«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»
«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)
«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)
«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)
«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)
«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)
sabato 31 gennaio 2015
Mattinale settembrino
Amiche care, amici,
Mi è stato chiesto di sovente perché io "presenti" o commenti le mie cosette con introduzioni come questa, e non lasci invece parlare la composizione, da sola e con le sue sole forze.
È vero: probabilmente si tratta di una forma di imbarazzo. Ogni composizione mi mette a nudo, a volte con gioia ed eccitazione, altre con dolore e disillusione, e in qualche modo presenta le mie emozioni e sensazioni direttamente a chi vuole leggere, senza intermediazioni o difese, o barriere sociali o culturali.
Per questo non ho cuore di lasciare "da sole" le mie composizioni: come una buona mamma trepidante le "accompagno per mano", fino alla soglia del Mondo. La presentazione ha quindi per me un valore di esorcizzazione della mia personale riservatezza e timore. Ma non solo questo: nell'intenzione è un messaggio rivolto a voi, in quanto lettori, fedeli o sporadici, di questi pensieri tradotti in versi, e per questo queste brevi (o meno brevi) premesse vogliono essere una forma di rispetto ed affetto nei vostri confronti.
In questo caso particolare, si tratta di una breve meditazione intessuta di immagini e di ricordi, quale io amo più di tutto fare. È in sestine libere, una forma molto armoniosa ed elegante, secondo me, che mi aiuta a rendere in qualche modo sensibile la dolcezza e insieme la malinconia di questi appunti. Li ho scritti sul chiudere dell'Estate, appena rientrata da un breve viaggio nei miei luoghi nativi (Alto Adriatico). I luoghi descritti sono più immaginari che reali, o meglio, sono l'espressione di un accumulo di memorie visive e sensazioni che avevano l'urgenza di essere espresse.
Non procedo oltre con l'interpretazione, è giusto che siate voi in quanto lettori ad appropriarvene, se lo vorrete, in piena libertà e autonomia di pensiero.
Li condivido con voi, amiche dilette e amici fedeli, come di consueto, con amore.
M.P.
Mattinale settembrino
Dolce fumo che s'inanella
attorno ai fusti del sambuco,
dolce tenue brezza mattinale
che s'inerpica sulle calli
che si fuggono dal porto
verso i colli ingombri d'arboreti.
Dolce aroma delle verbene
che indugia tra le chiome
degli olmi lungo i viali.
Dolce la foschia sull'onde
quiete di bonaccia mattutina,
ove il mio cuore si nasconde.
Dolce il suono dell'attesa
spesa accanto alla finestra
affacciata in viso al golfo.
Tenero quel mare schivo
che sospira assieme a me
il distacco della distanza.
Dolce declivio del pensiero,
giunto a sorvolare l'orizzonte
per trovarvi infine pace. Dolce
il rintocco antico e grave
della campana che richiama
donne antiche alla funzione.
Dolce il brusio veicolare
dei primi avventurosi umani
che sfrecciano nel tunnel tetro
della tangenziale. Ognuno
col suo fardello d'illusioni
e sconfitte amare da scontare.
Presto giungerà novembre
recando aure di tristezza
impigliate ai rami dei roveti,
e spiriti inquieti tra le pietre
incandidite dei camposanti.
Chiuderanno le finestre
i palazzi delle vie centrali
e chiuderanno gli occhi
gli amanti nel darsi baci,
avvinghiati alla loro fede
per riscaldarsi. Ostinata,
a lungo io ricercherò la mia.
Ma per ora scende
il raggio d'un dolce sole
sulla mia fronte, e gioca
come un bimbo imbronciato
tra i miei capelli e pare
un diadema fragile di stelle.
Marianna Piani
Milano, 26 Agosto 2014
mercoledì 28 gennaio 2015
Io – Divisa
Amiche care, amici,
questa composizione, rimasta senza data o luogo precisi, è nata subito dopo uno di quei miei momenti di disorientamento, quando la mia mente svapora e mi trovo per qualche ora in un doloroso stato di sospensione, incapace di ragionare o di uscire dall'intrico della mia confusione. So da tempo che questi precipizi improvvisi e devastanti sono una espressione inevitabile della mia Silenziosa Compagna, che è destinata a restarmi accanto per il resto della mia vita. Il saperlo non mi consente né di governarli, né di prevederne in qualche modo l'arrivo, arrivano e basta, sono del tutto al di fuori della mia esperienza cognitiva, per non parlare della mia volontà.
In quei momenti, che possono dissolversi in poche ore - con l'aiuto dei fermaci - oppure ostinarsi nonostante ogni sforzo di arginarli per più di qualche giorno (ciò accade di rado, per fortuna), in quei momenti dicevo mi sento letteralmente spaccata in due, cento, o anche mille pezzi, frammenti di un mosaico che non sono in grado in alcun modo di ricomporre.
La scrittura?... Bene, la scrittura non è terapeutica, credetemi, anche se qualcuno lo potrebbe pensare, non "cura" un bel nulla, e in fondo nemmeno lenisce il male, e nemmeno ne riduce la durata o la frequenza. Del resto, nel corso di quei momenti io non sono in grado di scrivere anche una sola singola parola: il pensiero è sospeso, annullato. E inoltre nessuna scrittura di qualche senso potrebbe originarsi da quella confusione, da quella emozione del tutto destrutturata, un poco come lo sono i versi centrali di questa "canzonetta".
Ma con la scrittura posso tentare almeno di comprendere, nel senso letterale del termine: di raggranellare i frammenti, i cocci, per tentare di dare un qualche senso compiuto alla mia vita.
Amiche dilette, amici, condivido con voi questi mie pensieri, come di consueto, con amore.
M.P.
(P.S.: Il titolo si richiama al celebre saggio di Ronald Laing "The Divided Self" - 1955)
Io – Divisa
C'è chi sa intonare un canto
fluente, come un rivo
che dal monte giunge al mare
così, semplicemente.
Io ho ingombro di pietre
il letto del mio torrente, che frangono,
tagliano, frantumano, feriscono
la corrente.
Ciò che io vedo, nello specchio
è la frattura, il frammento
la scheggia schizzata
via dal piano.
Una mano, forse la mia stessa
v'ha scagliato un sasso, un tempo,
l'anima che vi si specchiava
ormai è dispersa.
Fratta, disgiunta, spaccata,
avulsa, non più una, cento mille
tessere d'un mosaico scomposto,
esploso dalla parete.
In ogni coccio, sul terreno,
sono io, identica ma differente
- da me, e dalle altre cento
me stesse, irrelate.
Vi è chi ha provato a ricomporre
questi cocci, forse io stessa,
ferendomi più volte le mani
sui margini taglienti.
Ho dato - ho sorriso - forse ho pianto -
ho creduto - ricucendo - incollando -
ho cercato la mia essenza - lo spirito
mio ancora franco.
Il corpo - di donna - desiderata -
a pezzi sul selciato - violata -
abbandonata - bleedin' blood
from her lips.
Eppure libera, come una brezza
che penetra ogni spacco, o connessura
tra pietra e pietra, s'insinua oltre i muri
di questa galera.
Ma prigioniera - di fatto -
tra muri di molecole
in fissione - e grido, al mondo -
la solitudine è disperante -
per lei - e lei - e lei, cioè io -
pezzi, che sono ognuno
ciò che io sono - inutile cercare
la saldatura -
Non si rimargina - la ferita -
il discorso - è incoerente - ecco sono
ciò che sono, incoesa: sono io,
ma non io, sono l'altra.
Un'altra donna, che si torce
che vorrebbe scomparire, oppure
che svanissero le altre mie, nel nulla
da cui s'erano manifeste.
L'inferno è nella mente, quando cerca
la risposta alla marea salina
che potrebbe investirmi in ogni istante
d'infinita prostrazione.
Il dolore sale, dal profondo
del cuore - Ho io un cuore? Uno solo?
Oppure cento? Cent'anime? Cento corpi vivi?
Oppure solo gelide figure
rifratte? Tremo quando gli angeli
verdemuschio mi afferrano e mi involano
per la stanza - candidamente bianca -
come un paradiso
di sventura - per tornar me - dicono -
e infatti io ritorno, quasi sempre,
spezzata, ma non piegata, ferita,
ma mai vinta.
Presumibilmente, ancora per un po'
procederò sulla mia via esposta,
senza sapere chi io sia,
percorrerò il mio torrente
fino al termine della valle.
Poi, mi riverserò nel piano.
Marianna Piani
Agosto 2014
martedì 27 gennaio 2015
E l'uomo negò
Amiche e amici,
Oggi, 27 Gennaio, Giornata della Memoria.
All'inizio di questa giornata mi chiedevo se la Poesia "può".
Dicevo che non solo può, ma deve.
Per questo lascio queste righe, di circostanza, ma, spero, nobilmente tali
Con amore, che vince e vincerà, sempre.
M.P.
E l'uomo negò
E l'uomo negò all'Uomo
la sua Umanità.
Ma non fu la Vittima
a vedersela negata.
Anzi testimoniando
le sue ferite, il suo costato
trapassato, il suo dorso
spezzato, i suoi polsi
piagati, il suo grido blasfemo,
Egli ebbe nel suo destino
d'elevare l'Umano
alla pura luce dell'Intelletto
al riflesso della Santità
alla Grazia dell'essere
in Vita.
Fu il Carnefice, invece,
che in sé uccise in eterno
ciò che v'era d'umano,
o di naturale, o di Santo,
o di empio finanche,
fu il Carnefice,
nel suo stesso atto
di cieca invidia di vita
a massacrare in sé stesso
ogni Vita.
Fu il Carnefice a calare
sul proprio collo la lama
del male, e a marcire
inumano, non umano,
per sempre.
Da allora noi tutti -
noi tutti!
mai più potemmo dirci innocenti.
Marianna Piani
Milano, 27 Gennaio 2015
mai più potemmo dirci innocenti.
Marianna Piani
Milano, 27 Gennaio 2015
sabato 24 gennaio 2015
Ritornar Sirena
Amiche dilette, amici,
vi va una fiaba?...
Ricordo con molta precisione il momento e il luogo in cui buttai giù i primi versi di questa cosetta, e come avessi avuto esattamente la percezione del racconto, nella sua interezza, tutta in un unico respiro (gli antichi avrebbero detto "afflato") narrativo. Non mi capita spesso: il momento della prima stesura usualmente si appanna nel ricordo, fino a scomparire del tutto. E mi accade ormai piuttosto di rado di comporre "di getto", in un'unica soluzione: mi accadeva tempo fa, ma ora ho bisogno di maggiore cura e maggior lavoro.
Questa invece la abbozzai - a partire dal titolo, altra particolarità, poiché nella maggioranza dei casi per me il titolo appare per ultimo - mentre sedevo, quest'estate, in cima a un vecchio molo, nel porticciolo di Grignano, adiacente alla mia città natale (Trieste), nel corso di una mia breve visita fuggitiva.
La "fiaba" di cui vi accennavo all'inizio è quella d'una Sirena per sortilegio d'amore mutatasi in umana, che con struggente nostalgia sogna di ritornare ad essere la creatura che fu.
Vi lascio alla lettura, amiche dilette e amici, come sempre, con amore.
(Dedico in particolare questa poesiola alla amica Paola C., che nei paraggi di queste rive - beata lei - vive)
M.P.
Ritornar Sirena
Raggiunsi la cima del breve molo
ad ascoltare il cantar del vento
che intonava tra le sartie tintinnanti
la sua nenia dolceamara alla marina.
Ricordo che inciampai nello sconnesso
lastricato, e mi fermai per lasciare
i sandali corallo, troppo arditi
per quei vecchi sassi scompigliati.
Saggiai il contatto dei miei piedi scalzi
con la pietra ancora tiepida di sole,
e provai un piacere intimo, e segreto,
nel poggiare la mia pelle sul granito
consumato dal salso e dal picchiare
dei fortunali. E così, a gambe nude
e con i sandali appesi alla borsetta
avanzai fino al limite del moletto
dove intessevano voli rabescati
i gabbiani indifferenti a ogni umano.
Pensai di scendere i gradini pian piano
per immergermi nelle onde quiete
che carezzavano la sponda,
e così sentirmi rimutare in sirena.
E trasfigurata scomparire infine
dal mondo per fluttuare, danzando
sopra i candidi anemoni del fondo.
Respirare, finalmente, ritornando
al mio elemento, l'onda e il canto:
via in eterno dalla soffocante
agra superficie della terra, via
dal mortale inaridito mondo.
Marianna Piani
Grignano, Trieste, 22 Agosto 2014
mercoledì 21 gennaio 2015
Turno di notte
Amiche care, amici
Ritorno a uno dei miei "temi" di scrittura preferiti, quello del quadretto, della fotografia d'ambiente, dell'acquerello, del paesaggio con figure.
Il mio mestiere, di disegnatrice e illustratrice, e il mio diletto di scrittrice, mi portano spesso, specie in prossimità delle date di consegna o di pubblicazione, a lavorare senza orario, anche nel cuore della notte, e - sempre - all'alba.
Non me ne dispiace affatto. La Natura mi ha dotata di una curiosa facoltà, quella di poter mantenere l'attività e la veglia per una media di almeno venti ore al giorno, e dunque non lo sento come un particolare sacrificio. Medici me lo sconsigliano vivamente, in quanto non pare essere un toccasana né per il mio organismo fisico, devo dire piuttosto forte, né per la mia mente, quella invece già di suo abbastanza incerta.
Ma così è, e quindi non mi faccio mai mancare le mie ore di lavoro notturno, così come ciò non impedisce che io mi alzi nelle prime ore dell'alba, per continuare i miei impegni.
Come dicevo, non me ne dispiace, anzi, l'atmosfera intima e tranquilla della notte, quando tra l'altro sei certa che il tuo cellulare rimarrà muto, e che nessuno verrà a disturbare la tua concentrazione, mi aiuta in un lavoro che, alla fine, è creativo, e in quanto tale richiede sempre l'intera mia dedizione.
E bella, dolce, vagamente misteriosa è l'atmosfera che mi circonda, e la realtà un po' surreale che ha il suo teatro di là dalla finestra, nella città inquieta, semincosciente.
Ecco, queste sensazioni, questi pensieri, vorrei condividere con voi, amiche dilette e amici, come di consueto, con amore.
M.P.
Turno di notte
Le mie notti, le mie veglie
che paiono infinite, e sono
solo sfinite, sopra la tastiera
bianca, al lavoro, stanca.
Ascolto il silenzio del mondo
oltre i vetri accanto,
povera fragile barriera
tra me e quel vuoto immoto.
Mi tiene per mano
per non farmi smarrire
il ronzio di un traffico lontano
rarefatto come l'attesa
di una tempesta all'alba.
Amo queste ore che sono
solo in apparenza disperate
e scavate d'ogni presenza.
Amo sospendere la mano
dall'impegno, e la mente
dal pensiero, e sogguardare
dall'alto le disertate strade.
Sempre mi stupisce
l'unica presenza solitaria
d'un uomo che s'affretta
nella luce del lampione
e scivola subito nell'ombra.
E il crocicchio verso il viale
dove fumano due angioli senz'ali
che ogni notte fino all'alba
offrono cenci d'illusione
e boccate d'emozione
d'un amore inverecondo
a chiunque ne stia chiedendo.
Il senso di esser sola
in queste ore in me s'accentua,
fino alla sofferenza,
e s'accentua l'acutezza
di ogni senso acceso,
come quelli d'una gatta
che sorveglia la nidiata.
Sento i passi di quell'uomo
ribattere il selciato desolato
fino a quasi quando si dilegua
alla fine dell'isolato.
Non è desolata l'ombra, nella notte.
Lo è il livido bagliore
dei lampioni al sodio.
Non è solitaria la mia fatica
ma ricolma di presenze.
Inquieta. Non più stanca.
Non staccherò, fino all'alba.
Marianna Piani
Trieste, 20 Agosto 2014
sabato 17 gennaio 2015
Cera Persa
Amiche care, amici
Questa mia composizione parla di un amore alla fine e di ciò che rimane dopo di esso, ma è anche un po' una riflessione sulla Memoria, che vorrei condividere con voi.
Non parlo della Memoria Storica, della memoria documentale, o culturale, della memoria dell'avventura e della Civiltà dell'Uomo - ciò per cui mi batto opponendomi ferocemente alla riduzione digitale di tale memoria, e quindi alla sua programmata annichilazione.
Parlo della Memoria della singola persona, quella che lega ciascuno di noi, come individuo, a persone e luoghi che abbiamo vissuto e amato, e che scompaiono ineluttabilmente nella corrente del Tempo. Il breve tratto di tempo che ci è dato vivere.
Questo è anche uno di quei casi in cui, se scrivessi ora questa composizione, la scriverei in modo del tutto diverso.
Non quanto alla forma, o alla tecnica compositiva, questa è in continua evoluzione, per me, e ciò è connaturato nel lavoro stesso della scrittura. Il tempo che io frappongo volutamente tra la prima stesura di uno scritto e la sua "pubblicazione" risponde proprio a quest'esigenza di rivedere - lontana ormai la primitiva e più emotiva "ispirazione" - la mia scrittura alla luce di questa evoluzione, o maturazione, o mutazione, non soltanto formale, ma anche in molti casi di linguaggio e contenuto.
Ma questo particolare è uno di quei casi in cui proprio il significato ultimo, il motore della composizione non coincide più del tutto con il mio pensiero.
Non in tutto, beninteso, ma in un punto qui - credo - sostanziale. Al tempo in cui ho scritto questi versi mi trovavo in un periodo piuttosto felice, quasi sereno, era piena estate, in piena luce, e prospettive nuove mi si aprivano innanzi. Dunque la mia riflessione era certo improntata su una profonda malinconia, ma in fondo a questo percorso vedevo una apertura, una positività finale dell'esperienza della Memoria.
La Memoria - mi dicevo - è sì costruita sul vuoto, sull'assenza - altrimenti non sarebbe memoria - è un guscio vuoto, un calco in negativo in cui noi ci sforziamo di riconoscere ciò che non c'è più, ciò che abbiamo perduto.
Tuttavia, alla fine, qualcosa di tangibile - nell'anima - ci rimane, come elaborato di questa memoria: come il calco da cui ricaviamo la fusione di un'immagine in bronzo. Così pensavo.
Ora mi sto rendendo conto come questo nulla su cui è fondata la nostra memoria, questo non restituirci in realtà nulla dei nostri affetti, delle nostre nostalgie, nulla più che un simulacro, è la autentica condizione umana, ed è il suo dramma. La memoria ci illude, ma non ci preserva in alcun modo dal trascorrere del tempo, che fa dei nostri ricordi soltanto un segno percepibile del suo passaggio. La memoria è un simulacro, appunto, ma il simulacro non è il Dio. Il Dio è presenza, è azione, è costanza. Il simulacro fissa soltanto un chiodo nella parete del tempo, ma a questo chiodo non possiamo affidarvi altro che non sia la nostra infinita malinconia. Nulla di ciò che rappresentiamo è veramente ciò che è stato, e nulla di ciò che è stato ci ritornerà, mai.
Dunque siamo soli con la nostra disperazione? Dunque meglio l'oblio, meglio la condizione di abbandono al nulla, il "tempo puntiforme", così distintivo della follia?
Ne so, di follia, abbastanza per dire che essa non consola, non ci rende incoscienti in modo sereno, tutt'altro. La follia ci rende disperati, per motivi opposti, ma forse in modo ancor più atroce e doloroso. Poiché la nostra allora diventa una realtà del tutto priva di peso, di direzione, di orientamento. E questa solitudine nel cosmo rimane la nostra ultima precisa coscienza.
La Memoria dunque è inevitabile, se non vogliamo perdere ogni senso del nostro cammino, breve o lungo che sia…
Amiche dilette, amici. Un abbraccio, con amore
M.P.
Cera persa
Come posso evocare la tua bellezza
Angelo, ora che con un frullo d'ali
hai preso il volo con il sibilo ovattato
d'una civetta, o il tonfo vellutato
d'una falda di neve che piomba sopra il prato?
Ora che m'hai lasciata, smarrita,
a contemplare accanto a me il paesaggio
desertificato del nostro letto sfatto?
Ogni grinza, ogni piega ogni falda
di quelle coltri sono il calco e la memoria
delle tue forme, del tuo corpo teso
come un arco pronto alla scocca: qui
eran le tue gambe di daino ansiose,
qui affondavi i piedi che io baciavo
inebriata, come fossero corallo.
Qui premeva il tuo bacino sazio d'alba,
qui palpitava quel tuo seno saldo
che era oggetto di ogni mia venerazione,
qui si versavano i capelli come un fiume
di miele, dolci come miele, come il miele
odorosi di fiori e di primavere
trionfanti; qui le mani, le tue mani
sante artigliavano le coltri esangui
nei momenti in cui ti avevo in mio potere
e ti udivo spirare di piacere.
Rari e brevi quegli istanti, Sovrana,
in cui ti lasciavi possedere, ma fiammanti.
Impressi a fuoco nella mia mente.
Eppure, se io cerco ora di rivedere
nell'oblio la tua figura, non ti colgo.
Io non ti vedevo già da tempo, dolce
ormai sentivo il tuo esistere soltanto
dal contatto della tua pelle sulla mia,
dall'umore vellutato delle tue labbra,
dal peso del tuo viso tra le mie mani
prigioniero, qual ero io di te:
non ti sapevo più vedere, come
non possiamo vedere in faccia il sole
che ci acceca, ma percepiamo
la piena sua presenza dal suo calore.
Rammentare la tua bellezza ora,
è esprimerla da un vuoto, dall'assenza –
dal cavo il pieno, dal vapore la sostanza,
dalla nostalgia la vita, dal calco il volto:
così come dalla cera si forgia il bronzo.
Marianna Piani
Trieste, 18 Agosto 2014
mercoledì 14 gennaio 2015
La traversata
Amiche care, amici,
Da sempre il lago, qualunque lago, ma il "mio" lago in particolare (il Lago Maggiore), esercita su di me un fascino speciale.
Il lago per me rappresenta la serenità e la pace, contemplata al mattino nelle giornate di Marzo, o di piena Estate.
Rappresenta il passaggio, la possibilità di traversare da una riva all'altra, praticandone la superficie come un uccello lacustre, in volo, oppure pigramente remigando nella quiete, come una testuggine d'acqua.
Rappresenta lo specchio di un intero mondo, oppure di me stessa, specchio nitido, appena velato dall'acqua intorbidita dalle correnti del fondo.
Rappresenta anche il turbamento e l'angoscia, e assieme l'attrazione finale, dell'annullarsi, del perdersi. Un luogo così accogliente, confortevole e gelido da essere mortale.
Quante volte, amiche mie, mi sono trovata immobile, sul bordo estremo della banchina, a riflettere la mia immagine, e a pensare, a immaginare, cosa accadrebbe se decidessi per un balzo in quelle acque… Con l'obiettivo di raggiungere l'altra riva. Qualunque essa sia.
Condivido con voi, amiche dilette e amici, questi svagati pensieri, con amore
M.P.
La traversata
Le acque erano scure, inquiete.
Da qui fino alla riva di fronte
un'unica immensa piana di vetro
come un cielo conturbato - capovolto.
Era sera. Immaginai allora
di attraversare quel braccio di lago
tutta sola, in una sola notte,
con il mio nuoto pigro e ostinato.
Mi sarei spogliata qui sulla riva,
avrei aggiustato il mio Speedo azzurrino
con le spalline incrociate alle spalle,
e avrei atteso senz'ansia l'istante.
Quando le prime luci dell'altra riva
si fossero accese come una minuscola
costellazione di perle e il lago
si fosse fatto nero di sangue di drago.
Allora mi sarei tuffata nell'acqua tetra
gelata, anch'essa in attesa di qualcosa
che doveva accadere, e mi sarei spinta
bracciata dopo bracciata verso il largo.
Per qualche motivo, forse le ossa
leggere, forse l'adipe ai fianchi
e al seno, noi donne possediamo
innata confidenza con l'elemento.
Io esile e minuta, galleggio
come fossi sughero e balsa,
non temo la distanza, anzi
la meta prefissa è solo un pretesto.
Non m'importava perciò di arrivare -
ciò che contava era la traversata,
contava trovarmi da sola lontana
da ogni salvezza, avvolta come
in una rorida placenta, e contava
sentirmi smarrita dalla dolcezza
di quel primigenio elemento
che mi cullava, che mi accoglieva
nel suo grembo così ostile, eppure
così ineluttabilmente materno.
Colà, allora, finamente, totalmente sola
avrei potuto scegliere, liberamente.
Scegliere di lasciarmi andare, allora,
guardando le pallide prime stelle
sopra di me danzare, rasserenata
tornare nel ventre d'una Madre che m'ama
e mi protegge: non più ansia,
non più dolore, non più abbandoni,
non più distacchi laceranti
da chi più amiamo. Una pace, quale sia.
Oppure scegliere, per l'amore,
di spingere ancora una bracciata,
e poi un'altra ancora, e nell'amore
trovare il vigore per proseguire...
Non per il miraggio di una meta
che forse rimarrà qual è ora, miraggio
di luci di vite umane, ma per il percorso
che vale in sé lo sforzo e il coraggio.
Laggiù, al largo, in solitudine tra le stelle
indulgenti e le acque accoglienti,
proprio al mezzo del percorso
avrò libera l'ineludibile scelta:
libera quindi proseguire
per quanto arduo sia il tracciato,
oppure fermarmi, morire,
e dolcemente adagiarmi tra le alghe
sul fondo.
Marianna Piani
Nebbiuno, 13 Agosto 2014
sabato 10 gennaio 2015
La Donna, il Poeta - e un abitino rosso.
Amiche care, amici,
se siete su queste pagine, come me amate la Poesia, e forse anche più dal momento che avete la pazienza di seguire queste mie modeste peregrinazioni.
Forse ne scrivete o, cosa ancor più importante, la leggete: insomma, avete il dono di amarla, comprenderla e di goderne, cosa che a non tutti è concesso.
Leggere, comprendere e godere della bellezza della poesia è appunto un dono, e un dono che a volte non è concesso neppure a chi per diletto o professione ne scrive.
Diciamocelo, il narcisismo è una delle componenti distintive di ogni arte, o meglio, di ogni artista, dal più alto, al mediocre, all'infimo. Anzi, direi che tanto più in basso si discende la scala dell'eccellenza, tanto più accentuato risulta questo carattere. O per meglio dire ancora, la dose sempre comunque presente al massimo grado di narcisismo ed esibizione, se nell'eccellente è celata da altri più alti valori, nel mediocre e nell'infimo non ha modo di nascondersi o camuffarsi, e risalta in tutta la sua ingombrante e spiacevole evidenza.
La Poesia ahimè, tra tutte le arti è forse la più pura (assieme alla Musica, sua sorella di sangue), e per questo non tollera affatto alcuna forma di mediocrità. Una poesia mediocre è una poesia fallita. Come in pittura sarebbe ciò che si chiama una "crosta".
In effetti vi è chi fa poesia per pura esibizione solipsistica, ma costui (spesso purtroppo è una costei) è un insensato, perché …a che pro farlo, quando per esibire cultura o brillantezza o sentirsi trendy o intellettuamente "elevati" ci sarebbero mille altri più efficaci mezzi? Quando non vi è nulla più gratuito e privo di qualsiasi ricavo economico? Eppure ciò incredibilmente accade.
Forse accade per il carattere di apparente facilità (questo a differenza della musica, che almeno pretende un minimo di conoscenza e abilità tecnica per esprimersi in modo intellegibile) che in particolare con la canonizzazione del verso libero novecentesco ha dato la stura al grande malinteso che la poesia fosse a portata di tutti, che alla fine fosse solo un incolonnar parole, in cui istillare qualunque pensiero o delirio o sproloquio. Infatti la Poesia, a mio parere, non è questione di quello che un tempo si chiamava "ispirazione". Ciò è scontato, o dovrebbe esserlo. La Poesia è prima di tutto fatica, lavoro quotidiano, instancabile, accurato, scientifico. Altrimenti non rimane che uno sterile sfogo.
Per questo vi propongo questo incontro - immaginario ma non troppo - tra una donna qualunque, come me, voi, e un Poeta autentico e vero, in cui, fuor di metafora, si ragiona proprio del senso di far poesia, oggi, ora, per chiunque, ma in particolare appunto per una donna…
Per voi, amiche dilette e amici cari, come sempre, con riconoscenza e amore.
M.P.
La Donna, il Poeta - e un abitino rosso.
Una giovane donna incontrò un Poeta
a fine Luglio, verso sera,
sulla via che portava alla scogliera.
Ella notò che le sorrideva, d'istinto,
come ogni vecchio che si rivolga
a una donna giovane e di qualche bellezza.
Quel sorriso fugace
bastò alla sua femminile impudenza,
gli si accostò e prese parola:
"Maestro - osò, quasi senza esitare -
mi puoi rivelare qual è il segreto
del fare - oggi - come te - Poesia?"
Detto questo, ella si sentì sprofondare
nell'imbarazzo d'aver pronunciato
una richiesta così futile e vana.
Ma, con sua sorpresa,
egli non se ne ebbe, e anzi con pazienza
stette sul parapetto della banchina.
E le rispose,
con la dolce stanchezza
di chi ripeta una troppo nota ricetta:
"Escogita un pensiero cara, qualunque esso sia,
e mutalo in una frase, e che la frase
si conformi in un discorso.
Ora trascrivilo, parola per parola,
verbo per verbo, di fila,
e quand'avrai compitato la stringa
lunga o breve che sia, come una collana,
spezzala in più punti acciocché i frammenti
si giustappongano uno all'altro come formelle.
Oppure anche, scomponi la frase
in singole orfane celle, come i vagoni
d'un convoglio di particelle
anche non correlate, come sono le gocce
d'una pioggia autunnale, senza letizia
e senza dramma.
Se hai un qualche istinto per gli accenti
aggiungici un ritmo, e se hai l'orecchio
qualche rima o meglio
qualche sbadata assonanza.
L'importante, su tutto, è che il senso
e l'emozione e la vita vera
svaniscano in un pirotecnico sbuffo
di scintille e inducano il mondo a puntare
il naso verso il cielo, con svagato stupore."
S'interruppe, e lei rimase muta,
non comprendendo se ciò che udiva
fosse vero, oppure inganno d'orecchio.
"Non credi dunque sia questa - riprese -
la ricetta che cercavi di carpire
alla mia senescente follia?
Eppure per tanti a questo
è ridotta oggi la Poesia, a una piroetta
e un capoverso.
Ma tutto questo mia cara è ciarpame,
è spazzatura, è nobiltà fatta in cenci,
è merda deposta a seccare sul prato."
Interruppe, come se il parlare
gli fosse venuto all'improvviso un penoso
insostenibile peso.
"La Poesia non è diletto, è una croce,
e le parole sono i chiodi con cui affiggere
la nostra anima al legno!
Il sangue che ne cola è il dono
che lasciamo al mondo
che se ne nutre avido come un vampiro."
Ella lo fissò sconvolta,
vedendo quegli occhi chiari
spegnersi, e la luce gelare all'istante.
E lui riprese, con la stessa vivida ira:
"Cara, tu sei donna, e hai il dono
inestimabile della bellezza.
Vivi la tua vita, tu che puoi farlo,
con interezza, dona la tua esistenza
al piacere e all'amore d'anima e carne.
Il tuo fine al mondo è sedurre il tempo
e lasciarti fecondare dalla vita
per dare dai tuoi visceri nuova vita.
Non perderti nel miraggio
senza sostanza della parola,
salvati dallo smarrirti in questa selva
senza confini né direzione né meta!"
Ciò detto, con un amaro finale sorriso
in omaggio alla sua giovane grazia
si rivolse al mare e si allontanò
con il suo passo privo di fretta,
perseverante, e senza stanchezza.
Lei stette, e si chiese se, nonostante Alda,
e Saffo, Emily, Anne o Sylvia e mille altre,
s'addiceva infine a una donna,
com'era lei viva nel tempo a lei dato
di concedersi spoglia indifesa
vergine sposa a cotale tiranna.
Decise allora d'acquistare
quell'abitino rosso - deliziosa poesia -
ch'era in attesa per lei nella vetrina.
Marianna Piani
Milano, 10 Agosto 2014
giovedì 8 gennaio 2015
J'écris ton nom...
J'écris ton nom
La Beauté, la Poésie, l'Art
et le Sourire
ne seront jamais tué!
Se una matita è un'arma cui si risponde a colpi di arma da guerra,
ebbene, la useremo. Più che mai! Senza paura, sempre!
Venceremos!
Marianna Piani
Plateau d'Assy - France
+ + + + + + + + + + + +
sabato 3 gennaio 2015
Non fu il vento
Amiche care, amici,
ancora un buon inizio Anno a tutti voi…
...E io ritorno ai miei luoghi consueti, alle mie atmosfere più amate, a questi tempi estivi in riva al "mio" lago (il Lago Maggiore, nei territori tra Arona e Stresa), e al ricordo di questo violento fortunale, che bruciò gli alimentatori del televisore e le linee telefoniche di tutta la zona, e sconquassò il tetto di casa, tanto da rendere necessario un urgente intervento nei giorni successivi.
Avvengono così, in quei paraggi, i nubifragi estivi, improvvisi e sfrenati, come quelli, altrettanto furiosi e imprevisti, che a volte ci sconvolgono l'anima.
E forse questo selvaggio scatenamento degli elementi è uno dei fascini di questi luoghi, che nonostante la pesante urbanizzazione e la pressione turistica ormai secolare, conservano una loro selvaggia purezza, specialmente se vissuti, come è mia fortuna farlo, dalle pendici più appartate ed elevate, meno frequentate.
Il Paesaggio è per me, anche grazie alla mia formazione figurativa, di grande ispirazione. Il vantaggio, o meglio la diversità della Poesia rispetto alla Pittura e all'illustrazione , sta nel fatto che ciò che in pittura è oggettivo, quasi concreto, un tangibile aggrumarsi di tinte sulla tela, in poesia ciò che si può cogliere è il respiro, l'atmosfera, il modo in cui quelle visioni, quelle sensazioni si depositano nella nostra anima.
Vi propongo dunque questo mio "quadretto", trepidando un poco come di consueto, e affidandomi alla vostra indulgenza, con amore.
M.P.
Non fu il vento
(Tempesta sopra il lago)
Non fu il vento, il turbinoso vento
con il suo affanno ansioso e audace
a precorrere le ore e a annunciare
quell'inatteso così immediato ritorno.
Non fu nemmeno l'inquietudine sospesa
del frullio delle betulle scintillanti
tra i sibili dei rami bianchi come
madreperla, poiché tutto era pace.
Non fu lo stupore degli sguardi quatti
dei gatti affrettati ai loro covi consueti,
né le pupille di vetro scuro degli uccelli
sbarrate nel presentire il suo grido
via via farsi vicino: no, nessun canto
sommesso o furioso, nessun eloquio
sereno o minaccioso giungeva
dalla palude che ne predicesse l'arrivo.
Soltanto, un malessere vago e tenace
mi scuoteva il petto come un singhiozzo
interrotto, e un fremito trepido nel ventre
ardeva nel cuore d'una febbre crescente.
Pensavo d'essere io turbata
di essere io ammalata e dolente,
perché nello sfiorarti le guance
ti avevo sentito d'improvviso assente
già così assurdamente da me distante.
Pensavo fosse il disagio di essere sola,
con la ferita che mi tagliava l'anima
come uno sfregio sul viso. Invece:
Tutto si sciolse, alle tre del mattino,
quando un bagliore, improvviso,
schiantò l'edificio intero e me stessa
preda del mio tormentato torpore.
Venne il cielo, e si abbatté sopra il tetto,
e la luce si frammentò in migliaia
di abbaglianti saette, e la voce possente
del vento curvò le betulle come fuscelli.
E infine, come un colpo di colubrina
dalla torre a mezzogiorno, venne l'urto
che mi fece vacillare, e per un istante
dubitare della mia stessa coscienza.
La tempesta sopra il lago, immane
come un drago ancestrale che ci assorda
e ci investe di gelide fiamme, sorse
da dietro i colli, e mi travolse.
Convulsamente mi aggrappai alle coltri,
non per terrore, anzi: perché troppo
affascinava tutto questo fragore
tutto quel che in me era di strega,
abbandonata da sola al suo rogo.
Marianna Piani
Nebbiuno, 4 Agosto 2014
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