Amiche care, amici,
non me la sento di pubblicare nulla di “pasquale”, in questi giorni, no.
Lo spirito è troppo greve, vi pesano migliaia di morti. Diciannovemilaquattrocentosessatnotto, al momento in cui scrivo queste note. C’è di certo più motivo di lutto che di festa.
Invece, mi sono imbattuta in questa sestina, di cui non ho conservato nemmeno la data, ma penso che risalga anch’essa, come le precedenti, a circa un anno fa, dal momento che era annotata nello stesso taccuino.
Il senso di non sentire più come adeguata a ciò che al mondo accade la mia modestissima parola mi era già allora ben evidente. Una crisi che è continuata, e mi accompagna da tempo, e ora è davvero esplosa.
Mentre prima il pensiero fluiva quasi senza sforzo sulla carta, e non avevo poi altro da fare che selezionare il degno dal mediocre, ora ogni singola parola mi costa uno sforzo, direi perfino un dolore, quasi fisico. Il mio antico, eterno dubbio sul “senso della poesia”, se non di tutta di certo della mia, è riemerso con prepotenza, è diventato ineludibile, dominante, e praticamente con esso ingaggio una lotta strenua tutte le volte che mi siedo all’apparecchio (o sul taccuino) e tento di rispondere all’intima esigenza, pur rimasta costante, di scrivere. Una lotta che sempre con maggiore difficoltà e con sempre minor frequenza riesco temporaneamente – solo temporaneamente – a vincere.
E forse soltanto adesso mi avvicino a comprendere qual è il vero dramma, il vero limite, il più autentico disorientamento di chi ha l’immensa arroganza di "scrivere". E capisco come solamente se si è sostenuti da una reale, insopprimibile NECESSITÀ ci è concesso di continuare a farlo.
Con amore
M.P.
La parola, con pena, muore.
La parola, con pena, muore.
Nulla è tanto indicibile quanto
ciò che davvero accade.
Hanno levato ai poeti ogni diritto
a scrivere a mani inermi di ciò
che duole, o esalta il cuore.
Ogni segno tracciato sulla carta
è uno squarcio indecifrabile,
svuotato, cavo,
ogni battuta sulla tastiera
è solo uno schiocco secco
che vorrebbe portar luce,
e invece
conduce a nuova disperazione.
Intanto, i portatori di veleno,
i dioscuri del nulla, gli ignari
s’ergono sul mondo, digrignando
tra i denti ossa e calpestando
libri, fiori, carcasse di bambini
gonfie d’acqua putrida e immonda.
Intanto, per adesso, essi trionfano:
s’espandono e diffondono
il morbo, suppurando le ferite
e lacerando il corpo
in piccoli brani di carne morta.
Ognuno ha chi odiare, ora.
E la parola, con pena immensa,
qui muore.
Irlanda, 2019
Marianna Piani
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