Amiche care, amici,
proseguo nel presentarvi alcuni estratti dal mio ultimo libro "Sillabario lirico e sentimentale", disponibile, se lo vorrete, presso Amazon sia in formato cartaceo (11€ qui) che digitale (1€ qui).
Una delle "novità" per me più rilevanti di questa raccolta è la presenza di alcuni componimenti in dialetto triestino, quello della mia città natale e quindi della mia infanzia e prima giovinezza.
Non avevo mai pubblicato poesia dialettale prima d'ora sul questo blog né altrove, e mi era capitato molto di rado in passato di sentire l'esigenza di esprimermi in quell'idioma, se non per brevi occasionali strofe, comunque inserite in un ambito linguistico del tutto italiano.
Curiosamente - ma forse a pensarci bene non è così strano - è stato il mio trasferimento in Irlanda, quasi due anni fa, e l'immersione totale e quotidiano in un ambiente linguistico nuovo, oltre alla distanza che mi preclude ora anche psicologicamente la possibilità di tornare, seppur di rado, alle mie terre di origine, che ha fatto scattare questa scintilla improvvisa, e il bisogno di recuperare in qualche modo dalla memoria quei suoni, quelle cadenze, quei ritmi, così intimamente legati ai luoghi in cui ho consumato la mia infanzia.
Ma non si è trattato solo di un'operazione di memoria, e tanto meno di nostalgia, che in realtà è estranea alla mia sensibilità: io per educazione, cultura, e anche per le mie origini ebraiche, mi sento quasi per un istinto profondo un'anima "errante", senza radici affondate in una terra particolare, più navigante che contadina, da sempre mentalmente rivolta al mondo. E non a caso andai via dalla mia città non appena ebbi l'età della ragione, e da allora, pur stanziando per periodi più lunghi a Milano, mi sono mossa in giro, per lavoro, un po' in tutta Europa, Stati Uniti e, una volta (ma importante) anche in Cina. E ora questo mio, per molti motivi forse definitivo, ultimo trasferimento.
In realtà quello che mi ha affascinato, dietro l'onda del ricordo, nel ritornare al mio dialetto è stato l'incontro con sonorità, lessico, timbro, musicalità del tutto diverse dall'Italiano, del tutto nuove, per me, dal punto di vista della composizione. Per fare un parallelo non tanto forzato con l'ambito musicale, è stato come passare dalla tastiera di un pianoforte a quella di una chitarra. Concetti, emozioni, temi (le note) sono i miei consueti, ma cambia totalmente il timbro, l'arrangiamento, la tecnica e l'impostazione della frase musicale. Non è solo questo, la cosa è più complessa, ma questo esempio può aiutare a comprendere come questa "scoperta" mi abbia preso ed impegnato con entusiasmo, pur senza mai abbandonare il mio consueto lavoro in italiano.
Potrei dire che è un lavoro simile a comporre in un'altra lingua, per esempio l'inglese, di cui abbia una quasi completa padronanza, ma non è la stessa cosa, si tratta di qualcosa di più profondo, che risale a un tempo primordiale dello sviluppo della mia personalità, ed è legato in modo inestricabile a luoghi precisi, tanto da risuonare come una loro diretta emanazione sonora e concettuale.
Aggiungo che io non fui educata in dialetto: i miei erano di nascita diversa, mio padre istriano, mia madre veneta, e curarono con molta attenzione a farmi apprendere un corretto uso della lingua Italiana, che consideravano fondamentale per la mia educazione di base (assieme ad Inglese e Francese, cui mi avvicinarono fin da dall'infanzia, e di questo non finirò mai di ringraziarli). Tra di loro e con i loro conoscenti usavano sì il dialetto, ma lo usavano di rado, e mai in ambito familiare. Io quindi imparai il dialetto, letteralmente, in strada, con i compagni e compagne di giochi, e a scuola, oltre che nell'uso comune nella vita quotidiana, essendo Trieste, un po' come Napoli, una città ancora molto "dialettale", proprio nella pratica di vita quotidiana, sul lavoro, al mercato, nella scuola, perfino nei circoli culturali più raffinati.
Per questo la mia pratica dialettale è sempre stata molto "pensata", molto consapevole e voluta, e questo certamente ha una valenza molto speciale per me.
Infine, come ho detto lasciai la città molto presto - sui miei 19 anni - e da allora ebbi sempre meno occasioni di usare questa lingua, che quindi si è depositata come uno strato di sedimento profondo nella mia memoria.
Ritrovarla, a distanza di tanto tempo, è stata una esperienza di grande significato, per tutti gli aspetti, espressivi, di forma, di suono, di sintassi, di lessico, di ritmo.
Ora sto continuando, sporadicamente e senza una vera intenzione continuativa, a comporre in dialetto, non posso ancora dire se si tratta di un innamoramento contingente, o se si trasformerà in una pratica usuale e continuativa. Ma finché sentirò l'esigenza di risentire questi suoni, e ne proverò piacere, continuerò. Se lo sarà, forse un giorno dedicherò una raccolta interamente ad essa, ma per ora semplicemente seguo l'ispirazione del momento: nulla di forzato, tutto molto naturale: semplicemente vi sono argomenti, pensieri ed emozioni che "chiedono" di essere espressi in dialetto.
Quella che presento oggi è la composizione eponima della piccola raccolta, "Porto franco".
Il porto di Trieste è stato fin dalle origini ottocentesche un PORTO APERTO, anche definito da precise funzioni legali e commerciali con una denominazione ufficiale, appunto, di "porto franco", e mi è sembrato molto significativo aprire la raccolta ricordando, indirettamente ma non troppo, come la attuale demenziale e criminale politica dei "porti chiusi" sia in contrasto con ogni possibile logica di umanità e di sviluppo. A Trieste, per decenni e decenni, proprio per la presenza di un "porto franco", si incrociarono culture, lungue, usanze di ogni parte del mondo, e proprio questo fece di questa città, per un breve ma intenso periodo aureo, uno dei centri culturali e commerciali più importanti d'Europa.
Naturalmente, poiché si tratta di un dialetto, e per di più di nicchia, non certo diffuso come il romanesco o il napoletano, ho provveduto a comporre una traduzione in Italiano, per tutti i testi pubblicati nel libro.
Con amore
M.P.
Porto franco
Go visto le foto picade
in un bareto in zentro
un poco in scuro, in scondòn:
qua ’na volta pasava i cavai
strassinando cari càrighi
de sachi de café
qua iera le sine dei cari
che vigniva suso dal scalo.
I bastimenti i fis’ciava cussì:
a longo co iera caligo,
curto per saludarse tra de lori.
Questa che ogi qua scrivo
ma ’sai poco ormai parlo
per ani e ani xe stada
la lingua franca de ’sto porto,
misiada a mile altri parlari
de tuti i cantoni del mondo.
Epur, se se capiva
’sai più che ’deso, in fondo…
Marianna Piani
Porto franco
Ho visto le foto, esposte
in un baretto in centro,
un po' nascoste, nell'ombra:
qui passavano i cavalli
un tempo, trascinando i carri
carichi di sacchi di caffè, qui
c'erano le rotaie dei carri
che risalivano dallo scalo.
Fischiavano le navi:
un suono lungo per la nebbia,
un breve colpo per un saluto.
Questa, che qui ora scrivo
ma assai poco ormai parlo,
per anni è stata
la lingua franca di questo porto,
mescolata a mille altri linguaggi
provenienti da ogni luogo al mondo.
Eppure allora ci si capiva
assai più di adesso, in fondo.
(Versione italiana di M.P.)
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