Amiche care, amici,
Da sempre il lago, qualunque lago, ma il "mio" lago in particolare (il Lago Maggiore), esercita su di me un fascino speciale.
Il lago per me rappresenta la serenità e la pace, contemplata al mattino nelle giornate di Marzo, o di piena Estate.
Rappresenta il passaggio, la possibilità di traversare da una riva all'altra, praticandone la superficie come un uccello lacustre, in volo, oppure pigramente remigando nella quiete, come una testuggine d'acqua.
Rappresenta lo specchio di un intero mondo, oppure di me stessa, specchio nitido, appena velato dall'acqua intorbidita dalle correnti del fondo.
Rappresenta anche il turbamento e l'angoscia, e assieme l'attrazione finale, dell'annullarsi, del perdersi. Un luogo così accogliente, confortevole e gelido da essere mortale.
Quante volte, amiche mie, mi sono trovata immobile, sul bordo estremo della banchina, a riflettere la mia immagine, e a pensare, a immaginare, cosa accadrebbe se decidessi per un balzo in quelle acque… Con l'obiettivo di raggiungere l'altra riva. Qualunque essa sia.
Condivido con voi, amiche dilette e amici, questi svagati pensieri, con amore
M.P.
La traversata
Le acque erano scure, inquiete.
Da qui fino alla riva di fronte
un'unica immensa piana di vetro
come un cielo conturbato - capovolto.
Era sera. Immaginai allora
di attraversare quel braccio di lago
tutta sola, in una sola notte,
con il mio nuoto pigro e ostinato.
Mi sarei spogliata qui sulla riva,
avrei aggiustato il mio Speedo azzurrino
con le spalline incrociate alle spalle,
e avrei atteso senz'ansia l'istante.
Quando le prime luci dell'altra riva
si fossero accese come una minuscola
costellazione di perle e il lago
si fosse fatto nero di sangue di drago.
Allora mi sarei tuffata nell'acqua tetra
gelata, anch'essa in attesa di qualcosa
che doveva accadere, e mi sarei spinta
bracciata dopo bracciata verso il largo.
Per qualche motivo, forse le ossa
leggere, forse l'adipe ai fianchi
e al seno, noi donne possediamo
innata confidenza con l'elemento.
Io esile e minuta, galleggio
come fossi sughero e balsa,
non temo la distanza, anzi
la meta prefissa è solo un pretesto.
Non m'importava perciò di arrivare -
ciò che contava era la traversata,
contava trovarmi da sola lontana
da ogni salvezza, avvolta come
in una rorida placenta, e contava
sentirmi smarrita dalla dolcezza
di quel primigenio elemento
che mi cullava, che mi accoglieva
nel suo grembo così ostile, eppure
così ineluttabilmente materno.
Colà, allora, finamente, totalmente sola
avrei potuto scegliere, liberamente.
Scegliere di lasciarmi andare, allora,
guardando le pallide prime stelle
sopra di me danzare, rasserenata
tornare nel ventre d'una Madre che m'ama
e mi protegge: non più ansia,
non più dolore, non più abbandoni,
non più distacchi laceranti
da chi più amiamo. Una pace, quale sia.
Oppure scegliere, per l'amore,
di spingere ancora una bracciata,
e poi un'altra ancora, e nell'amore
trovare il vigore per proseguire...
Non per il miraggio di una meta
che forse rimarrà qual è ora, miraggio
di luci di vite umane, ma per il percorso
che vale in sé lo sforzo e il coraggio.
Laggiù, al largo, in solitudine tra le stelle
indulgenti e le acque accoglienti,
proprio al mezzo del percorso
avrò libera l'ineludibile scelta:
libera quindi proseguire
per quanto arduo sia il tracciato,
oppure fermarmi, morire,
e dolcemente adagiarmi tra le alghe
sul fondo.
Marianna Piani
Nebbiuno, 13 Agosto 2014
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