«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

sabato 30 novembre 2013

La stanza bianca


Amiche care, amici,

era fine estate, e mi trovai ad affrontare uno dei momenti oscuri della mia esistenza, quei periodi in cui il disagio di cui soffro prende il sopravvento, e mi trascina con sé verso l'abisso, per quanti sforzi faccia, per quanto gridi e mi dibatta.
Anzi, quei gridi e quei disperati divincolamenti, sono considerati "sintomi" e combattuti...
Altre volte ho affrontato qui questo argomento. Queste sono pagine aperte, non pongo limiti o pudori nel raccontarmi.
Ho anche confessato come la scrittura sia per me non una "terapia", ma certo una necessità, non so quanto condizionata o indotta dal mio stato. Il che tra l'altro non ha alcuna importanza, perché chiunque affida alla scrittura il proprio essere più intimo e personale, che sia patologico oppure no. Tuttavia non ne scrivo volentieri direttamente, e soprattutto non ne scrivo nel momento in cui ne sono preda. Perché occorre distacco, dalle emozioni: se si è troppo coinvolti ne risulta una cattiva scrittura. Forse sentita, commossa, o commovente, ma inefficace; e poi non vi è nulla di "estetico" nella espressione di una emozione violenta e incontrollata, positiva o negativa che sia. L'emozione si prende tutto lo spazio, e rimane al di sopra di tutto, anche della nostra umanità. L'emozione in assoluto è disumanizzante.
Eppure la scrittura, quand'è sincera, è uno strumento formidabilie di analisi e di comprensione. Non di "controllo" badate, nulla è veramente mai sotto il nostro controllo. Ma possiamo comprendere, e non lasciarci sopraffare.
Per questo da qualche tempo ne scrivo di più. Poco ne pubblico, ma ciò che rimane sono frammenti della mia vita che hanno tutto il senso dello smarrirsi e del ritrovarsi, un "tema" così importante della mia esistenza.

Questa, come altre, sono composizioni scritte proprio dall'interno della "stanza bianca" del mio smarrimento.
La ritrovo, la rileggo, e la condivido con voi, amiche dilette e amici fedeli, confidando che la comprenderete.

Come sempre, cari, un abbraccio, con amore


M.P.



La stanza bianca


D
olce, atroce la ferita
che squarcia nel mio petto
l'anima spaccata.

L'anima divisa.
L'intero Universo per me è ora
questa stanza bianca
dalle pareti nude.
Il meriggio, e la notte,
assieme riversano all'orizzonte
i loro percorsi, come fiumi
convergono le loro acque
cercando la fine negli oceani.
Indivisibili, le correnti
in un unico abbraccio
scorrono a valle,
finché il mare non le ingoi.
Il mare è il mio male,
divisa vi si riversa l'anima,
doppia, e divisa, e divisa
è la persona; indivisibili sono
luce e buio, cielo e suolo,
sogno e disinganno,
leggerezza e gravità,
presso che intollerabili
se costrette in un solo cuore,
destinato a spezzarsi
divaricato, come due valve
spalancate di conchiglia

svuotata, sbiancata,
disidratata sulla battigia.
Risalirò il vuoto,

lo spirito intatto, a testa alta,
nulla potrà divellere la pianta
dalle sue caparbie ife
aggrappate alle rocce
con indomita tenacia.
Lo Spirito ossesso che m'abita
maligno come una metastasi
s'espande e parrebbe sopraffarmi
a ogni singolo momento.
Ma ciò non avverrà, lo giuro,
dovessi io gridare fino a lacerare
la voce, dovessi scorticarmi
le nocche fino all'osso
contro le mura cieche
di questa stanza.

Di questa dannata stanza
bianca, come una notte
vuota, come una conchiglia
morta, come una cometa
senza sole, di ghiaccio secco.
Dolentemente bianca.
Non dovessi mai trovare l'uscita
che apre alla libertà,
me ne aprirò io una per me sola
incidendo pietra a pietra
con le unghie, e a morsi,
verso ovunque intuirò vi sia luce.



Marianna Piani
Trieste, 24 Settembre 2013
Per Eleonora

mercoledì 27 novembre 2013

Sull'altra nave


Amiche care e amici fedeli,
ecco, la sensazione incoercibile di essere inadeguata, la voglia, il bisogno potente di trovarmi altrove, di essere altro da sé, questi sono i tratti più rilevanti della mia personalità "disturbata", che alcuni chiamano più propriamente "dissociata".
È una sensazione difficilissima da fermare e spiegare, quasi impossibile da costringere in concetti e rendere a parole: è come se la terra, il suolo che in questo istante tuttavia mi regge, non sia più un solido appoggio cui confidare, ma pura illusione, una vaga onda cui mi aggrappo, come se fosse un concreto appiglio, e invece non è che una visione, un miraggio, un'illusione dalla consistenza della luce che la compone.
Ho la percezione inspiegabile ma nitida di essere una, ma nel medesimo tempo, un'altra da me, e mi sovrasta e opprime la sensazione di incompletezza e di indeterminatezza che questa condizione comporta.
Ho provato ad affidare queste sensazioni alla scrittura. Scrivere, come sempre, per me è scavare nell'anima con un coltello, fino a far sanguinare il dolore. Come un bisturi, che per curare deve affondare nei tessuti, essere cruento, farsi strada tra muscoli e visceri, cercando di non ledere parti vitali, e di giungere dov'è annidato il male.

In quei giorni, proprio in quei giorni, rientravo nella clinica, per una cura...

Condivido questi pensieri con voi, amiche dilette e amici, come sempre, con amore.

M.P.





Sull'altra nave


Essere vorrei sull'altra nave,
quella ch'è già salpata
in direzione opposta,
vorrei imbarcarmi sull'altro volo,
quello che decolla ora laggiù
verso cieli a me smisurati e ignoti.
Vorrei credermi mai giunta
ad alcuna meta, mai ferma
in un porto o in qualche baia,
mai a riposo, mai certa in cuore
del cammino già percorso.

Essere vorrei sull'altra riva
di questo fiume senza ponti o passerelle:
quella selvosa, profumata riva, di menta
e di salice e di felce, in mezzo cui assopirmi
al mormorio della corrente.
Vorrei abitare il borgo più distante
disperso tra le nebbie dell'aprile
che tarda a fiorire, in cima alle alture
digradanti alle pianure, laggiù dove
convergono i torrenti, come i tormenti,
in un unico alveo scavato nella roccia viva.

Vorrei essere sempre l'altra, di me,
quella serena e graziosa donna, chiara
danzatrice del mattino, leggera e vorace
come il soffio del maestrale sopra il mare,
capace di spingere le vele sulla rotta australe,
veloci come i pensieri, alle mete più ardite,

con il sorriso del sole lanciato contro il viso.
Vorrei scrivere un altro libro da questo:
quello avidamente passionalmente consumato

dalla ragazza raggomitolata sul sedile
della carrozza, in corsa per la vita.

Vorrei non essere ciò che sono,
ma l'altra più folle ch'è dentro me,
non procedere per dove son diretta
in linea retta, ma piegando nell'altra direzione:
non quella della disperazione,
ma quella della salvezza.
Vorrei essere una, una sola,
non essere più così, doppia, frantumata,
incoesa, incapace di fissare
il lato oscuro dello specchio, incapace
di sostenere il mio stesso sguardo ardente.

. . .

Amici, compagni, amori miei feriti,
medici, testimoni, semplici passanti,
vi prego, ora, lasciatemi da sola,
lasciate che io risalga
a bordo dell'altra nave,
e che vada in pace
finalmente.
Finita è la battaglia.



Marianna Piani
Milano, 22 Settembre 2013

domenica 24 novembre 2013

Post-it


Amiche dilette, amici,

Ebbene, dopo quella più "lieve" pubblicata ieri, anche in questa breve composizione mi occupo in qualche modo del mio rapporto, in verità teso e problematico, con la mia femminilità, e la mia "forma" (in senso fisico, percepibile) di donna.


La bellezza è un involucro, una dote che si ottiene per nascita, senza alcun merito da parte nostra. Si tratta di una fortuna, e anche una disgrazia, per ogni donna, e per molti svariati motivi. Quanti giudizi - e pregiudizi - ci vengono affibbiati per il nostro aspetto esteriore? Ma quanto aderisce la nostra anima, realmente, a ciò che vediamo - oggettivamente - nello specchio e - soggettivamente - negli sguardi degli altri? Quante di noi vengono vissute meno belle, e su questo assunto valutate e svalutate? e simmetricamente, quante di noi, per loro natura considerate "belle" (ma basta un seno un po' importante, un viso regolare o dei capelli dorati, o delle gambe tornite lasciate scoperte con una qualche malizia) vengono classificate e giudicate automaticamente in base a questo parametro, che mette in ombra, nel bene o nel male, ogni altro? Quante volte questo cono d'ombra gioca a nostro sfavore, discriminando, e quante volte invece ci facciamo maestre nel ridurre a nostro vantaggio nella vita quotidiana la nostra personale carica di femminilità?
Queste considerazioni sono alla base della mia scelta, voluta e pervicacemente perseguita, di non rivelarmi, qui, nel mio aspetto "reale", fotografico, perché almeno qui vorrei che tutto ciò che conta fosse il mio pensiero, e la bellezza, se mai ci fosse, venisse tutta e soltanto dalla mia scrittura, dalla mia voce diretta, e non dalla mia immagine.
Questa scissione tra donna pensante e donna "apparente" avviene comunque quotidianamente, al momento di dover uscire nel mondo; e allora si indossa l'abito corto, i tacchi alti, un bel trucco e, un poco anche, si dismette il pensiero… Non è una parte particolarmente faticosa o antipatica da sostenere: da parte mia adoro farlo. Mi piace apparire desiderabile, ci tengo. Godo perfino ad essere presa per sciocchina o superficiale, tanto so (eh, purtroppo) di non esserlo affatto. Gioco volentieri con la futilità e l'apparenza, per il puro gusto di esplorare il mondo, un poco come un gattino gioca con un ciondolo tintinnante da quattro soldi, per il puro gusto di sentire il proprio corpo muoversi liberamente.
Tuttavia è una scissione. In me ne eseste un'altra, più profonda, segnata dalla malattia, tra il mio essere - vitale, orgoglioso, ironico - e un altro, cupo e mortale, che mi vuole possedere, sopraffacendo l'altro. Ma questa è un'altra storia.
Ciò che conta per me è che la femminilità "È" proprio questa scissione, gestita o subita, di volta in volta, ma pur sempre una scissione, un conflitto di personalità, con cui tante di noi devono fare i conti, giorno per giorno.


Piccola nota a margine, personalissima. Il Post-it è uno strumento che effettivamente uso molto da anni, come mi dicono facciano diversi scrittori "veri", e non solo per le note della spesa, ma più ancora per appuntare al volo idee e spunti, frasi e parole, concetti e suoni, per la mia attività di scrittura. Vi sono composizioni che sono nate così, da un piccolo seme giallino (o verdolino) abbandonato frettolosamente per giorni appiccicato allo specchio, o alla beauty dei rossetti e degli smalti. Vi sono composizioni che ho pubblicato qui che sono praticamente una catena di Post-it pecettati in sequenza, o legati tra loro da brevi versi di collegamento. Ce ne sono costantemente a dozzine, di questi Post-it, in giro a casa mia, di alcuni francamente dimentico il significato, e finiscono tristemente nel cestino, con la sensazione di aver scartato chissà quale perla preziosa, trovata e subito perduta. Di quando in quando arriva come la risacca di un'onda, e sono i momenti - come quello attuale - che coincidono con quelli di maggior smarrimento, in cui anche i sogni e le emozioni boccheggiano.
C'è sempre un ultimo post-it, insomma, da cestinare, prima di riprendere a vivere.

Per voi, amiche care e amici, come sempre, con amore
M.P.




Post-it


Ho chiuso il libro, in bianco ho richiuso
il mio quaderno, e ho riposto il mio tormento
accanto alla speranza, e all'abbandono,
ho appoggiato la stilografica inaridita
sullo scrittoio, ho staccato l'ultimo post-it
dallo specchio, e l'ho gettato, lacerato.
Consumato. Imperdonato. Rimpianto.

Ho chiuso l'uscio e le finestre della mente,
e ogni cassetto e sportello di madie e stipi
e i pensili carichi di fragili monili e le cassapanche
assiepate di vecchie tappezzerie, e le grate
delle cantine e i cancelli del cortile: ho chiuso.
Poche righe giacevano sul biglietto giallo, impallidite,
a testimonianza vana del mio conchiuso tempo.

Come i ricordi, come i pensieri, come i timori
come i respiri di questa vita, sospesa
in attesa di essere ripresa ormai mondata
d'ogni inganno, come l'anima ribelle in attesa
di indossare ancora il corpo mio di donna bella,
le gambe, il seno, i fianchi, il pube dorato, il collo,
il viso, e gli occhi grandi chiusi, serrati, anch'essi.

Come per trattenere in me le lacrime, o le stelle.



Marianna Piani
Milano, 18 Settembre 2013

sabato 23 novembre 2013

Rinascente


Amiche care, e amici fedeli,
non sto ancora bene veramente, sto lottando per ritrovare il mio equilibrio, dopo una eclissi durata - credo - almeno un paio di settimane. Sono ancora a "mezzo servizio" insomma, ma non voglio rinunciare al nostro appuntamento qui, già troppe volte disatteso.


Inoltre, proprio ora mi piace incontrare questa piccola lirica, scritta in un attimo di serenità, a metà settembre, a seguito di una passeggiata in centro, a Milano.
La cupezza, sapete, è un abito difficile da portare - con eleganza. Troppo pesante e ruvido, ingoffisce e cade male, su qualsiasi figura.
E poi io non sono nella vita di ogni giorno così musona come può apparire dalla mia scrittura. Tutt'altro: sono una ragazza solare, che adora la luce, l'allegria, l'ironia, che quando è libera dai suoi momenti di tenebra ha una gran voglia di vivere, di indossare abiti luminosi e allegri, di apparire attraente e desiderabile. Anzi, tanto più dentro di me devo lottare con le mie angosce e i miei incubi, tanto più reagisco avvalendomi di uno dei più fantastici vantaggi dell'essere donna: gestire la propria bellezza, rivestirsi di freschezza, mutare aspetto trucco, acconciatura, colore di capelli, taglio della gonna o foggia della camicetta, colore e altezza delle scarpe, il saper essere ed apparire fiore, o farfalla.
Non sempre affiora tutto questo nella mia scrittura, poiché io scrivo d'impulso, mai per programma o studio, e la scrittura è un mezzo a mia disposizione per entrare in profondità, e nelle profondità della mia anima non ha molto spazio il futile e l'edonistico, anche se il mio istinto femminile li usa entrambi un po' come un'arma, per sopravvivere.
Questa che segue è una di quelle composizioni che nascono spontanee, leggere, e mi fanno sentire meglio proprio perché esprimono il lato più bello e ricco e grato della mia esistenza: il mio rapporto profondo con la femminilità.

La condivido con voi, amiche dilette, e la dedico in particolare a voi, amici (rari ma molto speciali) che mi seguite qui, poiché potrebbe aiutarvi a capire come siamo fatte, noialtre.

Con amore
M.P.




Rinascente


Un abitino rosso
che ho desiderato indossare
appena veduto nella vetrina.
Grazioso, fine, aderente
come il mio pensiero alla mente,
libera per qualche istante
dalla sua prigione di pietra,
e di ferro, e di lacrime, e d'amaro.

Ho immaginato il vento generoso
giocare leggero tra le pieghe,
ho sentito prima ancora di provarlo
la carezza della falda libera
della gonna sulle mie gambe,
libere di andare, ora, per un momento,
ovunque le chiamasse il desiderio
e l'avventura, e la speranza, e il piacere.

Ho lasciato che il cuore
palpitasse sotto il seno bello
teneramente avvolto nel finissimo tessuto,
trasparendo nella grazia del tulle e dell'organza
il sentirmi bella, desiderabile ragazza:
proprio come le mille altre che sfarfallano
nei loro abitini come corolle, in apparenza
senz'altra cura che apparire snelle, e stelle.

Che strana emozione
per questa donna ch'io sono,
intricata, sommersa, scura,
sentirsi per un poco come costoro,
via dall'ombra dell'angoscia
che m'accompagna fedele
come un'amante ossessionata.
E fuggirmene nel mondo finalmente

con l'amore addosso, ben stretto in vita.



Marianna Piani
Milano, 16 Settembre 2013

(Dedicata a Carolina e Stefania,
che mi regalano giorno per giorno
il senso di tutta l'insostenibile leggerezza
e la bellezza dell'essere donna)



mercoledì 20 novembre 2013

Pane d'alba


Amiche care, amici,

Un'altra interruzione forzata, lunghetta devo dire, e faticosa; riprendo il dialogo con voi, che mi è mancato così tanto in tutti questi giorni. Perdonatemi queste assenze improvvise, purtroppo sono inevitabili con i miei problemi, ma so che mi siete tutti amici, e non me ne avrete.

Ricomincio da dove vi avevo lasciato, con questa che è l'ultima delle cinque composizioni che quest'estate dedicai all'alba e alla notte, senza in realtà una vera volontà di creare un "ciclo". Capita a volte di avere periodi di riflessione che si richiamano uno con l'altro, come in un gioco di specchi, o come bambini che giocano a rincorrersi. Nulla di preordinato, pura casualità. E la casualità a volte è la migliore alleata dell'arte e del pensiero, come sapete bene.
Il profumo del pane, che quasi ogni mattina metto a riscaldare nel forno - oppure nel tostapane - è il leitmotiv delle mie albe assonnate, a volte angosciate, a volte gioiose e spensierate. Il pane è per me il simbolo primo di "casa", poiché quel profumo, quel croccare sotto il coltello, mi ha accompagnata per tutta l'infanzia, e poi oltre, me lo sono portato ovunque nel mondo, non come un'abitudine, piuttosto come un rifugio, una certezza. La mia colazione è sempre stata abbastanza frugale (tranne nel breve periodo in cui ho esercitato un poco di sport agonistico) ed è stata spesso variata, nel tempo, ma ha sempre avuto questa costante: la fetta di pane, al mattino, con un velo di confettura di albicocca o di arancia amara. Ecco, la mia madeleine…

Per voi, amiche dilette e amici cari, come sempre, con amore.
M.P.


(Piccolo poscritto senza importanza: questo è il mio duecentesimo "articolo" - detesto a parola "post". Non vuol dire nulla, ma vuol dire anche una certa passione, una voglia di dire e raccontare, che viene in molta parte dalla vostra amicizia e dalla vostra presenza, anche quando è silenziosa. Grazie, grazie davvero, a tutti voi. Spero di potervi dare nel futuro ancora molto di me stessa)



Pane d'alba


I
l pane che mi prende, al mattino,
in un ineffabile profumo,
come di casa, come di campagna,
come di teneri dettagli, come di bambina,
come di note scritte a matitina azzurra
ai margini del testo della mia vita,
primo capoverso: l'alba.

Quotidianamente, viene l'alba:
e ci assale, spietata, ci annienta
nel gelo viola delle luci spente,
ci sperde nell'aria immota.
Come farfalle stremate
anneghiamo ad ali tese
sull'acqua morta, dedicando al cielo,
impassibile, gli ultimi nostri colori,
prima di squamare nel dolore,
irrimediabilmente.

Affondare dunque il coltello
nella calda pasta bianca,
che emana al taglio
un tenue velo di vapore
che sa come di madre,
come di accudire, di sollecitudine,
di antichità, come di sapore avvolto
dal ricordo buono. La sorella mia
non mi sorride oggi mattina:
è imbronciata nella sua malinconia
ostinata, e in silenzio, mangia.

Io cerco nel suo sguardo ancora
il colore bruciato di quel pane,
appena sfornato, nell'iride
così nocciola, cangiante nell'oro fino
dell'aureole delle madonne antiche,
così innocente, e mobile, e infedele:
trovo il tepore del suo confidare,
il fremito schivo della sua rabbia,
e il tesoro raro del suo viso acceso,
tutto ciò che mi è stato poi negato
per ogni tempo a venire.

Questo pane, dalla dura
frusciante crosta, questa formella
di pace, questa molle bianca carne
viva rassegnata al sacrificio,
umile e sontuosa insieme, come di reliquia
santa sul tagliere, si consuma
ogni giorno che ci consuma.
È essa stessa millenaria storia,
ed è memoria, come di tempo
passato, come di casa,
come di famiglia, come di certezza.

Tutto ciò che per sempre ci è perduto
nella nebbia che si addensa
saturando d'opacità gli anni,
impigliandosi agli edifici,
accecando le persone in noi viventi.
Tutto ciò che a noi ritorna, all'alba,
involto come in una busta di carta
bruna, ancora calda di profumo
come di cialda.



Marianna Piani
Milano, 15 Settembre 2013

sabato 9 novembre 2013

L'una


Amiche care, e amici,
come scrivevo nella mia precedente introduzione, quest'estate mi sono trovata a scrivere - una dopo l'altra - una piccola serie di composizioni, tutte incentrate su quelli che sono i confini del giorno, l'alba e il tramonto.

Questa che segue parla in realtà in primo luogo della notte, la notte notte più fonda, le prime ore di un nuovo giorno che conducono inesorabili verso l'alba.
È una composizione che mi giunge a proposito, in questi giorni. Io infatti, come alcune delle amiche più intime sanno, soffro ormai da anni di insonnia cronica, solitamente dormo pochissimo, raramente più di tre/quattro ore per notte, trascorro le ore a fare ciò che durante il giorno non mi è possibile fare: leggo, traduco, scrivo, rifletto, studio.
Nessuno finora mi ha saputo dire se questo mio stato di veglia quasi costante e invincibile sia l'effetto oppure piuttosto una delle concause del mio più generale disagio psichico. Sia come sia, è all'origine certo di una stanchezza profonda e ricorrente che a volte mi sovrasta, mi sopraffà addirittura, come mi è accaduto qualche giorno fa, quando mi sono trovata a terra all'improvviso, in casa, un po' malconcia, vittima di uno svenimento degno di una cagionevole donna dell'ottocento - secolo cui a volte mi pare di appartenere…
Un episodio limite e isolato, spero, che ora sto affrontando e superando, ma chi ha la ventura di soffrire come me di questa difficoltà cronica a prendere sonno conosce bene la sensazione di smarrimento e di impotenza che assale in certi momenti, quando pare di non essere in grado di riposare mai, per quanto stanchi si sia, e quanto infinito pare il tempo che ci separa ancora dall'arrivo di un nuovo giorno. Che attendiamo però non come una liberazione, ma come una ulteriore minaccia, un qualcosa che non saremo in grado di affrontare ancora una volta.

Scritta proprio nel corso di una di queste veglie ostinate, questa è una di quelle composizioni che nascono in abbozzo, molto imprecise ed incerte, come la voce di un delirio; e infatti - a differenza di altre - ha avuto bisogno di una profonda e lunga revisione, prima di potersi dire degna di essere "presentata" in pubblico. Fino all'ultimo anzi sono rimasta incerta se non ascriverla piuttosto al numero delle "non pubblicabili", ma alla fine forse sono riuscita a darle un poca di scorrevolezza. Del resto le asprezze e le disarmonie di certi passaggi si adattano bene ad esprimere, anche "formalmente", lo stato di disagio ne è origine.

Dunque ora la condivido con voi, amiche mie dilette e amici cari, come di consueto, senza inutili pudori, con amore.
M.P.






L'una



Nell'oscurità sopraggiunta,
nel cavo della mia vita,
nell'ora più muta e giovane
del giorno, inutilmente,
perdutamente veglia
la mia mente, avida
pur di riposo, come il prato
lo è di rugiada, e pioggia.

Rugiada che irrora
di sé come un velo
da sposa sopra le messi,
dorate avventate chiome,
e pioggia, copiosa, che infradicia
le zolle, ed empie i canali,
e forza gli argini, a fatica
eretti da braccia umane

in difesa delle terre dell'uomo.
La mente ha infinita sete,
riarsa dall'arida illusione,
asciugata dal vento e dall'inganno,
la mente sorbirebbe avida
ogni stilla di quiete
spremuta alla notte,
distillata dal silenzio.

Ecco, io giaccio,
come un corpo inerte
sopra il lino bianco,
e mi aggrappo ai lembi
fino quasi a spezzare
le dita nel tessuto compatto,
affondate nei deliri
d'un sonno rinnegato.

Disperato è il sonno
che giunge inatteso
come un falco in volo,
mi sfiora sibilando il viso,
indugia tessendo un lento
ricamo nell'aria immota,
e d'un tratto dirige deciso
all'orizzonte, e lì svanisce.

Io veglio, e veglio ancora,
confidando in quel volo, che vorrei
mi portasse con sé lontano,
in contrade remote, tra genti
ignote e buone, e tempi
privi dell'assillo del tempo,
affrancati della memoria
e delle stagioni del pianto.

Rimango, invece, pietra greve
aderente al terreno, inabile
a ogni moto, esposta ai giorni,
ai venti, alle nevi, alle maree,
che susseguono altri giorni,
e nevi, e venti, e maree; il volo,
inesauribile fiamma, arde
soltanto nel chiuso cuore.

Il nucleo preme con infinita
energia, cercando una via
per sfuggire filtrando dalle ferite
un fiotto di rossa lava
incandescente: per questo
il mio cuore è così caldo.
Per questo cercando un riposo
canto: alle stelle, io canto!

E ora - in segreto a ogni gente -
mi preparo a partire, a lasciare
il lago, la valle, la dimora,
l'amore sperato e mai incontrato,
i brividi dell'alba e la tenerezza
liquida come sangue, propria
di ogni tramonto: le valigie
e le sporte sono già disposte.

La notte procede, intanto,
nel suo silenzio affranto, indifferente,
spezzato soltanto di quando in quando
dal crepitio di un motociclo
che si perde in un'eco lontana
come il brontolio d'un vecchio.
E dal grido acuto e dolente
d'una ambulanza, forse

annuncio di una morte già impaziente.
Chiudo il taccuino, ho gli occhi
brucianti, non posso procedere oltre,

in questo delirio stanco,
a tracciare segni sui muri
dell'anima e a ricercarne il senso.
Meglio è lasciarsi spegnere
nel dormiveglia cangiante

finché mi sorprenderà l'aurora
vegliando ancora.


Marianna Piani
Milano, 8 Settembre 2013

mercoledì 6 novembre 2013

Malcelata Luna


Amiche dilette e amici,
Quest'estate scrissi (senza in realtà programmarla) una piccola serie di composizioni dedicate all'imbrunire e all'alba, le ore del giorno che fanno da ponte tra le fasi della mia vita, quella diurna, con le sue occupazioni, e cure, e quella notturna, con le sue angosce e i suoi sogni.
Sono questi i periodi di "sospensione" in cui più spesso mi dedico alla scrittura. O meglio, non è questa un'attività cui "mi dedico", è piuttosto una necessità che mi assale, pensieri e sensazioni che urgono di essere espresse. Lo so, l'attività dello scrittore "vero" - diciamo chi di scrittura vive, a qualunque livello sia - è principalmente fatta di applicazione, studio, tecnica, concentrazione, il tutto votato all'espressione del proprio talento e della propria creatività. La figura romantica dell'artista "posseduto" dalla sua propria arte è sdata ed obsoleta, oltre che in gran parte essa stessa idealizzata. Però io sono solo una dilettante, e non mi pongo (se non per istinto, gusto e cultura) problemi di stile, di mercato, di "bottega" letteraria. Mi permetto il lusso di essere del tutto libera, e di lasciare libero flusso alla pura e semplice "ispirazione" del momento.
La composizione che segue è dedicata all'alba, o forse a una persona che ho amato, o forse a entrambe, tant'è che si confondono una nell'altra. La mente gioca di questi scherzi, nel dormiveglia. Un'alba che sorge, e poi si consuma, e sfuma verso una nuova, più dolorosa e solitaria notte. La lascio a voi, lettrici carissime e lettori, perché ne troviate il senso e, se ci riesco, per trasmettervi l'emozione che ne è origine e frutto.

Lo dedico a voi, amiche e amici cari, come sempre, con amore.
M.P.







Malcelata Luna



Tale è la mia stanchezza, compagna cara,
e tale è l'illusione, che mi sorprende
ancora alle porte già semichiuse
della notte.

Tu mi chiami, con tale fervore, con tale vivido
bagliore dal viso, come se t'appartenesse
oltre a me l'Universo intero, tutto,
tutto preso nel tuo sorriso.

Io un poco t'ammiro, fresca mia aurora, e un poco t'invidio
per tutta l'avvenenza tua libera e sfacciata,
per quel tuo sapere abbracciare l'ore
come mazzi di Camelie,

e vorrei essere come te, rasserenante,
come la malcelata luna nei cieli dell'Oriente,
che inonda e lacera le nubi come frange
di arabescato pizzo.

Vorrei che tu fossi qui con me, quando mi parli ardendo
di avventura, di desiderio, di fuga, di mirabili
visioni e di paesaggi d'altro mondo: non
come ora sei, ma altrove.

Vorrei far parte della tua visione, della tua bellezza,
del tuo incanto, luce mia, tu nitida, mai confusa;
vorrei poterti stare al fianco degnamente, tu la guida
io la viandante.

. . .

S'adagerà ora l'ombra sul tuo volto, la carezza della notte
ti accoglierà, serena, nel tuo geloso sonno,
io veglierò penosamente rammentando
i brividi teneri della tua pelle.

So fin d'ora che sarai presto in viaggio, tu che non attendi,
tu che scuoti la greve pioggia dalle vesti, e te ne vai,
e a me rimarrà soltanto lo stupore incredulo
di averti avuta accanto.

Tale è la mia stanchezza, compagna mia diletta,
tale è il disincanto, che mi assale sul portale
ormai varcato dell'oscura notte.
Tu riposi al mio fianco.

Tu sarai per me per sempre la mia
malcelata Luna.



Marianna Piani
Milano, 22 Agosto 2013

sabato 2 novembre 2013

Alba inadeguata


Amiche dilette, amici,
sapeste quant'è difficile per me prendere sonno. E quanto presto al mattino mi risveglio, quasi sempre, purtroppo, attanagliata da una insopprimibile angoscia.
La notte è un punto fermo, giorno per giorno, della mia vita. Mi sento protetta, ritirandomi - anzi - raggomitolandomi sotto le coperte, mi dico: "Marianna, ora nulla ti può accadere, sii serena, il silenzio del mondo e la sua immobilità ti proteggono dalle ferite, dalle offese".
Di solito leggo, oppure scrivo. Scrivo molto, a lungo, spesso mi ritiro con il mio iPad, a luce spenta, e scrivo finché stremata non cado - letteralmente - addormentata. Spesso compongo gli ultimi versi in semi-incoscienza, finché l'apparecchio non mi cade dalle mani.
È programmato per spegnersi automaticamente dopo qualche minuto di inattività, e così lo ritrovo al mattino, ancora aperto sopra il mio petto, oppure a terra, al bordo del letto.
Il mattino... Mi sveglio prima dell'alba, alle sei, a volte anche alle cinque, con un batticuore, un'ansia infinita. Ora - sento - non potrò più nascondermi, dovrò levarmi in piedi, affrontare la giornata, comunque sia. Il primo risveglio lo dedico alle mie traduzioni, e in qualche modo questo riesce a tranquillizzarmi un poco. Ma poi l'ansia e il dolore di vivere mi riprendono, mi travolgono, e devo alzarmi e reagire, per tentare di ritrovarmi nella realtà, per uscire dall'ombra dell'incubo...

La composizione che segue la scrissi dunque così, come la maggior parte delle volte, durante la notte, in quartine libere, una delle forme che prediligo; poi però la ripresi al risveglio, non mi piaceva la chiusa, che gettai integralmente, e ne composi un'altra. Che dava maggior senso a tutto il resto. Accenno qui proprio a questo mio scrivere nevrotico ed ossessivo, all'appiglio che mi offre questa pratica per non sprofondare nella follia piena, e come tutto questo può acquistare un minimo senso solo nel momento in cui le mie parole incontrano voi, il vostro ascolto, le vostre anime, la vostra comprensione.

Per voi amiche care, e amici, come sempre, quindi, con amore.

M.P.





Alba inadeguata


Esangue è il mio risveglio,
in attesa strenua d'uno spiraglio
tra il tavolato compatto della notte
e le mutevoli figurazioni dell'alba.

Carico d'attesa e d'orgoglio
è ciò che colgo nell'atmosfera
ancora spenta nell'immobilità del riposo
eppure tesa come un arco allo scocco.

Il pensiero si dirama in rivoli di cielo
che venano i nembi come crepe
di luce, la voce dal cuore del roseto
carico di rugiada si fonde al maestrale

e mi detta parole che sfuggono
alla coscienza, da appuntare
come foglie di lauro o di gelso
al mio intimo erbario spirituale.

Non è più oscura la terra,
non è ancora luce il cielo,
è tempo sospeso come il fiato
tra l'ansioso tutto e il torpido nulla.

A volte tarda il risveglio del corpo
a quello dell'anima, già stanca,
e io mi apro in un muto pianto
in equilibrio sul filo del destino.

Il tempo urge o ritarda, come gli aggrada,
fermo come l'acqua sbarrata dalla diga
oppure istantaneo come il lampo
d'otturatore sull'emulsione dei miei sensi.

Rimane l'immagine dell'istante
che riverbera sé stesso oltre la luce
che lo propaga. È l'unica missione
che s'affida alla mia esistenza:

cogliere lo sfarfallio del tempo, fissarlo
in un solo fotogramma, nel suo mistero,
nell'intera sua inafferrabile bellezza,
e restituirlo al mondo come una gemma.

Presto irromperà il rombare del giorno,
e con esso si chiarirà il paesaggio,
lascerò le acque torbide del pensiero,
e mi si chiederà di agire, e forse soffrire.

Vorrei che quest'alba mai mi lasciasse,
vorrei perpetuare questo limbo che non è sonno,
e non è veglia, non è sogno, e non è storia:
solo una radura in cui annullare il mio dolore.

Il dolore, quotidianamente, sorge all'alba,
al risorgere del sole. E mi coglie così sempre:

inadeguata.




Marianna Piani
Passy, 18 Agosto, 2013