e sono puro moto.
Il moto è la vita. La vita perciò è suono,
ed è canto.



Milano, 25 Febbraio 2013




III

Tatto


Vedo i tuoi polpastrelli, le tue unghie ribelli che sfiorano
pagine e pagine e quaderni e narrano storie e tracciano
rossi segni sulla mia pelle. Vedo le mani, che sono bianche
come colombe, e come uccelli dalle lunghe ali scendono
in volo e si tuffano nei miei capelli, come tra i rami
di un salice bruno fanno gli storni, strepitando,
nel cercare riposo, e riparo, per la incombente notte di vento.

Sento, tra ogni singolo capello, passare quelle mani,
quegli storni e quel vento, insinuarsi e giocare e intrecciare
i voli e il respiro, e la infinita grazia di un tocco che trae a sè
la mia bellezza, così come un ladro trafuga una collana
di perle solo perché l'ama. E sento, e vedo, le labbra
tue di seta, rossi fiori di campo, e le tocco, in punta
delle mie dita, per saggiarne la morbida palpitante consistenza.

Così fu che sentii i muri di pietra e il loro intonaco abraso
come il ricordo d'un amore finito in delusione e sospetto,
strisciando le palme nude, senza curarmi dei graffi,
o dei tagli sulla pelle. E sentii il lieve titillare del muschio
aggrappato contro ogni attesa alle connessure divelte,
e il freddo amplesso del mare, che pareva invitarmi a entrare
nel suo nero regno, afferrandomi bruciante di salso i polsi.

E fu così, sulla pelle come una pelle, che saggiai il dolce
scivolare dei pizzi e delle sete che tu mi donasti, generosa,
perché apparissi e vivessi con te lo sbocciare del femminile
ardore. E fu su quelle mani, su quelle dita, che percorsero
tante volte febbrilmente il mio corpo, in quel tocco svagato,
finanche incorporeo che ti sentii entrare nell'anima, fino a farmi
provare il senso della vita, mutandomi in un ramo snudato.

E provai, camminando da sola sulla scogliera, il disagio,
il dolore discreto e pungente delle rocce e delle valve
delle ostriche e patelle che ferivano le piante indifese dei piedi.
E in equilibrio precario come in cima ai miei sandali a spillo,
spillavo uno a uno i passi, sui sassi, sull'umido gettato dalle onde
e l'asciutto rugoso drenato dal sole. E sopra il limo delle alghe,
che mi lambivano con sensuale infida carezza le dita.

Sapevo che infine sarei giunta a te spoglia, offrendoti
ogni singolo nervo del mio corpo scoperto, per sentire,
fosse l'ultimo atto mio in vita, il calore tuo avvolgermi
come m'avvolge il calore e la luce del sole al tramonto,
nella sua coperta tessuta di protettivo affetto, e percepire
sopra il mio petto il sospiro liquido, come miele d'arnia,

della tua mirabile, tangibile, densa, casta presenza.

Non v'è tempo, né spazio, presenza soltanto nella mano
che mi sfiora il volto. Sfiorando, essa incontra l'anima mia.



Nebbiuno, 3 Marzo 2013




IV

Olfatto


Accompagnami, ti prego, sorella, nella foresta,
nella selva dei larici che sale a incontrare le rocce,
partiamo all'alba, ai primi bagliori che accendono
i pinnacoli delle cime d'una misteriosa fiamma.

Aspiriamo i profumi delle abetaie, dei tronchi abbattuti
dai fortunali d'estate, il sentore denso dei muschi,
e quello appena sensibile delle felci, venerabili
vestigia viventi che ricoprono la torba morta del fondo.

E il richiamo inconfondibile dei funghi, abitanti discreti
di ogni riposto giaciglio del bosco, funghi buoni, prelibati,
funghi agri, funghi letali, funghi che discorrono tra loro
con le fragranze dei loro ombrelli, zuppi di notturne rugiade.

E l'erba della radura, alta, china sotto il suo stesso peso,
s'empie di libero cielo, come i tuoi capelli, che dell'erba
e del foraggio hanno il colore, e più ancora l'odore,
e alla pioggia violenta e breve d'estate si gonfia e si sazia.

A piedi nudi traversiamo quei prati, godendone la cedevolezza,
per giungere agli argini della palude che si cela dietro le canne,
e respirando sappiamo riconoscere tra quelle essenze confuse
con l'acuto odore di putrescente fogliame il profumo del giglio.

Così nel giaciglio segreto delle folaghe e degli aironi
ci attardiamo ad ammirare le tremule covate di ciechi esserini
in balìa della loro vorace pretesa di vita, mentre il falco pellegrino
strilla il suo dominio al cielo, e il vento ci porta lontani profumi

di limoni fioriti. Osserviamo la piana estendersi ai nostri piedi
e ci inteneriamo a vedere le minuscole case, la ferrovia
che serpeggia in miniatura, intersecando la strada, e il fiume,
e inspiriamo le brezze che recano in sè i sospiri dei colli.

E reggendomi così, a te aggrappata, sul bordo del precipizio,
sento il profumo di selva della tua chioma vermiglia,
e quello di giglio delle tue labbra di seta, e l'acquitrinoso
sentore della tua nuca - bella come un marmo di Fidia,

- nuda perché scoperta dal nastro che ti trattiene i capelli,
e sento il dolce odore che hai sul seno, come le coppe
di una ninfea, bianche, spalancate al baciare del sole,
e quello di rosa e di malva che custodisci gelosa nel grembo.

Il senso del riposo con il fluido odoroso di foglie del lago
mi giunge viaggiando sulle ali del vento che accarezza
le acque increspandole, come rabbrividisce a te la pelle
quando ti appoggio le mie labbra tra clavicola e spalla.

Mentre i tuoi profumi di corpo, di pelle, di seta e di marmo
mi avvolgono come avvolge la nebbia un bacio tra amanti,
il mio corpo riposa, abbandonato, sciolti i capelli, mani aperte,
occhi chiusi nel sonno incombente, sopra un letto di petali bianchi.



Milano, 19 Marzo 2013
(Per M.G. amica adorata)




V

Gusto


H
ai provato, cara, nelle tiepide sere d'Estate
a passeggiare sotto i gelsi, odorosi di rose,
a spiccare dai rami le pallide molli more,
e a saggiarne la zuccherina essenza, vorace
come una vespa inebriata dal delizioso richiamo?

Hai mai teso la lingua, come fa un bimbo,
per raccogliere la stilla di miele, traslucente e dorata
come una perla d'ambra, che cola indecisa
dalla cima delle tue dita, alla ricerca di godere
solo un istante di viscoso piacere?

Rientrando dal tuo vagare nella selva di abeti
nel sereno meriggiare d'autunno, hai mai raccolto
una manciata di fragoline di bosco, minuscoli cuori
nascosti nel muschio, e aspirato l'intenso profumo
prima di goderne il succo, infantile e innocente?

E hai mai provato l'agro-dolce dialogare
del mirtillo e dei vellutati lamponi, zaffiri e rubini
sospesi sopra le asciutte sassaie delle rive
dei torrenti, o delle scarpate che bordano
i sentieri inerpicati verso le mete più ardue;

e bere senza timore il succo del ribes,
e le gelide acque ribollenti schiumanti ai piedi
della cascata, e risalire come una fanciulla
scapestrata fino ai rami più alti e sottili dei pini
marini per estrarre da dentro le loro dure scorze

gli schivi pallidi semi, per subito saggiarne
il resinoso muschiato sapore, l'hai provato?
Le uve hai saggiato, prima che diventassero vino,
e poi lo stesso vino, foriero di rischiosi abbandoni
nei suoi avvolgenti abbracci che simulano i sogni?

Hai provato una volta almeno a bagnare le labbra
nelle le onde del tuo mare, amaro mare
di deluse partenze per terre lontane
mai raggiunte prima d'annegare sfiancata
da una nuotata troppo tempestosa per le tue forze?

* * *

Il dolce, il salato, il vellutato, nulla è più intenso
e delicato in confronto alll'incontrare le tue labbra
sulle mie, qui sul belvedere delle nostre vite,
nulla come assaporare la dolcezza del tuo desiderio
inondarmi di confortante inebriante assenzio.

Nulla è come gustare le papille odorose
della rosa carnosa che si schiude soltanto a un sole
gravido di amore, e insinuarmi come un'ape
tra i petali in estasi per sentire il sapore intenso
che ha il nettare più puro della passione.

Sono arrivata a lambire il segreto bocciolo
del tuo fiore selvaggio, e ho gridato di gioia!



Milano, 28 Marzo 2013




VI

Veggenza


Compresi da come le nubi si addensavano allo zenith,
e da come il vento mi alitava il tuo nome, sì, compresi
che s'approssimava la fine della storia, e che tu
avresti presto attraversato quell'uscio, senza voltarti

nemmeno per un ultimo cenno, o un distratto conforto
al mio dolore, o per fingermi una irragionevole speranza.
Così come, già la sera prima tutto seppi da come attizzavi
la tua sigaretta, dopo una notte sia pur di passione...

Dio, quanto ho odiato, le tue sigarette, e quanto ne ho adorato
il gusto amaro, salino, nella saliva che mi davi da bere
dalle tue labbra febbricitanti, e l'odore di muschio combusto
del tuo fiato, quando mi sussurravi a voce roca tuoi pensieri.

Lo seppi dalle volute azzurre del fumo che si facevano strette,
e dal tizzone che consumava fino quasi a bruciarti le unghie
e da come il tuo sguardo si perdeva nel cielo della stanza
mentre aspiravi a fondo, ricolmandoti il seno.

E dal tuo sguardo lo seppi, senza una parola, ma vedendo
come nel fondo di un pozzo, le miglia che già s'eran scavate
tra te e me, nonostante i nostri corpi fossero tanto vicini
da percepire l'una dell'altra la febbre che ci bruciava:

tu di partire, dietro la tua vita, io di morire, privata di te.
E lo sapevo da giorni che dentro te mutavi, anche se fuori
parevi essere sempre la stessa qual eri da me incontrata
quel mattino che m'apparisti come una dea:

circonfusa dalla luce della tua bellezza e della tua sicurezza.
Lo sapevo perché lo sentivo, da come mi sfioravi la mano
non più con la tua regale fermezza, ma con titubanza furtiva,
quasi di femmina casta, quale certo non eri mai stata.

Eppure erano giorni e giorni che sentivo un'angoscia montare
dentro il mio petto, come una marea di sale, anche al di là
di ogni segno, di ogni indizio, di ogni ragionato giudizio,
presentivo le vibrazioni che precedevano il sisma, lo sconquasso,

il crollo del nostro castello, che credevo eterno - blocchi massicci
di basalto di duemila chili di massa - e invece era di carte.
Ecco, così io possedevo da sempre quel senso, senza senso,
che fa noi donne più vulnerabili alle ferite e ai tagli del Tempo.

Il medesimo senso che mostrò mamma, allorché mi guardò
lungamente, con un'indicibile silenziosa tristezza, poco prima
di partire per quel viaggio assieme al suo uomo, quel viaggio
dal quale non poteva sapere che non sarebbe mai più rientrata.

Ma in qualche modo, lei sapeva... e anch'io, oscuramente, lo seppi.

Veggenza tremenda, Veggenza maledetta. Nostra indesiderata
Signora del dolore.



Arona - Milano 15 Aprile 2013




VII

Desiderio


E venne a me, la  piccola Anna dei Miracoli,
venne col suo sguardo mite, infiammato
d'un inusitato fuoco, esitando sulle parole,
ma già tutto dicendo pianamente in quel suo viso
tenero ed esile, titubante e teso, come il corpo.

Io, che l'avevo amata, un mattino d'inverno
dopo una notte di pianti, i miei, e sue carezze,
avevo intuito - nel vederla apparire allora, schiva,
lei così sottile, delicata, come un giunco - un qualcosa
nella floridezza insolita del suo acerbo seno.

. . .

Desideriamo: col nostro corpo assetato, riarso
di amore e di piacere, noi desideriamo.
con ogni cella della nostra pelle, con ogni papilla
delle nostre labbra, ogni vestibolo umido palpitante
delle nostre carni, dei nostri respiri estremi.

Sì, noi, incompiute creature, incorrotte, desideriamo,
bramiamo la completezza, e la corruttela, confondere
le secrezioni della nostra essenza dentro cavità
che ci penetrano come nelle viscere del Carso fanno
le rocce pervase di fiabeschi festoni di opale

traslucente, iridescente, sfavillante alla luce
di questa nostra torcia estrema chiamata Amore.
Desideriamo vivamente una luce, che ci guidi
verso sé, fototropiche creature quali siamo, piante
che nel fondo oscuro della foresta tristi

si struggono e si protendono di desiderio per il sole
oltre le chiome degli immensi soppalchi vegetali,
oppure come falene impazzite che s'immolano
alle lanterne, o ai fuochi notturni dei viandanti.
Il desiderio ci consuma come tizzoni nel vento.

Desideriamo sentire quel vento percorrerci i corpi.
Desideriamo sbocciare nel sole, che ci fa maturare
con le albicocche del giardino, e le ciliegie, e le prugne.
Desideriamo inebriarci al profluvio di profumi ed essenze
cantate a distesa dai roseti, e dalle siepi dei rododendri.

Desideriamo la coppa di vino rubino in cui bagnare
le nostre labbra color magenta, cogliere dal dì il mattino
come una margherita dal prato, e come un fiore
sfogliarlo, petalo per petalo, istante per istante, e vedere
lo sguardo che più d'ogni altro amiamo, amarci.

Desideriamo il nostro piacere di pelle e sangue,
di saliva e di umore, di carezze e di graffi; aprire
i nostri grembi alla Vita che in noi prorompe
come un'onda oceanica e ci travolge, ben sapendo
quanto dolore assieme al godere ci annienterà.

Il nostro tempio di carne contiene l'altare cui immolare
la vita alla vita, il fuoco che ci rende degne di dialogare
direttamente con gli dei, o con Dio stesso, o la Natura
che ci è Madre, Creazione, Genesi, Mutazione, Fato,
poiché fatale è il nostro martirio quali donne, alla Vita.

E quando il nostro desiderio più alto e sublime
giunge all'apice, alla gioia estrema, il Dolore
implacabile, il più atroce, ci apre il ventre
per dare ossigeno di vita a chi ameremo per sempre.
Così l'amore nasce, dal desiderio che il dolore squarcia.

. . .

Venne da me dunque Anna, con il suo messaggio,
come una vergine dell'annunciazione, raggiante,
e io stetti in silenzio, esitante, tra riso e pianto
tra gioia estatica e malinconico rimpianto.
Poiché lei era ora assunta, nei cieli delle stelle.

E io rimanevo a terra, le dita avvinghiate alle coltri,
lo sguardo dietro lei perduto, nel culmine di un sogno,
il peso d'un corpo inerte come d'un fantoccio inetto
di volare al suo cospetto, perdevo lei che s'avviava
a un impero a me negato, guardandomi già lontana.

Il suo sguardo era fiero, e insieme dolce, già di donna
che il desiderio ha ormai vinto. Seria in volto sfilò la veste,
si stese sul sofà e mi offrì il ventre, nudo e candido
convesso, impercettibilmente. Mi volle che ascoltassi.
Accostai l'orecchio, con tutta la dolcezza che sapevo.

L'ombra pudica della vulva sfiorava quasi le mie labbra.
Provai un'ultima inebriante vertigine di passione, ma non carnale.
Solo di purissima sconcertante tenerezza. E udii quel suono:
un lievissimo sommesso brulicare. Il suono, la voce, il canto
di migliaia di desideri, di migliaia, di milioni di amori, e di dolori.

Soltanto a noi concessi, e inflitti.

E sommamente, disperatamente
desiderati.



Marianna Piani
Milano, 14 Maggio 2013
(Per Anna, e Maria Sofia)




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