Amiche care, amici,
come tutti, anch’io sono nell’isola del mio isolamento forzato, fronteggiando distanze che fino a ieri trascuravo, e che oggi mi paiono incolmabili.
In particolare, da emigrata (o “expat”, come si dice oggi), la distanza con i luoghi e le persone del mio passato in questi giorni è improvvisamente piombata al di là di ciò che appare come un abisso invalicabile, da cui tutti i ponti sono stati fatti saltare. Ponti che, ne siamo terribilmente consapevoli, richiederà un tempo al momento del tutto imprevedibile ricostruire.
Sembra fosse una vita fa quando, solo l’anno scorso, riuscii a ritornare per un paio di giorni a Trieste, la mia città di nascita, luoghi da cui non mi sono mai veramente staccata, anche se ormai sono trent’anni che li ho lasciati.
Scrissi in quell’occasione la lirica in dialetto che oggi ho pensato di pubblicare qui. Non lo faccio spesso, né spesso scrivo in dialetto, una lingua che ha un suono particolare per me, che pure non ho mai davvero praticato come “lingua-madre” (a casa con i miei si parlava quasi esclusivamente in italiano), ma che ho evidentemente assorbito quasi inconsapevolmente nei miei anni d’infanzia e adolescenza, semplicemente frequentando la scuola, le strade, gli amici.
L’effetto di straniamento che mi ha sempre accompagnato a ogni ritorno in questa città, passaggi sempre brevissimi purtroppo, è sempre stato molto accentuato. Ogni volta la sensazione dominante, sorprendente, è quella di ritrovarmi come se non mi fossi mai allontanata. Luoghi, voci, persone, emozioni, colori, erano e sono sempre gli stessi della mia memoria. Anzi non è nemmeno corretto parlare di “memoria”, ma piuttosto di qualcosa più vicino a quello che in psicologia si chiama “imprinting”, una sorta di calco istintivo primordiale in cui ci ritroviamo, come in un ritorno all’origine, a una immaginaria e protettiva placenta.
Eppure non è che tutto sia rimasto davvero uguale: l’architettura, le strade, ma anche le facce, il comportamento e il linguaggio delle persone, tutto è mutato, a volte anche in modo drammatico.
Il fatto è che questi luoghi e immagini “originari” sono interiorizzati dentro di noi, ce li portiamo dietro ovunque, e per sempre. E quando, anche dopo molto tempo, ci ritroviamo davvero, fisicamente, in quei luoghi, misteriosamente la nostra percezione ci fa sentire “a casa”, come se il tempo fosse tornato indietro di decenni.
In questo però, attenzione, riconosciamo e ritroviamo non tanto i luoghi, quanto noi stessi in quei luoghi.
Al testo dialettale faccio seguire una mia traduzione, per chi non fosse delle mie stesse origini.
Buona giornata, amiche dilette e amici, il sole splende, nonostante tutto, e lo farà più a lungo oggi, nonostante le angosce che siamo vivendo in questi giorni.
Con amore
M.P.
Tornar casa
Son tornada qualche volta, in passà,
e ogni volta iera come se no fussi
mai scampada, tuto ugual preciso
a co che iero partida,
che par più de mile ani fa.
La mia strada iera quela, precisa,
larga, drita, una riveta prima in salita,
e po’ in dissesa, zo verso el mar.
Da una banda xe la cesa
bianca, bruta propio come la iera,
un scatolon de piera netà;
dal altra, oltre el mureto
che el xe ’ncora quel de alora,
el scalo, ’n do una volta coreva i treni,
e più in fondo el porto, e drio ‘ncora
el golfo, carigo de vele, de bastimenti.
’Desso xe palazi novi, ufici, marmi,
che no lassa l’ocio ’ndar oltra.
Prima ‘ncora, da ’sta banda – streta
che no passa gnanca un furgoncin
de quei pici – la canisela sconta
che la se rampiga fin in cima
al cole, strucada in mezo a do muri
alti, veci, batudi de crepe e busi
in do se scondi le lusertole
che scampa via a ogni muleto
che passa de là.
E de là in cima, de indove se vedi
el golfo, in fondo fin ale lagune
de Grado, se se buta per la riva
zo fin in Cavana, e pò in Piaza Granda.
No solo i muri, ma fin anche la zente
che ciacola e bagola nela piazeta,
e quei che cori de furia, e i fioi
che ziga, e i zoga, tuto quanto
ugual preciso a quel che gavevo lassado
mile ani fa, contenta, imborezada,
senza pianti e rimpianti drio.
E ben, ’desso so che la zente, el ziel,
el mar, i lioghi in dove gavevimo zogà
co ierimo putele e fioi bordelando,
i ne resta drento, par eterno
intati, sebèn che i xe tuti cambiadi.
E anche dopo ani e ani lontani
i ne par come che non fussimo
mai andadi, mai scampadi,
tornadi Ulissi ‘desso, foresti de noi stessi,
quel che ’desso semo, noi
quel che ierimo, no semo più.
Marianna Piani
Trieste, Primavera 2019
Tornare a casa
Son tornata, qualche volta, in passato,
e ogni volta era come se non fossi
mai fuggita, tutto uguale,
identico a quand’ero partita,
che pare mill’anni fa.
La mia via era quella, la stessa,
larga, dritta, prima in salita,
e poi in discesa, giù verso il mare.
Da un lato, la chiesa,
bianca, brutta proprio com’era allora,
una scatola di pietra ripulita;
dall’altro, oltre il muretto
che è sempre quello di allora,
lo scalo, dove un tempo incrociavano i treni,
e più avanti il porto, e più avanti ancora
il golfo, pieno di vele, e di navigli.
Adesso solo palazzi nuovi, uffici, cemento
che non lascia passar di là lo sguardo.
Prima ancora, da questa parte – stretta
che non passa nemmeno un piccolo furgone –
il vicolo nascosto
che arrampica fino in cima al colle.
Strizzata tra due muri alti e antichi
tormentati di crepe e buchi
dove si nascondono le lucertole
che fuggono a ogni ragazzino
di passaggio.
E da lassù, da dove si spazia
sopra il golfo, fino in fondo alle lagune
di Grado, ci si butta giù per la discesa
fino in Cavana, e poi in Piazza Grande.
Non soltanto i muri, ma perfino la gente
che chiacchiera e va a zonzo in piazzetta,
e quelli che corrono di fretta, e i bimbi
che strillano e giocano, tutto è rimasto
lo stesso a ciò che avevo lasciato
mille anni fa, contenta, eccitata,
senza un pianto né rimpianto.
Ebbene, ora so che la gente, il cielo,
il mare, i luoghi dove giocammo strepitando
quand’eravamo bimbe e bimbi,
ci restano dentro, in eterno,
intatti, se pur tutti cambiati.
E anche dopo anni e anni di lontananza
ci pare come se non fossimo mai andati,
mai fuggiti, e poi tornati Ulisse,
stranieri a noi stessi
come ora siamo, noi
ciò che fummo, non siamo più.
Marianna Piani
Primavera 2019
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