Amiche care, amici,
riprendo dopo una pausa dovuta ad altri impegni la mia proposta per una micro-antologia della Poesia Americana del '900. E la riprendo con un Autore fondamentale, che ha anche costituito una svolta nella mia personale ricerca in campo poetico, Sylvia Plath, che non ha certo bisogno di presentazione, e cui ho dedicato una speciale sezione su questo stesso Blog.
È uno dei Poeti più emblematici e profondi di questa fase culturale negli Stati Unniti, ed anche una delle voci poetiche più importanti in campo mondiale, pur essendo il suo lascito mutilato dalla improvvisa, precoce e drammatica scomparsa.
La scrittura di Sylvia Plath, sia dal punto di vista formale che di contenuto, è estremamente complessa, stratificata, per alcuni aspetti enigmatica, seppure per nulla "difficile" alla lettura. Pone comunque non pochi problemi a chi voglia tradurre i suoi testi, per me rappresentano sempre un cimento, una sfida aperta. La traduzione in poesia è sempre una sfida, per certi aspetti direi anche impossibile da "vincere", ma con alcuni autori diventa talmente alta da portare alla rinuncia di una vera e propria traduzione, per cui si hanno di fronte solo due alternative: la parafrasi letterale e puramente strumentale del testo, oppure una interpretazione poetica dello stesso.
Sylvia Plath appartiene a questo gruppo, e impone sempre questa problematica (come accade anche con Emily Dickinson, che proporrò presto alla "chiusura" di questa antologia). In questo caso particolare ho scelto la via di trascurare volutamente la struttura strofica e di cercare di ricostruire il senso e la musicalità della "lingua" di Sylvia con l'artificio più classico e "nobile" della nostra lingua, l'endecasillabo.
Non è una traduzione fedelissima alla lettera, ma in sincero tentativo incarnarne lo spirito. Un poco come quando mia mamma si sedeva al pianoforte ed "interpretava" con la sua tecnica e la sua sensibilità una sonata del grande Genio Salisburghese. Una ri-creazione e l'esplorazione di un affascinante Universo poetico.
Amiche dilette, amici, vi lascio alla lettura, come sempre da parte mia, con amore.
M.P.
Sylvia Plath |
Insomniac
The night is only a sort of carbon paper,
Blueblack, with the much-poked periods of stars
Letting in the light, peephole after peephole —
A bonewhite light, like death, behind all things.
Under the eyes of the stars and the moon's rictus
He suffers his desert pillow, sleeplessness
Stretching its fine, irritating sand in all directions.
Over and over the old, granular movie
Exposes embarrassments — the mizzling days
Of childhood and adolescence, sticky with dreams,
Parental faces on tall stalks, alternately stern and tearful,
A garden of buggy rose that made him cry.
His forehead is bumpy as a sack of rocks.
Memories jostle each other for face-room like obsolete film stars.
He is immune to pills: red, purple, blue . . .
How they lit the tedium of the protracted evening!
Those sugary planets whose influence won for him
A life baptized in no-life for a while,
And the sweet, drugged waking of a forgetful baby.
Now the pills are worn-out and silly, like classical gods.
Their poppy-sleepy colors do him no good.
His head is a little interior of grey mirrors.
Each gesture flees immediately down an alley
Of diminishing perspectives, and its significance
Drains like water out the hole at the far end.
He lives without privacy in a lidless room,
The bald slots of his eyes stiffened wide-open
On the incessant heat-lightning flicker of situations.
Nightlong, in the granite yard, invisible cats
Have been howling like women, or damaged instruments.
Already he can feel daylight, his white disease,
Creeping up with her hatful of trivial repetitions.
The city is a map of cheerful twitters now,
And everywhere people, eyes mica-silver and blank,
Are riding to work in rows, as if recently brainwashed.
Sylvia Plath
May 1961
L'insonne
La notte non è altro che una specie
di carta carbone nerobluastra,
con un milione di piccoli fori
di spillo che fan passare la luce,
buchino per buchino — una luce
colore dell'ossa, come la morte,
dietro a tutto.
Sotto gli occhi delle stelle, e la luna
piena, lui sopporta il suo deserto
guanciale, e deprivato dal sonno,
sparge in ogni direzione la sabbia
sua fine e sommamente irritante.
Ancora e ancora il vecchio film sgranato
espone imbarazzanti avvenimenti —
I giorni piovigginosi d'infanzia
e della adolescenza, appiccicati
ai sogni. Visi paterni e materni
sugli alti steli, a volte severi,
a volte afflitti,
un giardino di rose — infestato
di parassiti, dove allora pianse.
La sua fronte è scabra come un sacco
di pietre. Le memorie si azzuffano
per uno spazio, come fallite starlettes.
Immune ai farmaci: blu, rossi, viola —
Come dan luce al tedio della sera
che si prolunga! Questi pianeti
di pan di zucchero, la cui influenza
le diede per qualche tempo una vita
che si poteva chiamare non vita,
e gli stupiti risvegli d'un bimbo
senza ancora memoria. I farmaci ora
sono patetici e un poco ridicoli
come gli dèi antichi, quei colori
loro da ninna-nanna, non potranno
aiutarlo mai più.
Il suo capo è un interno tutto opachi
specchi, ogni gesto si dilegua giù
per una via di prospettive in fuga,
ogni suo senso defluisce come acqua
giù dallo scarico sull'altro lato.
Lui vive esposto in una stanza senza
palpebre, aperte alla luce,
nudi spiragli oculari sbarrati,
raggelati, spalancati all'eterno
baluginare degli avvenimenti.
Per tutta notte invisibili gatti
gridano dal granito del cortile
con voci di donna o di strumenti
scordati. Già percepisce l'arrivo
della luce del giorno, la sua bianca
follia, col cappello ben colmo
di banali imitazioni.
Ormai la città è una mappa di allegri
pigolii, e d'ogni luogo persone
dagli occhi vacui di grigio metallo
vanno al lavoro tutti in fila come
fossero appena stati decervellati.
Sylvia Plath
Versione Italiana di Marianna Piani
Milano, 12 Aprile 2017
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