Amiche care, amici,
Ho scelto, in questi giorni difficili e
tristissimi, di rimanere in silenzio.
- In silenzio!
Mi riferisco, ovviamente, alla terribile prova cui è sottoposta la città di Genova, e con lei tutto il nostro sfortunato Paese.
Sfortunato, perché, tanto per dirlo con chiarezza fin da queste prime righe, si trova proprio in queste circostanze “governato” da una nuova nomenklatura politica che, alla scarsa – per non dire nulla – carica etica del passato aggiunge di suo un apporto originale di incompetenza, velleitarismo, arroganza e falsità come mai se ne era visto prima, dal dopoguerra ad oggi.
Mi riferisco, ovviamente, alla terribile prova cui è sottoposta la città di Genova, e con lei tutto il nostro sfortunato Paese.
Sfortunato, perché, tanto per dirlo con chiarezza fin da queste prime righe, si trova proprio in queste circostanze “governato” da una nuova nomenklatura politica che, alla scarsa – per non dire nulla – carica etica del passato aggiunge di suo un apporto originale di incompetenza, velleitarismo, arroganza e falsità come mai se ne era visto prima, dal dopoguerra ad oggi.
La mia scelta, in ogni caso, è stata
di silenzio, su questo dolorosissimo argomento, fin dai primi minuti,
come dichiarai, non per polemica, ma per motivi di opportunità (da
non confondere con l'opportunismo) e di puro e semplice
rispetto.
Rispetto nei confronti di quei tanti, troppi, che hanno subìto il danno più atroce e irrimediabile (la loro vita, o la vita di un parente, di un amico, di un compagno, di un figlio, di un amore), e di una intera città che in questo modo improvviso, repentino, in pochi attimi ha subìto una ferita profonda, terribile, per sanare la quale ci vorranno anni, forse decenni.
Non è che non avessi qualcosa da dire al riguardo, che non avessi le mie opinioni, in particolare nei confronti di tutto un circo mediatico e socialmediatico che si è immediatamente scatenato, di certe dichiarazioni che in un “paese normale” in bocca a importanti esponenti istituzionali sarebbero considerate del tutto irricevibili, se non irresponsabili e anche, in certi casi, criminalmente pericolose.
No, ho scelto il silenzio per i motivi che ho accennato sopra, e anche perché oggi, in questo – per certi versi davvero inopinabile – quadro di comunicazione “impazzita” il silenzio credo rappresenti davvero un atto di coraggio, un andare controcorrente, in modo significativo, perfino radicale, anche volutamente stridente.
E non è facile, non è per nulla facile, perché siamo immersi in una tale tempesta di stimoli, di provocazioni, anche di aggressioni vere e proprie, che il mantenerci “zitti” ormai pare avere il valore di una manifestazione di “non violenza”, come un digiuno Gandhiano, mi si passi il paragone certo estremo, ma non così peregrino come si potrebbe pensare.
Di fronte a tutto questo strepito, a volte anche giusto, per carità, ma più spesso inutile, insensato, aggressivo, intitolandosi competenze inesistenti o immaginarie nei campi più vari, cercando semplificazioni estreme di eventi in sè estremamente complessi, e processi sommari, capri espiatori da gettare in pasto alle folle inferocite, davanti a questo rumore assordante azzittirsi è un esercizio di disciplina difficile e impegnativo. Ma doveroso.
Per quel che mi riguarda, di fronte a una tragedia come questa, che coinvolge persone del tutto a caso, con tutta la crudeltà ineffabile della dialettica infinita tra vita e morte, facendoci capire tutti che la soglia, il baratro, QUEL baratro di centro metri sopra il nulla, può sempre spalancarsi sotto i piedi di ognuno di noi, in qualsiasi momento, il silenzio rimane l'unica scelta ragionevole, razionale e sincera.
Silenzio, riflessione, pensiero, e rispetto.
Questo è tutto ciò che, non essendo un Vigile del Fuoco o un Sanitario o un Ingegnere, ed essendo fisicamente lontana, potevo e DOVEVO fare.
Un silenzio che ovviamente coinvolge anche queste pagine, le mie paginette personali, che pochi, scelti amici hanno la bontà di seguire, e lo fa, simbolicamente ma non troppo, rinunciando a “pubblicare” - al di là di questo piccolo sfogo, destinato a quei pochi di cui sopra – qualcosa di mio.
Ho pensato invece di pubblicare (spero data la occasione così delicata di non infrangere con questo un Diritto d'Autore, peraltro sacrosanto) una delle più belle poesie di uno dei più grandi Poeti del Novecento, Giorgio Caproni: Livornese, ma cresciuto a Genova, che spesso di Genova scrisse versi indimenticabili e di un livello assoluto, inarrivabile.
La trascrivo integralmente, perché come in ogni Poesia Assoluta ogni verso, ogni singolo verso è unico e indispensabile.
Una poesia scritta con una ispirazione assoluta, con una raffinatezza inimitabile nel gioco dei metri e rime, intrisa di una profondissima malinconia e di una vitalità sensualissima, un incrocio di sensazioni così tipico e unico di quel Poeta, e anche di quella Città: un ritratto musicale, venato di una perfetta armonia di suoni, di ritmi, di odori, di sapori, un ritratto di una Città magnifica (io l'ho visitata spesso, in passato, ricavandone sensazioni e memorie che sono depositate nel mio cuore. E anch'io attraversai quel disgraziato ponte, più volte) che voglio dedicare con tutto il cuore e con tutto il mio amore alla Città di Genova, ferita ma non doma, e ai suoi Cittadini.
Rispetto nei confronti di quei tanti, troppi, che hanno subìto il danno più atroce e irrimediabile (la loro vita, o la vita di un parente, di un amico, di un compagno, di un figlio, di un amore), e di una intera città che in questo modo improvviso, repentino, in pochi attimi ha subìto una ferita profonda, terribile, per sanare la quale ci vorranno anni, forse decenni.
Non è che non avessi qualcosa da dire al riguardo, che non avessi le mie opinioni, in particolare nei confronti di tutto un circo mediatico e socialmediatico che si è immediatamente scatenato, di certe dichiarazioni che in un “paese normale” in bocca a importanti esponenti istituzionali sarebbero considerate del tutto irricevibili, se non irresponsabili e anche, in certi casi, criminalmente pericolose.
No, ho scelto il silenzio per i motivi che ho accennato sopra, e anche perché oggi, in questo – per certi versi davvero inopinabile – quadro di comunicazione “impazzita” il silenzio credo rappresenti davvero un atto di coraggio, un andare controcorrente, in modo significativo, perfino radicale, anche volutamente stridente.
E non è facile, non è per nulla facile, perché siamo immersi in una tale tempesta di stimoli, di provocazioni, anche di aggressioni vere e proprie, che il mantenerci “zitti” ormai pare avere il valore di una manifestazione di “non violenza”, come un digiuno Gandhiano, mi si passi il paragone certo estremo, ma non così peregrino come si potrebbe pensare.
Di fronte a tutto questo strepito, a volte anche giusto, per carità, ma più spesso inutile, insensato, aggressivo, intitolandosi competenze inesistenti o immaginarie nei campi più vari, cercando semplificazioni estreme di eventi in sè estremamente complessi, e processi sommari, capri espiatori da gettare in pasto alle folle inferocite, davanti a questo rumore assordante azzittirsi è un esercizio di disciplina difficile e impegnativo. Ma doveroso.
Per quel che mi riguarda, di fronte a una tragedia come questa, che coinvolge persone del tutto a caso, con tutta la crudeltà ineffabile della dialettica infinita tra vita e morte, facendoci capire tutti che la soglia, il baratro, QUEL baratro di centro metri sopra il nulla, può sempre spalancarsi sotto i piedi di ognuno di noi, in qualsiasi momento, il silenzio rimane l'unica scelta ragionevole, razionale e sincera.
Silenzio, riflessione, pensiero, e rispetto.
Questo è tutto ciò che, non essendo un Vigile del Fuoco o un Sanitario o un Ingegnere, ed essendo fisicamente lontana, potevo e DOVEVO fare.
Un silenzio che ovviamente coinvolge anche queste pagine, le mie paginette personali, che pochi, scelti amici hanno la bontà di seguire, e lo fa, simbolicamente ma non troppo, rinunciando a “pubblicare” - al di là di questo piccolo sfogo, destinato a quei pochi di cui sopra – qualcosa di mio.
Ho pensato invece di pubblicare (spero data la occasione così delicata di non infrangere con questo un Diritto d'Autore, peraltro sacrosanto) una delle più belle poesie di uno dei più grandi Poeti del Novecento, Giorgio Caproni: Livornese, ma cresciuto a Genova, che spesso di Genova scrisse versi indimenticabili e di un livello assoluto, inarrivabile.
La trascrivo integralmente, perché come in ogni Poesia Assoluta ogni verso, ogni singolo verso è unico e indispensabile.
Una poesia scritta con una ispirazione assoluta, con una raffinatezza inimitabile nel gioco dei metri e rime, intrisa di una profondissima malinconia e di una vitalità sensualissima, un incrocio di sensazioni così tipico e unico di quel Poeta, e anche di quella Città: un ritratto musicale, venato di una perfetta armonia di suoni, di ritmi, di odori, di sapori, un ritratto di una Città magnifica (io l'ho visitata spesso, in passato, ricavandone sensazioni e memorie che sono depositate nel mio cuore. E anch'io attraversai quel disgraziato ponte, più volte) che voglio dedicare con tutto il cuore e con tutto il mio amore alla Città di Genova, ferita ma non doma, e ai suoi Cittadini.
Grazie.
M.P.
Kilkenny, Irlanda, 19
Agosto 2018
All alone: Epilogo
Era una piccola porta
(verde) da poco tinta.
Era una piccola porta
(verde) da poco tinta.
Bussando sentivo una spinta
indicibile, e a aprirmi
veniva sempre (impura
e agra) una figura
di donna lunga e magra
nella sua veste discinta.
La notte con me entrava,
sùbito, nella cinta.
Salivo di lavagna
rosicata una scala,
né mai ho saputo se era,
a spegnere la candela,
il nero umidore del mare
o il fiato della mia compagna.
Avevo infatti una cagna
(randagia) che mi seguiva.
L'intero giorno dormiva,
disfatta, fra i limoni,
ma nottetempo (carponi
e madida) mi seguiva
bagnandomi, con la saliva,
la punta delle dita.
Forse era la mia vita
intera, che mi lambiva.
Ma entrato oltre la porta
verde, mai con più remora
m'era accaduto che Genova
(da me lasciata), morta
io già piangessi, e sepolta,
nel tonfo di quella porta.
Eppure, io piansi Genova,
l'ultima volta, entrato.
Il giorno non era nato
ancora, e campane
a gloria (forse era festa
d'anima, e di ressurrezione)
m'empivano la testa
col vento della costernazione.
Salita della Tosse
scandivano ragazze rosse.
Ragazze che in ciabatte
e senza calze (morse
al calcagno e alla nuca
dimagrita dal dente
di quell'ora impellente),
andavano, percorse
da un brivido, sulla salita
che anch'io facevo, solo,
già al canto d'un usignolo.
Genova di tutta la vita
nasceva in quella salita.
Seguivo i polpacci bianchi
e infreddoliti, e inviti
veementi, su dal porto
che si sgranchiva, netti
salivano dal carbone,
che già azzurro di brina
brillava, sulla banchina.
Entrai, non so dir come,
spinto da quel carbone.
Ma a un tratto mi sentii senza
più padre (senza più madre
e famiglia, e vittoria),
e, solo, nella tromba
delle scale, indietro
mi ritorsi, la tomba
riaprendo della porta
già scattatami dietro.
Che fresco odore di vita
mi punse sulla salita!
Ragazze ormai aperte e vere
in vivi abiti chiari
(ragazze come bandiere,
già estive, balneari),
sbracciate fino alle ascelle
scendevano, d'arselle
e di cipria un odore
muovendo a mescolare
l'aria, dal Righi al mare.
Avevano le braccia bianche
e le pupille nere.
Con me un carabiniere
come le stava a guardare!
Mi misi anch'io a scendere
seguendo lo sciamare
giovane, e se di tende,
bianche fino ad accecare,
già sentivo schioccare
la tela, ahi in me sul mare
le lacrime - ahi le campane
verdi d'acqua stormente
nel mio orecchio, e in mente
ancora la piccola porta
(verde, e da poco morta),
cui più con tanta spinta
potevo nel ventilare
del giorno, ormai, bussare.
(Giorgio Caproni)
La notte con me entrava,
sùbito, nella cinta.
Salivo di lavagna
rosicata una scala,
né mai ho saputo se era,
a spegnere la candela,
il nero umidore del mare
o il fiato della mia compagna.
Avevo infatti una cagna
(randagia) che mi seguiva.
L'intero giorno dormiva,
disfatta, fra i limoni,
ma nottetempo (carponi
e madida) mi seguiva
bagnandomi, con la saliva,
la punta delle dita.
Forse era la mia vita
intera, che mi lambiva.
Ma entrato oltre la porta
verde, mai con più remora
m'era accaduto che Genova
(da me lasciata), morta
io già piangessi, e sepolta,
nel tonfo di quella porta.
Eppure, io piansi Genova,
l'ultima volta, entrato.
Il giorno non era nato
ancora, e campane
a gloria (forse era festa
d'anima, e di ressurrezione)
m'empivano la testa
col vento della costernazione.
Salita della Tosse
scandivano ragazze rosse.
Ragazze che in ciabatte
e senza calze (morse
al calcagno e alla nuca
dimagrita dal dente
di quell'ora impellente),
andavano, percorse
da un brivido, sulla salita
che anch'io facevo, solo,
già al canto d'un usignolo.
Genova di tutta la vita
nasceva in quella salita.
Seguivo i polpacci bianchi
e infreddoliti, e inviti
veementi, su dal porto
che si sgranchiva, netti
salivano dal carbone,
che già azzurro di brina
brillava, sulla banchina.
Entrai, non so dir come,
spinto da quel carbone.
Ma a un tratto mi sentii senza
più padre (senza più madre
e famiglia, e vittoria),
e, solo, nella tromba
delle scale, indietro
mi ritorsi, la tomba
riaprendo della porta
già scattatami dietro.
Che fresco odore di vita
mi punse sulla salita!
Ragazze ormai aperte e vere
in vivi abiti chiari
(ragazze come bandiere,
già estive, balneari),
sbracciate fino alle ascelle
scendevano, d'arselle
e di cipria un odore
muovendo a mescolare
l'aria, dal Righi al mare.
Avevano le braccia bianche
e le pupille nere.
Con me un carabiniere
come le stava a guardare!
Mi misi anch'io a scendere
seguendo lo sciamare
giovane, e se di tende,
bianche fino ad accecare,
già sentivo schioccare
la tela, ahi in me sul mare
le lacrime - ahi le campane
verdi d'acqua stormente
nel mio orecchio, e in mente
ancora la piccola porta
(verde, e da poco morta),
cui più con tanta spinta
potevo nel ventilare
del giorno, ormai, bussare.
(Giorgio Caproni)
(Dedicato a Genova Ferita
a Genova Straziata
Agosto 2018)
a Genova Straziata
Agosto 2018)
.
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