«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

sabato 23 febbraio 2019

Mi manca:


Amiche care, amici,

ciò che mi manca, nel mio esilio – pur felice –, ciò che rimane del meglio della mia vita passata, una volta che il tempo e la distanza hanno eroso, consumato, cancellato ciò che di doloroso vi si era inesorabilmente, progressivamente depositato.
La memoria è ciò che rende significativa la nostra vita.
La memoria del dolore è ciò che ci rende umani.
La memoria di ciò che di buono e bello ci è stato donato è ciò che ci dà la forza di continuare a vivere ancora.
Rimangono paesaggi, persone amate, sensazioni intime e intense.
Rimane, soprattutto, la bellezza.

(Qui, in questi versi, ricordi di paesaggi di collina veneta, che forse non rivedrò mai più)

Con amore

M.P.







Mi manca:

il sospiro dei campi;
il profumo del prato già sfalciato
che muore lento lento sotto il sole;
il rigoglio precoce della valle
e l’affanno della ragazza bruna
che in tutta gioia, con la sua perversa
destrezza, balza dalla bicicletta
con uno strillo, a salutare
l'amica cara – son io – inondandola
di baci e del suo ardore (respira
candido come neve il seno
sotto la camicetta, un filo di fieno
le si insinua sotto la seta,
tra i garbugli del pizzo: come un vezzo
su quella pelle che vuole godere,
senza nulla voler sapere
del bene – o del male.)

Mi manca il brusio della brezza
tra i rami ancora spogli, magri
come spettri dell’inverno, incantati;
il vociare di uccelli – abbacinati;
le api sull’arnia, brulicanti,
che discorrono indaffarate;
il silenzio cupo della foresta
che si fa saggia, antica e greve
nel gelido ricordo della neve;

Manca la sua presenza,
più di ogni cosa al mondo, ora;
mi manca il suo profumo
di fieno e di gramigna;
il suo respiro, affannato,
nel dirmi tra carezze
quanto m'ha amato, e m’ama,
e m’amerà per sempre;
sono una donna io, dunque:

io amo senza tregua!



Marianna Piani
Milano, Aprile 2018



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sabato 16 febbraio 2019

Gli anni


Amiche care, amici,

era tradizione di famiglia, da quando posso ricordarmene, ogni Settembre, e spesso per una parte di Ottobre, di trasferirci per una lunga vacanza in montagna, nel Bellunese, ospiti di una casa di una famiglia del luogo, sempre la stessa per anni, (mai in albergo). Per noi bambine era come una seconda casa di famiglia, solo completamente diversa da quella che abitavamo in città, in un condominio affacciato sul golfo di Muggia. I genitori ci lasciavano spesso sole, perché durante la settimana scendevano “in città” per il lavoro.

Era una casa rurale, di tipica architettura alpina, interamente in pietra e legno, con fienile sotto il tetto spiovente e una vasta stalla di una dozzina di mucche a livello di terra, proprio sotto le nostre stanze. I padroni di casa, che ci ospitavano, abitavano i locali a fianco, e ci trattavano come amici di famiglia, dopo tanti anni quasi come parenti.
Settembre era il periodo in cui le mucche venivano recuperate all’alpeggio e ricondotte nelle stalle, prima che l’autunno facesse arrivare le prime piogge, e spesso a quell’altitudine anche le prime nevicate. Un rito fondamentale cui più volte partecipammo, come partecipammo ogni anno alla falciatura del prato, attorno alla casa, e all’accumulo del fieno per l’inverno.

Qui ha le sue radici il mio grande amore per la natura e per gli animali: avevo il privilegio di avere un contatto diretto con essi, una cosa che sta diventando sempre più una rarità oggi, e che mi ha educata a un profondo e perpetuo rispetto per tutto ciò che è Natura, specie umana compresa.
Un rispetto che partiva dalla conoscenza, e dalla coscienza della forza della Natura e della individualità propria di ogni essere vivente. Un rispetto e una conoscenza che mi ha educato con totale spontaneità a un atteggiamento di Umanità, di accoglienza e di – chiamiamolo col suo nome – amore, che da allora per sempre regola la mia esistenza, il mio modo di pensare e di stare al mondo.
Sono stata molto fortunata, certo, e non so, fossi nata in questi anni, chiusa in un appartamento di città, intenta a costruire il mio pensiero e la mia vita relazionale sullo schermo di uno smartphone, se sarei cresciuta nello stesso modo.

O forse sì, invece.
Lo dico perché vedo, nonostante tutto, moltissimi giovani crescere con coraggio delle proprie idee, liberi e ribelli tanto quanto, e forse anche più, di come sono stata io. La forza vitale di riscatto di ogni nuova generazione è immensa, e questo è sempre stato: le forze della reazione, dell’oscurantismo, del tornare indietro, hanno sempre alla fine fallito, perché questo è indispensabile alla sopravvivenza stessa della nostra specie. L’evoluzione e il progresso hanno una sola direzione, e travolgono alla fine ogni tentativo di invertirla. E questa è più che una speranza, è una certezza.

Ma tornando agli anni della infanzia e prima giovinezza di cui parlavo prima, è inevitabile, per ognuno, una volta che questi anni si siano consumati nel tempo, provare un sentimento di nostalgia, a volte di vivo rimpianto.
Questo rimpianto è esattamente ciò che i nostri genitori chiamavano “maturità”, e noi non riuscivamo allora a capire se fosse qualcosa di positivo per noi, o invece, come nel nostro intimo sentivamo, una specie di sconfitta, di perdita. Come se l’acquisire di una identità, libertà e autonomia non potesse dissociarsi dalla perdita almeno di una parte, più o meno grande, della nostra potenzialità vitale.
Ora sappiamo che era così.

Questi, accompagnati da questo senso di perdita ineluttabile, sono gli anni di cui parlo in questi versi. Non torneranno mai più lo sappiamo. L’unica nostra salvezza è quella di rimanere dentro di noi ciò cui quegli anni ci hanno formato, rimanere umani.

Per chi volesse, con amore
M.P.






Gli anni


Tutto era ancora luce,
l'incomprensibile, misteriosa luce
dei primi anni, quelli che tutti vivemmo
incoscienti, immersi in un’aura
di storia, che presto fu memoria,
e che sfuggendoci chiameremo,
non senza un certo strazio, «nostalgia».

. . .

Erano gli anni sereni dei temporali
d'estate che fuggivamo cuore in gola,
delle grosse grevi prime gocce di pioggia
sui terreni, sui declivi, e sui nostri visi
offerti così, innocenti ancora,
alla severa natura - e ai luoghi.

I coltivi, e poco sopra, i vasti prati
già ribollenti di brulichio vitale, e i gialli
fiori dall’odore acuto, e il mormorio
delle api, cupo, attorno al mezzogiorno,
e tutto il borgo nel giorno di festa,
probi e peccatori, in chiesa.

Erano gli anni della sfalciatura
della piccola prateria dietro la legnaia,
e i ragni infidi, lì appostati
a frotte, tra i travi, nei loro mortali
trabocchetti di raso argentato.

I precoci mattini passati a contemplare
con la meraviglia del sogno
le giovenche quiete, rassegnate
alla mungitura, il sibilo alternato
nel secchio, il vapore del fiato
e del latte caldo, nel freddo.

. . .

(Nulla mi spiego, di quegli anni, tutto
è come un fiume fluente nel tempo,
senz'altro motivo se non il tempo stesso,
un tempo che va consumato in quel tempo,
e quindi perduto - per sempre.)




Marianna Piani
Kilkenny, Marzo 2018




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lunedì 11 febbraio 2019

Giustificare Sylvia


Amiche care, amici,

come oggi, undici Febbraio del 1963, un lunedì, alle 4 e 30 di una fredda alba inglese, nella cucina di casa, a pochi passi dai suoi bambini che dormivano presumibilmente sereni nell'altra stanza, si toglieva la vita uno dei fari della poesia mondiale, quella Sylvia Plath che aveva già allora prodotto capolavori assoluti, sebbene ancora giovanissima, e che ora con un atto inconcepibile e imperdonabile, ci privava, noi suoi "figli" di spirito e parola, di una delle voci più alte e chiare al mondo della bellezza, della speranza - e della innocenza.

Sì, in quegli anni gli americani, e con loro tutto il nostro mondo, perdevano per sempre la loro innocenza, con una sequenza di morti premature e inconciliabili, iconiche e drammatiche, come Ernest Hemingway (1961), Marilyn Monroe (1962),
John Kennedy (1963), Martin Luher King (1968), Annie Sexton (1974) e, tra loro, prima di loro, con loro, in certo senso più di loro, Sylvia Plath.
Forse era la crisi del millennio che stava emettendo i suoi primi gridi d'allarme, quella crisi che si sarebbe compiuta definitivamente con lo spettacolare, simbolicamente "hollywoodiano" collasso delle torri di Manhattan e i suoi duemila morti per nulla.


Noi, figlie e figli di quella mente acuta e sensibilissima, ormai sappiamo con chiarezza di vivere in una Civiltà morente, se non morta, finita, e anche per questo non riusciamo ad accettare razionalmente quella decisione così egoista, solitaria, disperata, anzi, non riusciamo proprio a perdonare lei, per averci abbandonati così, nudi e indifesi, lasciando dietro a sé una tale testimonianza d'amore; e proprio per questo proviamo un così straziante rimpianto dell'amore e del conforto che avrebbe ancora potuto donarci.
Noi, con lei accanto, avremmo forse potuto vivere con qualche speranza ancora nel nostro sguardo. Senza lei, siamo più soli e nient'altro.

11 Febbraio 2015
M.P.




Sylvia with Frieda and Nick (about 1962)
"Even amidst fierce flames the golden lotus can be planted"




Giustificare Sylvia


I

Non avrei mai perdonato mia madre
se m'avesse fatto ciò che lei fece
ai suoi bambini, l'avrei forse odiata
per l'eterno del suo negato affetto.

Se in un mattino freddo, nel mio sonno
avesse così immolato la grazia
della sua mente, la sua luminosa
bellezza nella cavità buia d'un forno.

Se dopo aver lottato a lungo, fiera,
contro il tormento dell'anima avesse
scelto una fine così priva di gioia.

Se non avesse avuto un cuore così immenso,
e il dono d'incidere fiammanti pensieri
sul muro dell'anima di ogni gente,


l'avrei compresa, forse, e avrei pianto,
come si piange d'amore la morte
di una madre invano adorata.


II

Ma poiché ella fu un Angelo Annunziante,
e la sua voce il fraseggio di un organo
divino, poiché ebbe da un Dio tale bellezza

e cuore e mente, mai potrò perdonarla!

Per tutto quanto di vivo e folle e audace
che con quel gesto ci negò per sempre.
Per l'incommensurabile bene
che trascinò nel naufragio, e perse per sempre.

Verticale è la via all'abisso agognato,
verticale l'ascesa che ella seppe affrontare,
verticale la scala del suo perdersi in cielo.

Verticale l'orgoglio di fronte al giudizio,
verticale l'algido picco della bellezza,
verticale l'estasi ultima della sua ricerca

del senso finale del nostro intimo male.




Marianna Piani
A Sylvia Plath
Milano, 6 Agosto 2014 - 11 Febbraio 2015
Riscritta 11 Febbraio 2019



         "... It is more natural to me, lying down.
          Then the sky and I are in open conversation,
          And I shall be useful when I lie down finally:
          The trees may touch me for once,

and the flowers have time for me."


          (Sylvia Plath - "I'm Vertical") 










sabato 9 febbraio 2019

Mie fragilità




Amiche care, amici,

ogni volta che mi trovo davanti alla pagina, o allo schermo del mio WordProcessor, mi chiedo perché – e per chi mai
io scriva.

So bene che ben poche saranno le possibilità che le parole che metto qui in fila, la mia scrittura, potranno incidere nel mondo, forse anzi nulle, anche perché assolutamente nulla faccio, per pigrizia o insicurezza o ignavia, per cercare di farmi conoscere in qualche modo, di far conoscere ciò che scrivo al di fuori della ristrettissima cerchia dei pochi che mi vengono a trovare, del tutto spontaneamente, su queste “pagine”.
Non sono priva di ambizione, intendiamoci, né considero trascurabile il fatto di conquistare nuovi lettori, perché tutto il senso della scrittura, di qualsiasi scrittura creativa, viene dalla lettura, non dall’atto puro e semplice della scrittura.
La scrittura prende vita solo al momento in cui qualcuno, che non sia lo scrittore stesso, legge.
Scrivere senza pensare di volersi rivolgere a dei - almeno potenziali - lettori, per comunicare loro qualcosa di noi o della vita che ci appare rilevante, o urgente, è un po’ come dipingere bendati chiusi in una stanza buia, senza luce e senza finestre: un atto di assoluta insensatezza.

Tuttavia, sebbene io immagini dentro di me i lettori cui mi rivolgo, e il mio cuore senta fortemente la loro presenza, la ragione, inflessibile guardiana, mi fa capire come tutto ciò sia angusto, chiuso in un territorio limitatissimo.
È lo scotto che devo pagare alla grande libertà che mi assicura la scelta, da me presa con piena consapevolezza, di limitare questo mio “lavoro”, questa mia ricerca (che non è così banale, comunque, credetemi, non minore di quanto io dedichi di energia e studio alla mia professione “ufficiale”), a un ambito volutamente e dichiaratamente “amatoriale”.
Non devo rispondere a logiche editoriali, a tempi o modi di “mercato”, ai dettami o rituali di concorsi o rassegne o riviste o salotti o consessi letterari: scrivo esattamente ciò che sento e voglio, quando sento di doverlo fare, nel modo in cui sento di saperlo e poterlo fare.
In cambio, semplicemente, ho soltanto i lettori che riesco a raggiungere e “conquistare” esclusivamente con la mia scrittura. Né più né meno.

Del resto non ho ambizioni letterarie, né cerco di scrivere libri erotici o gialli o soap, per cui il sacrificio che faccio è minimalissimo, dal momento che la Poesia non ha né avrà mai un “mercato” in alcun modo economicamente significativo, in particolare in Italia, dove anche i Premi Nobel hanno vissuto da Professori di Liceo, o Critici Letterari, o altro, eccetto che di poesia.
Quindi, con immensa gratitudine per quei pochi (voi) che mi seguono qui, continuo a scrivere, e continuerò a farlo finché sentirò l’urgenza di farlo.


La qualità di ciò che scrivo? Quella, al di là di essere pienamente e totalmente esposta e onesta con “voi” e anche di più con me stessa, in modo ai scrivere nel modo e ai livelli più alti che io sia in grado di raggiungere, non è cosa che in alcun modo spetta a me giudicare. E guai se non fosse così. Il narcisismo, che è proprio e inevitabile per un qualsiasi artista, grande o infimo che sia, può servire a spingere a credere che la sua esperienza possa essere significativa per qualcuno, fosse anche uno solo al mondo. Ma non deve MAI sovrastare e accecare la reale capacità creativa, altrimenti il destino è quello di rientrare nella massa immensa di chi si guarda allo specchio con voluttà, ma non sa donare un accidente di nulla a nessuno. Il che è la negazione, anzi la morte di ogni spirito artistico.

Tutto ciò non vuol dire che io non senta la paradossale futilità di fondo di questa mia attività, in cui metto a nudo la mia anima senza poter sperare di sapere se questo potrà mai avere un qualche senso per qualcuno, e proprio di questo intimo conflitto tra necessità e inutilità, tra urgenza e gratuità, cerco di raccontare nei versi che pubblico oggi, scritti anch’essi quasi un anno fa e passati attraverso numerose revisioni e riscritture, dubbi e cancellature. Segno proprio della fragilità esterma di questa posizione privilegiata e assieme impotente cui allude il titolo e il testo.


Con amore
M.P.






Mie fragilità


Questo mio fragile ragionare,
questo mio dire fragili parole
che si annichilano al primo soffio
di tramontana, questo
mio trascrivere frasi
in versi incatenati
di piccole speranze,
minuscole illusioni, e tante, troppe,
troppo gloriose idee morte, sullo sfondo.

Questa è la mia anima che si effonde
su pagine bianche, eppure essa sa,
che sarà in vano, che forse nessuno
mai raccoglierà questo suo messaggio,
per quanto appassionato, e disperato
sia ciò che rimane scritto,
fragile lapide incisa a freddo
e subito dissolta in un pulviscolo
di infimi frammenti dispersi in mare.

Fragile il mio vivere, incapace
di comprendere di sé non il suo
destino, che quello resta ignoto
anche al Dio degli avi,
ma il suo proposito finale
nella incommensurabile economia
di questo mondo d'acqua, terra e fuoco.

Fragile l’esser donna io, nonostante
la mia fortezza, fragili le dita
che sfiorano i tasti bianchi volando
come gabbiani sul pelo del loro
mare, tra una virgola e un puntofermo;
fragili le mie caviglie, incrociate
sotto la seggiola di legno antico
a fermare quei volatili accenti,
che sono inquieti, a volte stupefacenti,
o del tutto inafferrabili, o anche
densi d'un deliquio di desiderio,
pensieri dolci, appassionati, ardenti,
e anche osceni, indicibili, perversi.

Questa fragilità che non mi consente
scrivere altro che di me stessa, donna
che non si accetta fragile qual è
la sua natura, femmina che vorrebbe
cambiare il mondo intero
a sua immagine e gloria, o almeno
a quella d’esser donna tale e quale,
fragile, vera, libera, innamorata
di te - e della vita!



Marianna Piani
Kilkenny, Marzo 2018



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sabato 2 febbraio 2019

Versi alla mia compagna


Amiche care, amici,
Riprendo le pubblicazioni con una piccola serie dedicata esplicitamente alla mia compagna, scritta quando, finalmente, ci eravamo riunite per iniziare davvero una nuova vita qui in Irlanda, dopo un lungo e travagliato periodo di preparazione: io mi ero ammalata piuttosto seriamente, il viaggio rischiava addirittura di dover essere rinviato, il che sarebbe stato un disastro, perché avevamo organizzato tutto, prenotato il volo, presi impegni di lavoro qui e a Dublino; e nel frattempo lei era impegnata in un pesante tour di concerti, e quindi non poteva aiutarmi…

Quello che potrà sembrare strano è che io, davvero, non abbia mai letto o fatto leggere le mie poesie proprio alla persona che amo. Lei a mala pena sa che mi “occupo” in qualche modo di poesia (troppi volumi sul tema in casa), la quale non rientra nei suoi interessi se non in modo generico, di cultura generale; vede anche che scribacchio molto, concentrata ed infervorata, e certo non avrei potuto nasconderglielo (di solito scrivo durante la notte, anche a letto, mentre lei è immersa nel sonno, ma non esclusivamente). Tuttavia non ha mai insistito per approfondire la cosa: tra noi vige la massima discrezione reciproca, io non entro mai nella sua mailbox – di cui per sicurezza ho comunque la pass – né lei lo fa con la mia, notoriamente non ho “profili social” che io possa condividere con lei, e lei non frequenta twitter, l’unico che invece io seguo. E neppure le ho mai confidato l’indirizzo di questo blog. In pratica la nostra relazione è assolutamente e completamente extra-virtuale, reale, fisica: ci sentiamo al telefono, scambiamo sms, ci inviamo email (ormai di rado per fortuna, dato che ci vediamo quasi ogni giorno), viviamo assieme e facciamo l’amore. Lei partecipa (ma non troppo) alla mia professione “vera”, e io, non troppo anch’io anche se vorrei fosse di più, alla sua. Questo è tutto
Può sembrare strano, ma questo territorio che ognuna di noi ha riservato per sé sola, senza sentire la necessità di condividerlo con l’altra, questa autonomia e indipendenza individuale, pur amandoci violentemente e totalmente, è forse uno dei doni più preziosi che ci siamo date, ed è forse un viatico per la saldezza e durevolezza della nostra relazione.

Ecco dunque questi versi, compitati volutamente su un filo di equilibrio instabile tra il verso libero e il canone tradizionale: anche questo fa parte del ritratto, ovviamente.
Ma non dico di più, perché violerei la nostra riservatezza, e sono andata già fin troppo il là. Vi lascio alla lettura.

Con amore
M.P.





Versi alla mia compagna


(Preludietto)

Incolonno versi. È ciò che più amo.
Ma è strano: colei che amo m’ama, eppure
non ha mai letto un verso, dei miei, mai,
né li ha sentiti mai dalla mia voce
detti. I seguenti sono per lei sola:
ancora, io non glieli leggerò.


1
(Canzonetta)

Il tuo incantevole incarnato bianco
è come un sentore di neve
oltre quei cumuli all'orizzonte:

riluce nella stanza annegata
nella quieta oscurità della notte
gaelica, fosforescente e senz'ombra.

Hai cantato a mezzavoce
la tua nenia infantile,
prima e dopo l'amore,

in un soffio, il tuo alito profumato
di rosmarino e salvia, così che
m'intenerissi, prima, e poi dopo

m'acquietassi abbracciata
alle tue gambe, anch'esse finalmente
immobili, dischiuse, infine sazie.

splende, il tuo corpo nudo, abbandonato,
come potrei fantasticare quello
d'una vergine santa, tra la malva.

Ciò che mi toglie più ancora il respiro
è la innocenza immacolata del
tuo seno, ancora proteso al piacere.

Per un istante ancora mi sorprendo
a volerti baciare, addentare
quel tuo capezzolo teso indifeso

come un infante che s'aggrappa forte
al seno ch'è ancora rorido e dolce -
tu sopita, e già immersa nel tuo sogno.

Invece mi sollevo solo un poco
a rimirarti così: vorrei in me
assimilare questa visione

di te: hai, come è tua postura,
il braccio destro ripiegato sotto
la tua guancia sinistra: dormi ora?

Ma credo che tu sappia
che ti sono accanto, che tu lo senta
che ti osservo: sorridi...



2
(Sonetto)

Come un nocchiero, incerto al timone,
accecato da un sole troppo prossimo
all'orizzonte, mi perdo, nel caldo
trepido mare del tuo ventre di onde.

E candida mi guardi, hai gli occhi
iridati d'un verde denso, come
una foresta, scintillanti foglie
di quercia al sole radente, ma velati:

Appena velati da un ricordo
che di certo è il ricordo dei miei baci
dispersi sul pallore della tua fronte.

Come il calore della tua pelle
rimane a lungo sopra la mia,
del nostro appena trascorso piacere.



3
(Madrigale)

È il tuo viso, quel viso che appare
sulla soglia, e mi guarda, pensando
di non essere vista, o udita, e zitta
per non destarmi, si sfila le scarpe
e scivola tra le coltri, restandomi
a fianco, ma lontana.

Io penso, forse già immersa nel sonno,
che non voglio patire mai più lontananza,
anche se solo di un palmo, come ora;
e sempre senza destarmi mi accosto,
il mio petto contro il suo dorso, e subito
i sensi s'avviluppano ai cuori.





Marianna Piani
Kilkenny, Marzo 2018





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