«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

sabato 28 febbraio 2015

Quelle scabre murate


Amiche care, amici

Un tempo ammiravo e invidiavo la Sintesi in scrittura, così come il brutto anatroccolo ammira e invidia le pompose papere bianche che si pavoneggiano per l'aria, esibendosi a tutti con il loro ineffabile piumaggio e il loro volo supponente e rumoroso.
Ora, maturando una mia ragione di stile e di pensiero, ho iniziato a rivalutare la mia scrittura fluente e a volte traboccante.
Ma perché mai dovrei limitarmi? Perché dovrei forzarmi a una "brevità" che non sento come mia, che non sento nella mia natura? Non è la scrittura espressione libera e propria? Perché dovrei sentirmi in colpa per esprimermi con un certo respiro, con una certa ampiezza di ritmo e di tempo?
D'accordo, la prolissità, la ripetitività, la sovrabbondanza, non sono certo vizi da coltivare, pena il far morire di noia i propri malcapitati lettori. Ma chi ha detto che la sintesi e la brevità siano in sé valori?
Certo alla lunga ho iniziato a trovare spocchiosi, modaioli e senza sostanza i troppi richiami alla "scrittura breve" che, complici i nuovi media come Twitter, stanno dilagando un po' ovunque, un po' troppo, un po' fastidiosi, spesso mediocrità coperta sotto un pastrano pseudoculturale.
Io credo che ci sia di certo del genio in un aforisma di due righe, in una strofa di quattro versi, quando sono riusciti, ma, appunto, occorre del genio. E il genio, mi si dice, è tale perché è raro, estremamente raro.

Invece della opposizione "brevità-lunghezza" io preferirei parlare della dicotomia "densità-rarefazione", qui sì il sotteso di valore è evidente. La scrittura deve essere non "brave", ma "densa" - intensa, concentrata, essenziale. Può essere "densa" una lirica di poche sillabe, come può essere denso un romanzo di ottocento pagine. Questo è un valore certo.
Al contrario, la rarefazione, di idee, di concetti, di pensiero, di sintassi, di prosodia, sono la "via facile" allo svuotamento della lingua, al suo imbarbarimento nella semplificazione e nella depauperazione.
Intendiamoci, non intendo con questo gratificarmi di una autovalutazione positiva d'ufficio alle mie composizioni "lunghe", il merito di un giudizio di valore non spetta a me, ma esclusivamente ed interamente al lettore. Voglio dire soltanto che non mi sento più "in colpa" come un tempo se la mia penna si concede una certa fluvialità di scrittura, altrimenti sarei una cattiva critica di me stessa. Perché ciò che conta non è la lunghezza, o la quantità in sé, ma la qualità. E se devo infliggere a un mio eventuale lettore un componimento di cento e più versi, occorre che ci lavori con centuplicato ardore, per fare sì che tutti questi versi, dal primo all'ultimo, siano essenziali, insostituibili.

Tutto questo preambolo per farmi "perdonare" da voi, amiche care e amici, questa canzone, beh, sì, relativamente lunga. Ma il soggetto era così ricco per me che proprio non potevo esimermi da trattarlo con una certa ampiezza, perché troppi i riferimenti, troppe le suggestioni, troppe le emozioni che da sempre mi suscita: ho avuto la fortuna di abitare a Venezia, nella Venezia un poco defilata dai percorsi turistici obbligati, per un periodo breve ma intenso, che non potrò ovviamente mai dimenticare.

E spero tanto che questa "pagina di diario" della memoria possa donare anche a voi qualche emozione, qualche immagine, qualche diletto.

Per voi, carissime amiche e amici, come sempre, comunque, con amore

M.P.









 Quelle scabre murate

 

Amara città, Venezia, per chi
nonostante tutto l'ama, nonostante
i muri erosi dalle visioni
di milioni di pellegrini, illusi
di rivivere il loro sogno, bramosi
di respirare nell'umido diffuso
una gloria che si sbriciola
al contatto, e sfarina in nulla.

Non v'è luogo, ormai,
che non sia calpestato da milioni
di viandanti, stupefatti, e smarriti,
o del tutto privi di coscienza
del motivo del loro peregrinare.
Non v'è calle, non v'è rio,
che non sia immerso,

come in una nebbia esiziale,
nel campo visivo di milioni di occhi,
nell'ombra di milioni di orbite
vuote, come bocche affamate
di Storia e Bellezza,
così avidamente cercate
in un mondo che ne è così deprivato.

Lo sciabordio notturno
nel silenzio che regna a tratti
tra campi e vicoli nascosti
è il sinistro gorgoglìo profondo
d'un organismo che esala
l'ultimo respiro, non il canto
che i due amanti sull'arco
del piccolo ponte, avvinghiati,
s'illudono d'udire.
E il loro bacio, lungo, abissale,
si espande lungo il canale
come l'ombra della basilica accanto
chiusa al culto, dalle bifore murate,
eppure tutt'ora in sé solenne.

La gloria, e il fasto, e l'Arte
non sono più di questi luoghi,
non lo sono da quando
la vita ha cessato di frequentarli.
Il vero retaggio
è celato, invisibile, insospettato,
occorre cercare, dirigendo lo sguardo
dove nessun altro si sofferma
a osservare, occorre vedere
oltre il manto sdrucito della Storia,
oltre la smodata ricchezza
consumata dall'erosione di una
millenaria esposizione
allo stupore profano del mondo.

Sono le scabre murate
degli antichi palazzi, battute
dalle onde di milioni
di imbarcazioni, per millenni
di rotte tracciate, e percorse.
Sono i mattoni e le pietre
ai piedi delle basiliche eterne
corrotti nei secoli dall'amaro
del salso e delle antiche disfatte.
Sono la segreta misteriosa selva
di tronchi sommersi, a migliaia,
migliaia di torsi d'Atlante
anneriti da immemorabile tempo,
che reggono il peso, da soli,
di quell'immenso feretro
di pietra e di marmo.

Sono le finestre sbarrate,
come occhiaie cucite su orbite
vuote, a guardare senza espressione
che tradisca un dolore
il corso dei canali argentati,
un tempo fiumane di gloria,
ora sudari senza memoria.
Sono gli intonaci grigi
che sfarinano al tocco,
come cortecce di alberi morti,
Sono le voci e i richiami
ormai perduti per sempre,
all'orizzonte del mondo.

L'ultima voce che canta
dalle più appartate corti,
lontano dalle folle randagie,
lontano dai motori pulsanti,
è il battito discreto della marea
sotto le pance ricurve
delle chiglie lasciate a languire
vincolate alle cime che pendono
inerti dalle banchine
d'un approdo nascosto,
dietro un ponte o nel fondo
d'un fondaco dimenticato.

Appartata, anch'io ascolto
quest'ultima voce di mare,
quest'ultimo odore di laguna,
e penso al solitario gabbiano
che m'ha salutata, immobile
dalla cima della sua bitta,
come un guardiano
in livrea bianca, come
un malinconico spettro
proprio all'accesso
a questo spettrale palazzo.

E quando infine quel gabbiano
prenderà il volo, forse mosso
dal passaggio troppo da presso
di una lancia, o di un barcone,
muoverà con lente onde
le immense solenni ali,
ricordando al mondo e al cielo
il suo essere ancora sovrano
sopra questi mari.
Fastosi di troppa Storia.



Marianna Piani
Milano, 1 Ottobre 2014

5 commenti:

  1. Mari,
    Rimanendo in tema di lunghezza, ho dovuto per forza di cose abbreviare il mio commento :
    Stavolta era venuto lungo circa SETTE pagine. Decisamente troppo, non credi ?
    L’ho dunque abbreviato, e di molto.
    Spero di non aver tagliato nulla di rilevante.
    Che dire, in questa tua “pagina di diario” il Gabbiano, pur comparendo alla fine, rappresenta il soggetto principale, a mio parere.
    A differenza dei viandanti, il suo “volo” è cosciente, calibrato.
    Non seguendo itinerari preconfezionati / obbligati (come fanno i turisti), si sente libero (ed è libero) di volare e sostare ascoltando unicamente il suo istinto.
    E' libero di scoprire, di esplorare.
    E’ affamato di vita. Di tranquillità. Di essenzialità.
    La stessa essenzialità che sembra passare inosservata agli occhi dei turisti che popolano (anzi, affollano) tutti i giorni una città d’arte come Venezia, nella maggior parte dei casi soltanto per poter dire : “Siamo stati a Venezia !”.
    In tutto ciò non c’è traccia di naturalezza, tantomeno di coscienza (milioni di orbite vuote…)
.
    Non sanno neppure loro, in fondo e veramente, perché si trovano lì.
    Ripetono meccanicamente una sorta di rito tramandato da generazioni (Il Viaggio a Venezia è un classico intramontabile), esattamente come quando inizia a piovere e “meccanicamente” si apre l’ombrello.
    Se iniziasse a piovere durante il loro itinerario, quasi tutti i turisti si ammasserebbero nei bar e nei locali per la gioia dei gestori, come topolini in trappola.
    Pochi rimarrebbero all’aperto ad ascoltare il rumore della pioggia scrosciante nei canali.
    Tornando a lui, il Gabbiano può permettersi un lusso sconosciuto ad ogni essere umano:
    Appena percepisce un eventuale “pericolo”, spalanca le ali e lo “governa” (come un sovrano) dall’alto. Non lo subisce MAI.
    Tu, Mari, esattamente come quel Gabbiano, ami stare appartata in solitudine, cerchi tranquillità, essenzialità, e in più, a differenza sua, cerchi Poesia in ogni cosa (Il vero retaggio è celato, invisibile, insospettato…).
    Apprezzi i luoghi poco frequentati, i luoghi considerati "minori", che però, a differenza di quelli molto frequentati, possiedono il pregio di parlare attraverso il loro silenzio.
    Abitando in una zona defilata di Venezia, sei riuscita a precepire, a sentir battere l’ormai Vecchio, PURO CUORE della città.
    Sei rimasta colpita dalla sua tristezza, dalla sua malinconia, e di riflesso dalla sua enorme e AMARA Bellezza.
    “Occorre cercare, dirigendo lo sguardo dove nessun altro si sofferma
a osservare”.
    Prendo in prestito questi versi, per trattare brevemente l’introduzione :
    Cercare, dirigere lo sguardo dove nessun altro si sofferma ad osservare, è esattamente ciò che fai tu, e più in generale ciò che dovrebbe fare ogni VERO Artista (a prescindere dall’arte rappresentata).
    Per questo motivo la tua scrittura, pur essendo “fluente e traboccante”, risulta ai miei occhi essenziale, ricercata e soprattutto di qualità.
    Saprei riconoscere una tua composizione in mezzo ad altre cento.
    Proprio perché è TUA.
    P.s. Mi sono emozionato leggendoti, come sempre. Grazie.
    Un abbraccio.
    Luca.


    “Sono la segreta misteriosa selva di tronchi sommersi, a migliaia, migliaia di torsi d'Atlante anneriti da immemorabile tempo, che reggono il peso, da soli,
di quell'immenso feretro
di pietra e di marmo”.

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    1. Caro Luca,

      come capita spesso, mi sorprendi. Non ti curi della polemichetta sulle scritturebrevi, e hai ragione perché proprio non ne vale la pena, e invece ti concentri sulla composizione in sé, scoprendovi un punto di vista cui stavolta davvero non avevo pensato. Il fatto che il Gabbiano fosse in qualche modo il "protagonista" di questo racconto in versi non era assolutamente nelle mie intenzioni, e neppure lo avevo percepito come possibilità. E invece forse hai ragione tu: e allora saremmo in uno di quei casi, che io ritengo fortunati, in cui l'affabulazione, la scrittura, prende in qualche modo il sopravvento sullo scrivente, "imponendogli" direzioni inattese e sorprendenti e prteterintenzionali.
      In effetti, so bene che il Gabbiano è da sempre un personaggio di rilievo nella mia immaginazione, carico com'è di simboli ed allegorie. Il fatto che appaia anche qui, e alla fine della composizione, quindi in una posizione rilevantissima dato il mio modo di scrivere, è davvero significativo. E la tua lettura gli dà un ruolo ancor più primario, dato che assegni proprio a lui lo sguardo, la voce, la prospettiva dell'autore. Ti ringrazio infinitamente, perché ero convinto che la ragione di questa composizione fossero "le scabre murate" del titolo, vale a dire una sorta di prigione, di limite, di ristrettezza, e invece tu acutamente mi fai scoprire che forse la ragione è, ancora una volta, la libertà, quella che spinge a superare quei muri. Un tema a me carissimo.

      Un caro abbraccio

      Marianna

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    2. Lo scrivo anche qui, pubblicamente.
      Sono dalla tua parte, e lo sai benissimo.
      Io stesso non sono certo "avido" a livello di scrittura.
      Per me, la maggior parte delle "Scritture Brevi", prive di densità, non sono neppure considerabili "opere d'arte", pensa un po'.
      Qualcuno mi ha anche dato del superficiale, per questo motivo.

      "Saprei riconoscere una tua composizione in mezzo ad altre cento.
      Proprio perché è TUA."

      Con questa affermazione, ho voluto mettere in evidenza la tua unicità, la tua originalità.
      Unicità e Originalità difficilmente riscontrabili nella "scrittura breve" :
      Le "pseudo-operette" che girano on line mi pare siano TUTTE uguali.
      Poche parole estratte a sorte con dei bigliettini, unite a caso, e spacciate per ciò che non sono (ci sono regole da seguire in arte, se non vengono seguite alla lettera, è come cercare di fare la maionese con la Nutella). L'unica cosa certa è che viene fuori qualcosa di color marrone (non farmi diventare volgare).
      Prima di cimentarsi proponendo in pubblico qualsiasi forma d'arte, bisogna STUDIARLA A FONDO, essere COSCIENTI di ciò che si sta facendo.
      E' troppo facile autodefinirsi "Artisti". Tutti possono farlo.
      Ma tra dire e fare... c'è di mezzo il mare, sul quale svolazza tranquillo e beato il nostro amato Gabbiano.

      Ho inoltre aggiunto, sempre nel mio commento precedente :

      "La tua scrittura, pur essendo “fluente e traboccante”, risulta ai miei occhi essenziale, ricercata e soprattutto di qualità".

      Più di così....

      Lunga vita alla DENSITA'.

      Luca

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    3. Hehe Luca!
      Giustissimo, figurati se non eravamo daccordo su questo punto!
      Direi che non hanno neppure il relativo pregio della novità: fin dagli anni venti questo genere di letteratura lo troviamo nei biglettini dei Baci Perugina, tanto per rimanere nel settore dolciario. Solo che questi ultimi sono ormai quasi un classico, con una certa qual patina di nobiltà, ma assolutamente senza paludarsi di culturalismi d'accatto, mentre questa roba di cui parliamo al più è un McDonald's, un fast food della letteratura, cheap, scarso e indigesto...

      Marianna

      Elimina
  2. "Questa roba di cui parliamo" è paragonabile alle patatine fritte di un qualsiasi fast-food (tipo McDonald's) :
    E' fritta e rifritta SEMPRE nello stesso "olio" (ormai nero).
    Pensare di cambiare olio, utilizzarne uno nuovo (anche e soprattutto per la "salute / cultura" collettiva) ?
    Non se ne parla.
    La forza di chi promuove certe cose sui social sta proprio nella possibilità di "mimetizzarsi" all'interno della massa (la massa "non pensa e basta..."), esattamente come una banalissima patatina fritta non si nota singolarmente in mezzo alle altre presenti in una puzzolentissima friggitrice.
    Dal canto mio, preferisco di gran lunga "leggere / scegliere" un menù completo, vasto, degustato dal primo all'ultimo "piatto / verso" all'aperto in un bell'agriturismo immerso nel verde !
    Questione di gusti.

    Buon Pomeriggio, Mari.
    A te, e a tutti i tuoi lettori / lettrici.

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