Proprio oggi, mentre ero intenta a preparare la pubblicazione del testo odierno, scritto alcuni mesi fa, mi ha raggiunto la triste notizia della morte di uno degli ultimi sopravvissuti e testimoni dell’Olocausto, Pietro Terracina, per il quale vi rimando alla nota di Repubblica di oggi, 8 dicembre ’19:
Ormai sempre più rapidamente, per ovvie ragioni anagrafiche, uno a uno stiamo perdendo gli ultimi tra i già pochissimi sopravvissuti a quella furiosa follia collettiva che segnò la nostra Civiltà con un marchio di infamia indelebile.
Cosa ci accadrà dopo? Quando rimarremo da soli, quando potremo affidarci esclusivamente alla memoria e ai documenti probatori di cui siamo in possesso, cosa faremo?
Già in questi ultimissimi anni, o addirittura mesi, stiamo assistendo a un degrado infame e dilagante, con la riemersione di sedicenti “opinioni” dal profondo della sentina della Storia, dove credevamo di averle per sempre seppellite, o almeno celate per pudore alla vista. Come carcasse putrefatte e carogne immonde smosse da un’inondazione stanno riemergendo dai fanghi di una mefitica palude figure, personaggi, dichiarazioni, menzogne e perfino “rivendicazioni” che mai avremmo potuto nemmeno immaginare fino a pochissimi anni fa.
Sappiamo bene la natura e la causa dei questa “inondazione”, che è da cercare nell’insorgenza a livello quasi planetario, e di certo nei Paesi di Democrazia Liberale, di teorie e politiche populiste, sovraniste e di destra estrema, diffuse capillarmente grazie ai nuovi media digitali e sostenute dall’onda montante di odio e di reazione di massa irrazionale e autodistruttiva a una realtà in rapido mutamento.
Stiamo rimanendo sempre più soli a fronteggiare questo rovinoso tsunami di barbarie, e ogni volta che uno dei testimoni viventi della Storia ci lascia la nostra solitudine e la nostra vulnerabilità aumentano terribilmente.
Ma è del tutto naturale, e ineluttabile, che ciò avvenga, perché è ormai ora che proprio NOI, la nostra generazione, e quelle che verranno dopo di noi, si prendano carico IN PRIMA PERSONA di questa immensa responsabilità. Tocca a noi ora impegnarci, mai come ora, perché sia preservata e diffusa la memoria e la coscienza della nostra vergogna, solo così potremo evitare che la Storia ci ripresenti il conto in tempi ahinoi prevedibilmente assai brevi.
Ora, mentre facevo queste riflessioni sul carico e la responsabilità della memoria, e sul rimpianto per tutto ciò che già finora avremmo potuto – e dovuto – fare e non abbiamo fatto per sostenerla, non ho potuto evitare di notare come, per una pura coincidenza, tutto ciò trovasse in qualche modo espressione proprio nel breve componimento che stavo curando in vista della pubblicazione di oggi.
In particolare mi piace pensare che quel personaggio che si accosta, alle mie spalle, e interpella direttamente la mia coscienza, e infine si allontana in silenzio lasciandomi disperatamente sola, sia in metafora proprio una di queste figure di riferimento fondamentali che dopo averci parlato, con forza e chiarezza, ci lasciano a far tesoro, se lo vogliamo e sapremo farlo, delle loro parole, della loro testimonianza, e del martirio di tanti altri come loro…
Come ho detto non si tratta di un accostamento voluto, o in alcun modo programmato, ma di una pura coincidenza, eppure forse anche proprio per questo lo sento personalmente come estremamente vicino e significativo.
Avevo intitolato il componimento originale “Pochi rimpianti!”, con un punto esclamativo in senso esortativo. Ma ora ho preferito intitolarlo più semplicemente citando l’incipit "Qualcuno mi disse", per sottolineare la presenza di quel qualcuno, di questo soggetto parlante, senza volto, ma così ingombrante e decisivo per la mia coscienza. E infine ho aggiunto in chiusura una strofa quasi madrigaleggiante, in facile rima, cercando di rendere la dolcezza e insieme la desolazione di questo abbandono.
Vi lascio alla lettura, come sempre e più che mai, con amore.
M.P.
Qualcuno mi disse
Qualcuno mi disse: «Non nasconderti
non fuggire agli strali
dei tuoi ideali feriti, ma non morti:
vedi come dopo decenni
di sonno profondo, febbrilmente ora
in un grido, sono risorti,
e nel riconoscersi ancora quali
quelli della tua giovinezza, sebbene
ora tu sia canuta, curva, stanca,
e saggia, sono insorti.»
Continuò, fumando discosto
perché conosceva il mio disagio:
«Le tue radici, tenaci
come gomene da ormeggio,
sono ancora in quei porti, tra quei moli,
tra quelle navi dormienti e mansuete
come bovini, ove l’odore amaro
del sale si mesceva a quello acre
e nerastro del petrolio,
e si incistava per sempre
nella tua pelle, nei tuoi capelli
e nella memoria.»
Aggiunse, senza alzare lo sguardo:
«Non fuggire, ché i luoghi che fuggi
sono scolpiti sulla pietra della
tua memoria: non è dato fuggire
da ciò che in te porti,
né dai rimpianti di ciò che colpevolmente
hai lasciato incompiuto,
né dalle occasioni che hai avuto
e hai bruciato per sempre.»
Così concluse, e con una carezza
sulle mie spalle spoglie
si allontanò, così come una brezza
porta via il fumo e le foglie.
Marianna Piani
Kilkenny, 11 Marzo 2019
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