Amiche care, amici,
inizio da oggi a pubblicare una nuova piccola "raccolta" di componimenti nati attorno a un unico tema, come lo sono state le mie precedenti (ve le ricordo: "Abbecedario", "Il Mare d'Inverno", "Cinque pezzi facili", "In Nomine" e "Il Tempo e lo Specchio")
Ho intitolato la raccolta "Epifanie e Cosmogonie", perché qui ho radunato una serie di componimenti, molto diversi tra loro a livello metrico e stilistico, scritti senza un ordine precostituito e in tempi e modi diversi, ma tutti accomunati dalla rivisitazione dei luoghi, delle sensazioni e dei pensieri dei miei primissimi anni di vita e di formazione, tutti trascorsi in famiglia e in una città un poco particolare ed emblematica, anche per motivi letterari ma non solo, che come molti di voi sanno è Trieste.
Si tratta di otto componimenti più un "Epilogo provvisorio", che insieme rappresentano un mio personalissimo viaggio interiore, senza ambizioni letteraie, ma solo di semplice registrazione emotiva: potete considerarle, se volete, pagine sparse strappate da in ideale diario interiore, apparentemente sconnesse tra loro, ma in realtà tutte espressione della mia più intima esperienza di vita.
È negli anni dell'infanzia e della prima giovinezza, infatti, che si plasma l'individuo che poi saremo in età adulta, e le esperienze di quegli anni sono quanto di più fondamentale e fondativo per l'esperienza umana di ciascuno di noi.
Per voi, amiche dilette e amici cari, nella speranza che vorrete seguirmi in questo piccolo viaggio dell'anima, come sempre tutto il mio amore.
M.P.
Epifanie e Cosmogonie
1
Scalo Legnami
Qui avvenne, accanto al Porto
che io venni al mondo,
proprio dove i gabbiani
fanno i loro nidi ciechi
in questi luoghi segreti
tra i fasciami delle navi
disalberate, le abbandonate
eliche degli scafi
in disarmo, le lamiere
colossali stranamente
imporporate di ossido di ferro,
e rosse ugualmente le catene
ammonticchiate nei recessi
dello scalo, e alcune
áncore giganti gettate
con noncuranza a rugginire
sulla banchina, per divenire
rifugio di gatti ossuti
irsuti di salsedine marina.
Su tutto quanto vegliava allora
la torre bianca con l'orologio
a ogni lato, prismatica architettura
come una veduta di Sironi,
e accanto il lustro astruso intrico
dei binari della ferrovia,
su cui giaceva la mandria scura
di decine, centinaia di vagoni
come morti, o pigramente
ruminanti in una savana
di rami e barre di metallo.
Già allora ogni sguardo,
ogni prospettiva pareva
senza via d'uscita, così deserta
d'umanità la rinfusa delle cose,
dismessa la volontà, il ricordo,
l'illusione della Storia
stratificata sopra i muri
di mattoni scabri,
di capannoni escavati
come esoscheletri di crostacei,
e le carcasse delle navi
lasciate languire nei bacini,
a sfidare perfino l'assurdo
d'un tempo senza moto
deprivato di destino.
. . .
(Eppure, c'è qualcosa nello sguardo
di chi nasce sulla riva, accosto
al porto, con le notti modulate
dal mormorio della risacca,
e dalle sirene scure dei battelli.
Quel tratto d'orizzonte fulgido
senza confine, né via tracciata,
solo puro spazio vuoto,
è colà, spalancato come un invito
a salpare, con la mente,
via per sempre.
Se pure non è rimasto
un solo marinaio, né in mare,
né a terra, a guardare
verso il largo con rimpianto,
chi nasce qui salutato
dai gridi dei gabbiani
e dalla visione dei loro voli
che paiono tutti senza ritorno,
dentro il cuore suo
sarà per sempre un navigante,
argonauta ardito della sua mente.)
Nebbiuno, 21 Giugno 2015
2
Giardini di Sant'Andrea
La balaustra in pietra del piazzale
che guarda verso lo scalo, ha colonnine
tutte eguali, in forma di bottiglia
appena un poco ingentilite
da un ghiribizzo in alto dove
poggia la trave orizzontale.
Dio quant'ero io piccina, allora,
se a pena giungevo al parapetto,
se quelle colonnette erano alte
solo poco meno di me stessa,
se i miei occhi erano grandi
come ciottoli d'ardesia!
Non vista, m'infilavo nell'interstizio
tra due colonne (un giorno scoprii
che una di esse pencolava,
e si scostava se la spingevo)
e mi perdevo a guardare
oltre il limite della strada.
V'era qualcosa che mi attirava
in quell'oltre, di là dalla scarpata
guarnita di trifoglio, un qualcosa
al di là della ferrovia,
oltrepassate con un solo balzo
le gru e le cataste dei container,
oltre la scia d'argento dei battelli,
oltre il profilo nero della costa,
oltre le nubi quasi magenta
all'orizzonte, oltre il mondo certo
verso l'incerto, oltre le rotte ultime
dei gabbiani, oltre, oltre il cuore.
Era quell'inconfondibile sapore
d'aria libera, spazio aperto.
Milano, 23 Giugno 2015
3
Sul crinale
(Strada Napoleonica)
M'accucciavo a contemplare
sul crinale del marciapiede
di cemento le velenose
file nero-arancio delle
processionarie, vermesse dignitose,
tutte intente alle loro faccende
religiose, del tutto ignare, pare,
di essere osservate o di rischiare
di essere schiacciate con ribrezzo.
Ero così piccina, inconsistente,
gracile come una pagliuzza,
e i miei occhi, gli occhi scuri
e vasti di una bimba,
a pochi centimetri dal suolo
scoprivano un nuovo mondo
di minuscola rutilante vita,
ancor più piccola, più indifesa
e più fragile della mia.
Curioso era che su quella strada
bianca che costeggiava
tra il calcare e la pineta,
là dove lo strapiombo era tale
a tratti, da parere di volare
liberi sopra il mare, trecento metri
più in basso, io mi attardassi
tra quei sassi, a contemplare
quel microcosmo multicolore.
Forse era che mi sentivo
parte del loro mondo, tant'ero
e più ancora mi sentivo minimale,
un mondo governato dalle cicale
che assordavano attaccate
al loro tronco, un mondo
ch'era il regno delle cetonie aurate
dalle regali livree di metallo
iridescente, un mondo d'incanto
dove fremevano nel sole
le elitre d'argento delle libellule,
dove danzavano sopra le radure
le ali vellutate delle vanesse,
dove le mantidi attendevano le prede
con quella loro sinistra eleganza,
dove i ragni, crociati in bianco o rosso
sopra il dorso, trotterellavano
tra gli sfasciumi del sottobosco:
in cerca forse d'un sito buono
a edificare il loro nido letale.
Non ho mai scordato
il tocco lieve, adesivo, sopra il palmo
della mano d'una piccola locusta
che vi s'aggrappa, distratta,
e poi lo scatto secco del suo balzo
per riguadagnare il sicuro folto
del suo prato. Così ero
in quella compagnia meno sola,
mi sentivo come parte
di quella fauna schiva e austera,
anch'io segreta, anch'io nascosta,
anch'io minuscola di fronte a un mondo
così immenso da essere un enigma
da spavento per la mia verde mente,
anch'io così nulla
da poter essere schiacciata in un istante.
Milano, 29 Giugno 2015
4
Via Combi
Io che ero una bambina
indossavo abiti bianchi, o pesca,
o lavanda, in tessuti delicati,
la gonnellina fresca
corta - appena sotto il ginocchio,
scarpette coi calzetti arrotolati.
I maschi, misteriosi furetti,
si accanivano contro un pallone,
sbracandosi coi loro calzoncini
azzurri, lisi e inzaccherati,
azzuffandosi accaldati di passione
che accendeva i musi acerbi.
Qualcuno mi lanciava
di quando in quando un'occhiata torva
ch'io pensavo d'odio, e invece era un modo
per impetrare ammirazione. E forse
era in nuce già desiderio: quei ragazzi
erano per me l'enigma e il quesito.
Come comete, erano astri vaghi leggermente
inquietanti - e distanti.
Intenti nei loro giochi crudi
esacerbati di scurrili gridi,
li osservavo, senz'intenzione,
come squaletti in un acquario.
Io stavo in piedi fiera
della mia gonnellina fresca,
del pizzo che teneramente
ne ornava l'orlo, dei calzetti
bianchi che mordevano la caviglia,
delle scarpine, orrendamente impolverate
dalla ghiaia del cortile.
E ancora oggi non so dire se
e in quale forma
vi fosse in quegli sguardi
torvi il primo germe d'amor carnale
che ci avrebbe ben presto stregato.
Milano, 30 Giugno - 10 Luglio 2015
5
Il Parco
Ciò che fu quel parco,
ciò che furono i Giardini
a lauri e pini e rampicanti,
ciò che furono, e mai più saranno.
Così come fu, e mai più sarà
l'infanzia e la verde giovinezza
che qui consumai, in serena
ispida sfrenata libertà
da fanciulla bennata e fortunata:
ciò che fu ai miei occhi
quel luogo aperto
al vento e alle stelle.
E al mare, sempre eguale
allo sguardo sognatore
un partire sempre, sempre tornare,
sempre mutevole, sfuggente.
Quella terrazza, coperta
sotto un tetto di pini marini,
densi, torti come vecchi venerandi
saggi e stanchi di una vita
troppo consunta per essere gradita.
Qui i pezzi, massicci bronzi scuri,
vanamente ormai puntavano alla baia
ad alzo quarantacinque.
Da decenni lo facevano, fedeli
e inutili cimeli d'una battaglia
mai combattuta, testimoni
d'una nobiltà che si dissolveva
tra l'artificio d'una natura
resa ghiribizzo, ornamento,
e la cornice dorata d'una consuzione
presente a ogni passo
a ogni svolta di sentiero,
a ogni gradino squassato
dalle radici degli ippocastani
sussiegosi e fieri.
Ma che sapevo, io fanciulla,
di tutto questo disfacimento,
io che vivevo il pieno sole
del mio Aprile pazzo e scatenato?
Quelle bocche bronzee
erano muti compagni
delle mie solitudini accigliate:
da piccolina quando cavalcioni
m'inzaccheravo la gonna a fiori -
che detestavo - per raggiungere
la cima ed empir di ghiaia
quelle cavità che furono letali.
Più tardi quando quello
fu il segreto luogo in cui accolsi,
stupita e senza respiro
i primi fuggevoli baci,
trepidante tra colpa e desiderio.
Ero allora solo una gattina
accalorata, ma la vita
già mi traversava con viva passione.
E i gatti, loro, gli irsuti gatti
della costa, storpi, guerci,
claudicanti come un equipaggio
di corsari senza patria né padroni,
avevan fatto di quel terrazzo
sotto i cannoni, giustamente,
una loro personalissima Rocca.
Intanto un vivace maestrale
canticchiava tra i rami scuri,
e le pietre del castello, così bianche
da parere eterne, rispecchiando
la mia giovinezza pazza e pura,
grano a grano si consumavano
in un lento ineluttabile
passare del tempo. Così fuggevole,
come il mio, è ogni mattino.
Milano, 12 Luglio 2015
6
La Città Vecchia, e quei muri
Erano i muri
che m'attiravano a quei luoghi,
non i rumori, non gli odori, che anzi
m'opprimevano a volte
come un sentore di morte.
Né erano i resti, le tracce
d'un passato languente,
o ridotto a spettro senza dimora
e senza storia.
Erano i muri,
calcificati, alti, scarnificati
dall'abbandono non di anni,
di ere; gli intonaci grigi
spaccati, corrosi dalle stagioni,
spinti alla rovina da gramigne
maligne, giallastre, ostinate,
come colate di pus
da ferite infettate.
E poi giù i muraglioni che da tempo
immemorabile frenano il declivio
fatale del colle verso il mare,
che allora ai miei occhi
già non erano che un groppo
di memoria rappresa nel vento.
E le vie aspramente acciottolate,
e le scalinate di pietre sconnesse
come tastiere divelte.
Potevo cantare, salendo
e scendendo quei gradini,
bianchi, e neri, e bianchi
e neri ancora. E cantavo, di fatto,
se pur a mezza voce, cantavo,
che per me è raro, in chiave soprano
mentre passavo la mano
su quei muri, incurante
delle abrasioni del sasso sul palmo.
E poi ancora le case,
le esangui ruvide case, molte
disabitate, con le finestre
e gli abbaini tetri, cavi,
come buchi di tarli;
non erano più dimore,
e non erano vuote soltanto,
erano svuotate, risucchiate
dall'interno, stremate.
Erano visi di vecchi, affacciati
un'ultima volta al loro mare,
le guance scarnite rigate di pioggia
come lacrime di acre rimpianto,
e dietro essi le ombre
delle vite qui sciolte e consunte,
con i loro vizi, le loro fedi,
e le industrie, e i pensieri, e gli amori
appassionati, o annoiati, o malati.
Tutto polverizzato assieme alla calce
di quei muri, dispersa da un vento fiero
fino al largo di questo eterno mare
bianco, eternamente ritornante.
Milano, 3 Settembre 2015
7
A zonzo, e Saba
Mi capitava, ora è cosa rara,
di andare a zonzo, come un viandante,
per questa mia città a suo modo
fascinosa, eppure anche tanto
trascurata, per nulla conosciuta,
così poco vissuta se non
tra le pagine di una certa letteratura,
o nelle foto in biancoenero
alle pareti dello storico buffet
del Liceo. "Dò viena e una bireta"
e il ricordo dell'atmosfera
di questi mezzodì d'inverno
troppo duri e freddi fuori,
fin troppo caldi lì all'interno.
Mi è capitato più volte allora
di seguire i passi di quel vecchio
dolce e un po' scontroso,
il bavero rialzato e il frontino
calato sopra gli occhi, in segno
di gelosa ritrosia: lo seguivo
senza volere, poiché per caso
la sua strada era la mia.
Lo seguivo dalla bocca dell'angiporto
verso la rada fino ai pontili
dei bacini di carenaggio, oppure
risalivo la via qui chiamata
acquedotto, fino in fondo lì dov'era
il teatro nuovo, e poi come un bosco.
Quindi ancora fino ai giardini
lì a fianco, dove indugiava
a osservare i piccioni strepitare
e gli storni litigare con la bora,
gli uni e gli altri con uguale affetto,
e con una sorta di dolente brama.
E all'imbrunire, precoce
in quella stagione, lo immaginavo
sotto un lume, circondato
dai suoi preziosi antichi libri
nell'oscura lignea libreria,
perduto tra i suoi fogli
a ricamare versi chiari, a evocare
le figure e i paesaggi cari.
Seguivo forse un'ombra?
O un'idea, o un'illusione,
o un delirio della mente? Chissà:
forse seguivo il niente.
Poggiavo ogni mio passo
sul suo passo cauto e stanco
sulle piastre del selciato
fino in cima all'erta,
ai muri antichi del Castello.
Qui dai suoi occhi contemplavo
il mare giù che inargentava
sotto le chiglie dei bastimenti in rada.
Forse anch'io - come lui, i fanciulli,
e gli uccelli - ero in gabbia, e sognavo
liberata di volare sopra il golfo
e sopra il mio dolore ostinato.
Egli, se mai c'era, non mi guardava:
non poteva, e forse non voleva.
Sedeva a lungo sul muricciolo
sul bordo del bastione più severo
fumando adagio, quasi con religione
la sua fida pipa, di spalle al mare.
E allora i suoi occhi chiari
umidi da vecchio che mai invecchia
erano essi stessi il mare.
Io sedevo poco più in là, godendo
l'orgogliosa immaginaria grazia
di essere, anonima ragazza,
per un istante io quella donna sua
di "Trieste e una donna".
Milano, 20 Ottobre 2015
8
La Piazza
Sapete, voi che viaggiate:
quella piazza si getta verso il mare
con uno slancio disperato,
come un estremo afflato, le braccia
aperte a raccogliere in sé
tutto ciò ch'è disposto
a dare il mondo a chi vi s'apre.
Il celebrato vento scavalca
con il suo noto grido rauco
il palazzo dorato, e s'abbatte
su chi si avventura nella larga
spianata, come un guerriero
di ventura, come un marinaio
che traversa il ponte nella bufera.
Poco più in là è la prua
spazzata dalla marea, il ponte,
propaggine naturale della piazza,
che punta al largo, tra le onde
bianche come chiome di sirene.
Occorre una sorta di coraggio
per raggiungere il capo estremo
in quella nebbia di mareggiata
che rumoreggia e acceca.
Tutto quel mare, tutta
quella salsedine che brucia
gli occhi e il viso, che penetra
il respiro, è il fuoco ardente
che spinge questa mia gente
a fuggire, a partire, a lasciare
queste coste per altri mari,
altre terre, altri confini, altre
conoscenze, altre saggezze.
E a chi rimane, gli rimane
questa smania inconsapevole
di andare, del remoto, dell'ignoto.
Una culla, un'appendice
di terra così angusta, così ristretta
da averla cento volte maledetta,
eppure chi vi s'allontana veramente
la rimpiange per la vita intera:
così è il canto triste e consumato
del navigante, e di chi qui è nato.
Milano, 18 Gennaio 2016
9
Epilogo Provvisorio
Solo allora vidi.
La vidi davvero soltanto quando
partii, e la lasciai, allontanandomi
con la volontà di non tornare - forse
mai più. Io la vidi allora soltanto.
La vidi, e colsi intera la sua fiera
schietta bellezza, lo sguardo ceruleo
di quei cieli dalle nubi di ghiaccio
striate da venti impetuosi impazienti.
Assaporai, ora che la perdevo,
le labbra sue, amareggiate dal gusto
del mare, e la curva casta e sincera
del suo sorriso, così aperto
quanto geloso - a volte segreto.
Solo allora, solo allora compresi
il suono aspro e puro della sua voce,
che sapeva farsi quieta, la notte.
E compresi il senso delle parole
gridate nel fervore d'amore,
e quelle sussurrate come una nenia
tra le fronde di fruscianti pinete.
Quando infine fui su quel convoglio
e presi la via che si scioglieva
verso quella che figuravo allora
una mia nuova vita, non piansi.
Non fui incerta. Nemmeno un tremito
percorse le mani, neppure un battito
convulso le ciglia, né un sospiro:
l'addio era detto, e il biglietto
non prevedeva ritorno. Ma intanto
le ultime immagini del mio mare
e della costiera che si snodava
dalla cavità del finestrino
si fissavano nella mia mente
come la luce nell'emulsione
di una lastra, in tutti i più nitidi
minuziosi trascurati dettagli:
ogni singola foglia delle siepi
di lauro, ogni fine stelo d'erba
nei prati, ogni cuore di rododendro
sbocciato, ogni frammento di sole
nel mare... Sopraffatta, rimasi a lungo
con la fronte contro al vetro, così,
mentre il fiato condensava piano
e faceva il mondo via via più opaco.
Più definitivo. Più lontano.
Seguivo il mio ineluttabile fato.
E solo allora compresi: Dio mio
quanto, quanto l'amavo io! - E l'amo.
Marianna Piani
Milano, 11 Febbraio 2016
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