«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»
«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)
«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)
«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)
«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)
«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)
mercoledì 31 luglio 2013
Nello Specchio, una sera
Amiche dilette, e amici cari, una breve interruzione, ma voglio riprendere la mia pubblicazione del mercoledì.
Ci tengo, se posso, a non deludervi, se mai attendete da me qualche parola, qualche pensiero.
Quella che segue è una composizione dedicata ad una delle mie piccole ossessioni (che, a quanto pare, condivido con il grandissimo Borges): gli specchi. O meglio, l'immagine del mondo che essi ci restituiscono, apparentemente perfetta, simultanea, diretta, eppure paradossalmente lontana da noi, intangibile, un'immagine difesa da un diaframma invalicabile, pena la distruzione stessa dell'immagine. Un dipinto è un'interpretazione della realtà, oppure di un concetto, di un pensiero. Ma nello stesso tempo è un oggetto, il prodotto del lavoro di un artista, e la capacità del nostro sguardo di accettare il patto stretto con lui, di vedere in ciò che abbiamo davanti - oggettivamente una tela ricoperta di macchie di colore - luce, spazio, movimento, e anche emozione, vita, amore.
Uno specchio è l'oggettività assoluta. Eppure è anche l'assoluta menzogna. Quell'immagine sono raggi riflessi, non c'è nulla al di là di una superficie perfettamente levigata e lucida, non un'interpretazione, non un lavoro, non una tecnica di rappresentazione. Solo pura fisica.
Questo mi ossessiona da sempre, fin da bambina… Chi è quella me stessa che vedo ritratta nella cornice dello specchio? Sono io, oppure sono ciò che di me io so - o desidero - vedere? Perché a volte ho la sensazione che quell'immagine non mi appartenga, che sia un'altra Marianna, con cui io, la mia soggettività più intima, non sente di avere alcunché in comune?
Per voi, amiche care e amici, alla vostra riflessione, con amore, come sempre.
M.P.
Nello Specchio, una sera
Guardarmi, dentro lo specchio,
e vedermi, come in un ritratto,
estranea a me stessa, eppure
cosciente di essere io, quella
figura di donna scura di sguardo
e di chioma, ma così bianca
la pelle del corpo da parer morta.
Dentro lo specchio - incosciente
artista che inquadra il reale
dal nostro stesso punto di vista - esiste
un intero mondo che percepiamo,
ma che mai potremo afferrare,
e a quel mondo di raggi rifratti e riflessi
appartiene quell'altra incorporea me stessa.
Ritta sta davanti a me la figura
del tutto nuda, del tutto indifesa,
del tutto innocente, le braccia distese
lungo i magri fianchi, il ventre
un poco incavato, le mammelle tese
come tenere coppe ricolme di miele
e fragole, offerte a un dio indulgente.
I piedi ansiosi stropicciano il suolo
e le invisibili ali dietro le spalle
febbrili agitano l'aria in attesa del volo.
Tutta la vita è custodita, racchiusa
nella forma mandorlata di quella
infantile vulva, ornata di pagliuzze d'oro
e di fertili lucenti perline di giada.
Scuoto ora il capo, per sentire i grevi capelli
ricadermi sopra le spalle, e l'altra da me
ripete il gesto, con maggiore, mi pare,
sensualità e più intenso trasporto.
I miei occhi, tanto neri da non distinguere
iride da pupilla, luccicano d'angoscia e pianto.
Quelli di lei solo d'incanto, e di placato piacere.
Vorrei volare via, come ella pare ora
sul punto di fare, e fuggire dal mondo
che mi sovrasta di pene e di affanni.
Lei, dentro quel quadro un poco appannato
è soltanto una creatura aggraziata, svagata:
quale vorrei essere io, senza alcun corpo,
pura figura, solo pensiero, un singolare
raggio di luce, nella sera.
Marianna Piani
Milano, 4 Maggio 2013
(A Sonja)
martedì 30 luglio 2013
Sette giorni
Amiche dilette, amici, dopo una breve pausa riprendo questo per me prezioso ed irrinunciabile dialogo con voi.
Come qualcuno di voi sa, mi sono assentata perché ho dovuto sottopormi a controlli e cure con un breve ricovero in una Clinica. E per non usare perifrasi o equivoci, si trattava di una Clinica per infermità mentali.
Oh, non sono, o almeno non lo sono ancora, in condizione di dover essere ricoverata per un lungo periodo. La mia infermità è leggera e - a quanto pare - controllabile. Sempre che io accetti una regolare assunzione di farmaci psicoattivi per sostenere la mia coscienza ballerina.
Vi assicuro, in tutto questo non vi è nulla di attraente, o di "romantico": in Clinica ho già soggiornato più volte, per periodi diversi, e non è una novità per me, tuttavia non riesco mai ad abituarmi a ciò che provo, sia per il trattamento cui i medici mi sottopongono, sia per la vista di altri malati e di quanto una mente umana può essere distorta, oscurata, incomprensibile.
In più questa volta mi hanno precisato una diagnosi che finora era ancora non del tutto certa e confermata. A saperlo, fa un po' paura, ma mi hanno rassicurato - e nello stesso tempo tolte le illusioni, il che è sempre bene: da questa cosa non si esce, ma la si può contenere, controllare. Ci si può convivere, insomma. Alleluja…
Ho titubato molto prima di decidermi a pubblicare questa composizione, perché discende nel profondo delle mie sensazioni di disorientamento, di abbandono e solitudine, ma sento il bisogno di rendervene partecipi. Poiché questo, sappiate, questo prodotto di intelletto e ragione e follia rimescolato dagli effetti della chimica, questa roba qui, sono io.
Ho composto questi versi durante la "detenzione", chiamiamola così, in modo discontinuo, interrotta di continuo, spinta non da una cosiddetta "ispirazione", ma da una necessità violenta di esprimere parole, nel silenzio incomunicabile in cui ero immersa. Potranno forse sembrare frammentari, inorganici, anzi lo sono, certo lontani da quella che è una delle poche mie doti, la fluidità dell'eloquio, ma perdonatemi. Pensateli un poco come graffiti tracciati sui muri della cella, in attesa che il tempo trascorresse. È incredibile quanto lentamente si consuma il tempo quando si è costretti…
Amiche dilette, e amici, accettate questo mio messaggio, lanciato a voi, con rinnovato amore.
M.P.
Sette giorni
Ebbene, pazza, sono pazza.
Ufficialmente. Quattro giudici in bianco
hanno marcato la sentenza, sulla cartella:
il mio nome seguito da una fila di parole
che sembrano versi ermetici senza senso.
Gli ermetici non li amo punto, quindi
non ripeto, qui, quelle parole, mi basta
la nomea di pazza, che mi ha condotta
fin dentro queste mura odorose di etere
a fronteggiare viso a viso il mio furore.
Notti e notti trascorse a dissertare sola
con le ombre inconsistenti, oppure a sprofondare
in deliri senza voce se non lo strepito inarticolato
dell'inspiegabile dolore. In fronte a tutto questo
cos'è una fiala di veleno, una capsula, che tramortisce,
che risucchia ogni arbitrio, ogni volere?
Mille volte meno disumano questo stordimento,
trovare per qualche ora o un istante appena quiete
sopra un guanciale privo di sogni, o di visioni,
morire per qualche istante, per rivivere domani.
Si sgretolano i pezzi della mia coscienza,
come schegge da una pietra, e io ci provo
poi a raccogliere dal suolo questi frammenti
per ricomporli come tessere di un mosaico
strappato dall'abbraccio un sisma disastroso.
Ci provo, ma sfuggono di mano, si perdono
sul fondo del canalone: il mio lavorio esausto
lascerà una pioggia di lacune, non potrà
mai più ricreare intero l'azzurro del mio mare
né il prezioso oro antico del mio caro cielo.
A che vita, voi - dite - mi restituite?
Sarà una vita come tante, ora, confortata
dal bene degli affetti, dolce, appagata,
come un rivolo cristallino che dall'incontaminato
scende a valle, fino al mare, per morirvi?
Oppure una vita senza rotta e senza pregio,
com'è ora o forse peggio, una vita
regolata dalle dosi dei veleni, goccia
dopo goccia, che mi detteranno sogni
ad occhi aperti e deliri nelle notti bianche?
Gli stregoni hanno somministrato le loro pozioni
assieme al loro distaccato sguardo di commiserazione:
sarò salva ancora! Ma per quanto? Un mese? Due?
Un anno? E salva da che cosa? Da chi? Da quali spettri?
Dalla deriva della mia lancia sfasciata, tra le onde?
Alla fine, tutto è bianco, qui, come spuma d'onda:
bianchi i camici, i muri, il soffitto che mi sovrasta,
i volti delle vicine, la mia fronte piana, è bianca,
ed è bianca la notte, vuota, senza storia, né ragione
o memoria. Bianca vuota la mia mente, resa savia
dal decreto del collegio di dotti in bianco,
che mi rilascia ora nuda e sola al mondo.
La libertà ha valore, comunque avvenga!
La dote del pensiero ha un prezzo,
un viatico di lacrime da saldare, perennemente.
Non v'è amore, non v'è affetto, né devozione
che possa vincere questa lotta.
Non so, e non saprò mai se le parole, i versi,
mi scaturiranno da molecole complesse
oppure dal mio logorato appannato intelletto.
Sei giorni e sei notti perdute alla vita, abbandonate
al sonno, all'oscurità confortevole del nulla, al deserto
della mente, alla deriva della coscienza, al canto
delle sirene dell'oblio e della stanchezza. Sei giorni.
Al settimo, fu la luce...
Marianna Piani
Milano, 27 Luglio 2013
domenica 21 luglio 2013
Sensi VII
Amiche dilette, amici, chiudo oggi questo breve ciclo dedicato ai Sensi, con l'ultimo, il più estremo, il più carnale, il più profondo, quello che tutti gli altri sensi assomma in sé: il Desiderio.
Il Desiderio che ci spinge a unirci, a unire i nostri corpi dopo un faticoso drammatico dialogo tra le anime, in cerca di un'intesa che superi tutte le nostre difese, le nostre paure, le nostre incertezze, i nostri egoismi.
E il Desiderio assoluto, quello cui tutti istintivamente tendiamo, comunque sia, è quello di creare dall'Amore la Vita…
Per questo, per quanto è radicato in noi, nella nostra fisicità, l'ho considerato come il Senso di tutti i Sensi.
E per questo racconto qui di ciò che mi è accaduto, ora è non molto, quando ho incrociato al mio desiderio incompleto, inappagato, d'amore e passione, quello definitivo, esclusivo,incarnato dai una ragazza che ho amato e che mi sono illusa di avere con me per sempre. Un conflitto di gioia e di dolore, di orgoglio e di abbandono, di desiderio, appunto, e di illusione...
Dedico a voi queste parole, amiche care e amici, e all'Amore stesso, che domina la nostra vita con la sua atroce, bruciante, inarrestabile, a volte inesplicabile forza d'attrazione.
M.P.
VII
Desiderio
E venne a me, la piccola Anna dei Miracoli,
venne col suo sguardo mite, infiammato
d'un inusitato fuoco, esitando sulle parole,
ma già tutto dicendo pianamente in quel suo viso
tenero ed esile, titubante e teso, come il corpo.
Io, che l'avevo amata, un mattino d'inverno
dopo una notte di pianti, i miei, e sue carezze,
avevo intuito - nel vederla apparire allora, schiva,
lei così sottile, delicata, come un giunco - un qualcosa
nella floridezza insolita del suo acerbo seno.
. . .
Desideriamo: col nostro corpo assetato, riarso
di amore e di piacere, noi desideriamo.
con ogni cella della nostra pelle, con ogni papilla
delle nostre labbra, ogni vestibolo umido palpitante
delle nostre carni, dei nostri respiri estremi.
Sì, noi, incompiute creature, incorrotte, desideriamo,
bramiamo la completezza, e la corruttela, confondere
le secrezioni della nostra essenza dentro cavità
che ci penetrano come nelle viscere del Carso fanno
le rocce pervase di fiabeschi festoni di opale
traslucente, iridescente, sfavillante alla luce
di questa nostra torcia estrema chiamata Amore.
Desideriamo vivamente una luce, che ci guidi
verso sé, fototropiche creature quali siamo, piante
che nel fondo oscuro della foresta tristi
si struggono e si protendono di desiderio per il sole
oltre le chiome degli immensi soppalchi vegetali,
oppure come falene impazzite che s'immolano
alle lanterne, o ai fuochi notturni dei viandanti.
Il desiderio ci consuma come tizzoni nel vento.
Desideriamo sentire quel vento percorrerci i corpi.
Desideriamo sbocciare nel sole, che ci fa maturare
con le albicocche del giardino, e le ciliegie, e le prugne.
Desideriamo inebriarci al profluvio di profumi ed essenze
cantate a distesa dai roseti, e dalle siepi dei rododendri.
Desideriamo la coppa di vino rubino in cui bagnare
le nostre labbra color magenta, cogliere dal dì il mattino
come una margherita dal prato, e come un fiore
sfogliarlo, petalo per petalo, istante per istante, e vedere
lo sguardo che più d'ogni altro amiamo, amarci.
Desideriamo il nostro piacere di pelle e sangue,
di saliva e di umore, di carezze e di graffi; aprire
i nostri grembi alla Vita che in noi prorompe
come un'onda oceanica e ci travolge, ben sapendo
quanto dolore assieme al godere ci annienterà.
Il nostro tempio di carne contiene l'altare cui immolare
la vita alla vita, il fuoco che ci rende degne di dialogare
direttamente con gli dei, o con Dio stesso, o la Natura
che ci è Madre, Creazione, Genesi, Mutazione, Fato,
poiché fatale è il nostro martirio quali donne, alla Vita.
E quando il nostro desiderio più alto e sublime
giunge all'apice, alla gioia estrema, il Dolore
implacabile, il più atroce, ci apre il ventre
per dare ossigeno di vita a chi ameremo per sempre.
Così l'amore nasce, dal desiderio che il dolore squarcia.
. . .
Venne da me dunque Anna, con il suo messaggio,
come una vergine dell'annunciazione, raggiante,
e io stetti in silenzio, esitante, tra riso e pianto
tra gioia estatica e malinconico rimpianto.
Poiché lei era ora assunta, nei cieli delle stelle.
E io rimanevo a terra, le dita avvinghiate alle coltri,
lo sguardo dietro lei perduto, nel culmine di un sogno,
il peso d'un corpo inerte come d'un fantoccio inetto
di volare al suo cospetto, perdevo lei che s'avviava
a un impero a me negato, guardandomi già lontana.
Il suo sguardo era fiero, e insieme dolce, già di donna
che il desiderio ha ormai vinto. Seria in volto sfilò la veste,
si stese sul sofà e mi offrì il ventre, nudo e candido
convesso, impercettibilmente. Mi volle che ascoltassi.
Accostai l'orecchio, con tutta la dolcezza che sapevo.
L'ombra pudica della vulva sfiorava quasi le mie labbra.
Provai un'ultima inebriante vertigine di passione, ma non carnale.
Solo di purissima sconcertante tenerezza. E udii quel suono:
un lievissimo sommesso brulicare. Il suono, la voce, il canto
di migliaia di desideri, di migliaia, di milioni di amori, e di dolori.
Soltanto a noi concessi, e inflitti. E sommamente, disperatamente
desiderati.
Marianna Piani
Milano, 14 Maggio 2013
Per Anna, e Maria Sofia
sabato 20 luglio 2013
Una ragazza di Milano
Amiche care e amici, questa composizione è dedicata alla mia città di adozione, amata e detestata ma irrinunciabile ormai, e alle persone che l'abitano e la vivono.
La visione di un paesaggio, anzi di cento diversi paesaggi, com'è naturale in una città di una certa dimensione, e in questo paesaggio incastonata la visione di una persona, una ragazza, che colgo e che immagino attraversare con svelta precisione le vie e le strade trafficate, intenta nei suoi pensieri e nei suoi impegni, per nulla consapevole di essere bellissima. O forse dentro di sé in fondo ben conscia di esserlo. Come una rondine che s'alza in volo per le sue faccende, e disegna nel cielo con nonchalance la traccia elegante e musicale del suo volo inquieto.
Vorrei fermarla, guardarla negli occhi, prenderla per mano e dirle la mia ammirazione… Ma non voglio rompere l'incanto.
Questa, mie care, per me è la "mia" Milano: edifici, grigio, traffico, rumore, cieco furore della folla che quotidianamente si reca al lavoro… E questa ragazza, giovane, viva, ricca di talento, intelligente, capace di affascinarmi, di farmi innamorare con un solo sguardo, con un gesto svelto della mano…
Ho dedicato dunque queste parole a Milano, come vi dicevo, e a Mara, che mi ha direttamente ispirato questo ritratto, realizzato come uno schizzo preso dal vero; e ora le condivido con voi, amiche mie dilette e amici, come sempre, con amore
M.P.
Una ragazza di Milano
Quando penso Milano, penso le stazioni della metropolitana,
Sanbabila, Duomo, Palestro, cunicoli come ife nel sottosuolo,
termitai di individui formicolanti e stanchi. Quando penso Milano
penso ai foschi quartieri oltre i Bastioni, penso alle nebbie
senza ristoro, penso alle tramontane tese che spellano i cristalli
delle tremule finestre, penso ai veicoli in colonna come bestiame
di vetro e di ferro rassegnato al passo, e penso ai rari sparsi
balconi fioriti, così incongrui nel loro squillare colori nel grigio
che tutto ingolla, che tutto cancella. Salvo quei gerani incongrui,
figli di un sole che a tratti si affaccia, come un sovrano,
facendo balenare i cristalli delle vetrine e dei padiglioni
della Fiera. Quando vedo Milano, vedo percorsi tormentati
lungo viali sciattamente alberati, e le edicole dismesse
di cui s'è persa memoria, e i cani che annusano tristi nei parchi,
legati agli anziani che sostano fissando inerti le siepi.
Quando penso Milano, penso i porfidi sconnessi, e i lustri
righelli delle tranvie che intrappolano i ciclisti, e i muri di calce
coperti d'un intrico di graffiti dai colori insani, come è insano
il susseguirsi di edifici, di vetture e di facce, e di lussureggianti
vetrine che vomitano bagliori intermittenti sui selciati, e sui tetti
le assemblee di piccioni intenti a dialogare nei loro ignoti dialetti.
Penso agli invasi semivuoti delle spoglie dei Navigli, e le chiuse,
inerti, che non chiudono più nulla se non memorie di fango,
e le antiche foschie della pianura cruda e desolata, e le piogge,
le dense incessanti piogge che intridono le vesti, e i cuori,
e i capelli, e i pensieri, e li incollano al corpo intirizzito stanco
troppo stanco per trovare il vigore in alcun modo per reagire.
Eppure quando questa città mi avvolge con la sua amara grazia,
rivedo la figura della ragazza che traversa diritta fiera e sola
l'ampia spianata della Piazza, conscia di competerne in bellezza.
Il suo sorriso è un accento acuto sul bel viso, e acuto è lo sguardo
rivolto al mondo, acuto il mento come di felino, felinamente
procede sui suoi lievi passi di creatura di luce e ombra senza sbavature.
Non appartiene alla città questa creatura, né alle pianure,
né a me appartiene, né a voi, né a chiunque altro al mondo:
appartiene - forse - al vento che indugia tra i suoi capelli
e agita i fiori rossi della sua gonna. Appartiene al suo pensiero,
che è come il vento, libero e sincero, e come il vento
dispiega le sue vele gonfie e generose per remote inesplorate rotte.
Marianna Piani
Milano, 2 Maggio 2013
Per Mara
mercoledì 17 luglio 2013
La raggiante luna
Amiche care, amici gentili,
vi propongo oggi una composizione scaturita in una notte, dopo un breve scambio di messaggi con una amica cara, una composizione di intonazione classica, ma di ispirazione assai malinconica.
La sera è il momento in cui mi assalgono le mie ombre, i miei fantasmi, a volte i miei incubi, e assieme a questi il senso di tutti gli abbandoni, le nostalgie, le assenze, le fughe, i tradimenti, i dolorosi strappi cui la vita mi ha sottoposto, e a cui mai ci si riesce ad assuefare. Non sono l'unica in questo, lo so, ciascuno di noi - di voi - custodisce nel cuore ferite più o meno profonde, più o meno insanabili. E più avanzano gli anni, maggiore è il numero, la profondità e il dolore di queste ferite.
Sapete, non è vero che il tempo lenisce il dolore, che getta una foschia d'oblio su tutto ciò che abbiamo perduto e che mai più potremo recuperare.
È vero piuttosto che il tempo, rendendoci più coscienti e più sensibili della nostra caducità e nello stesso tempo di quanto sia unica e irripetibile la vita nostra e di chiunque amiamo, o abbiamo amato, il tempo, dicevo, depositandosi sopra di noi come un velo greve di pioggia, rende le nostre nostalgie più acute, le ferite più brucianti, le perdite più difficili da accettare.
Mi rivolgo alla Luna, poiché da sempre essa rappresenta per noi insieme il caduco e l'eterno, il ciclo della vita che si ripete e l'irripetibilità dei giorni che seguono alle notti…
La dedico a Daniela, dal cui dialogo ho colto ispirazione, e a tutte voi, amiche dilette e amici, con malinconico ma intenso amore. Come sempre.
M.P.
La raggiante luna
Guarda, la raggiante, inconsistente luna
che sovrintende le nostre solitarie
tormentate chiare disperate notti:
guarda, come si consuma
nel cercare di rischiarare le nostre
oscure vie nel mondo, guarda
come la sua luce fredda cerca
vanamente di detergere le lacrime
dei nostri occhi, di placare i singhiozzi
del nostro animo ferito, devastato,
mai domato, mai rassegnato.
Ella ci ha donato un'urna in peltro e argento
in cui serbare le bianche combuste ceneri
delle perdite che la Vita ai viventi implacabile
riserva. Ceneri che han bruciato a lungo,
a lungo alimentando la fiamma della passione,
ceneri di abbandoni, di delusioni, di follie
che consumano le menti, di partenze
senza ritorni, di devastanti mali,
di inspiegate mai accettate morti.
Ceneri di adorate persone, di amanti amati,
di chi amato ci ha riamato e poi lasciato.
Non v'è riposo al dolore che ci assale
in faccia all'uscio chiuso dall'amico,
dal fratello, dalla sorella, dalla sposa
che ci lascia per sempre deserte in cuore.
Il libro è ancora aperto sul divano,
il piatto ancora caldo sopra il desco,
le lenzuola odorano ancora della sua pelle,
l'aria vibra ancora del suo canto bello,
la sua presenza riempie ancora tanto
i nostri sogni: non v'è requie, non v'è ristoro
per la memoria nostra ormai violata e offesa.
. . .
Non ci resta che affidarci
allo sguardo tenero dell'astro
che protegge il nostro fato
di donne amate, che sanno amare.
Guarda la luna che ci osserva
tra le nubi amare della notte,
guarda grata i suoi raggi
che ci giungono a rischiarare
le stanze vuote delle nostre
anime abbandonate: il suo solo abbraccio
a volte basta a mantenerci in vita.
Marianna Piani
Milano, 30 Aprile 2013
Per Daniela - la mia Dany
lunedì 15 luglio 2013
Sensi VI
Amiche care, amici gentili,
siamo giunti al sesto appuntamento con quelli che ho chiamato i "Sensi della vita".
Lasciamo i cinque sensi "ufficiali e riconosciuti", e incontriamo il primo di quelli che, secondo me, sono i "sensi" che distinguono di più il nostro genere, tra gli umani, perché la nostra sensibiltà di donne, in millenni di cura e di ascolto dei più sottili indizi della vita di chi amiamo, li ha sviluppati in misura maggiore e più intensa.
Il primo di questi "sensi aggiuntivi" è ciò che chiamiamo familiarmente proprio "sesto senso", e che io ho voluto chiamare con più precisione "Veggenza". Ma potete chiamarlo in molti modi: premonizione, intuizione, previsione, presentimento, ma è sempre lo stesso: la capacità che abbiamo, coinvolgendo tutti i nostri sensi assieme, ed esplorando l'ambiente con la sensibilità acuta che a molte di noi è propria, di "sentire" l'avvicinarsi di un avvenimento, per quanto improvviso e imprevedibile, specialmente riguardo i nostri rapporti con le persone che più amiamo.
Non si tratta di un bel dono, o di un privilegio, questo, badate, poiché questa facoltà di visione anticipata da una parte rimane per noi nella sfera dell'inespresso, dall'altra non può in alcun modo aiutarci né a evitare l'avvenimento, né a sentirne in misura inferiore il peso, la responsabilità e il dolore. Se mai si tratta per noi di provare un'ansia e una angoscia anticipata e diffusa, come chi sappia da minimi indizi del cielo prevedere che di lì a poco il sole si sarebbe oscurato e si sarebbe scatenato un uragano. Egli non può far nulla per impedire l'uragano, nè per impedire che il turbine lo investa in tutta la sua forza. Può soltanto stringere i pugni, chinarsi in avanti, per tentare di sostenerne la violenza...
In questa composizione ho voluto essere diretta, esplicita, poiché soltanto così potevo rendere il senso del disorientamento che questa Veggenza può dare a un cuore innamorato, che percepisce i segni di una fine, di un allontanamento definitivo.
Argomento per me difficile, doloroso, che richiede un grado di esposizione sincera e totale, fino a sentire nuovamente bruciare una ferita che ritenevo ormai rimarginata.
Amiche dilette, amici cari, consentitemi di dedicare a voi queste mie parole, come sempre, e di più, con amore.
M.P.
VI
Veggenza
Compresi da come le nubi si addensavano allo zenith,
e da come il vento mi alitava il tuo nome, sì, compresi
che s'approssimava la fine della storia, e che tu
avresti presto attraversato quell'uscio, senza voltarti
nemmeno per un ultimo cenno, o un distratto conforto
al mio dolore, o per fingermi una irragionevole speranza.
Così come, già la sera prima tutto seppi da come attizzavi
la tua sigaretta, dopo una notte sia pur di passione...
Dio, quanto ho odiato, le tue sigarette, e quanto ne ho adorato
il gusto amaro, salino, nella saliva che mi davi da bere
dalle tue labbra febbricitanti, e l'odore di muschio combusto
del tuo fiato, quando mi sussurravi a voce roca tuoi pensieri.
Lo seppi dalle volute azzurre del fumo che si facevano strette,
e dal tizzone che consumava fino quasi a bruciarti le unghie
e da come il tuo sguardo si perdeva nel cielo della stanza
mentre aspiravi a fondo, ricolmandoti il seno.
E dal tuo sguardo lo seppi, senza una parola, ma vedendo
come nel fondo di un pozzo, le miglia che già s'eran scavate
tra te e me, nonostante i nostri corpi fossero tanto vicini
da percepire l'una dell'altra la febbre che ci bruciava:
tu di partire, dietro la tua vita, io di morire, privata di te.
E lo sapevo da giorni che dentro te mutavi, anche se fuori
parevi essere sempre la stessa qual eri da me incontrata
quel mattino che m'apparisti come una dea:
circonfusa dalla luce della tua bellezza e della tua sicurezza.
Lo sapevo perché lo sentivo, da come mi sfioravi la mano
non più con la tua regale fermezza, ma con titubanza furtiva,
quasi di femmina casta, quale certo non eri mai stata.
Eppure erano giorni e giorni che sentivo un'angoscia montare
dentro il mio petto, come una marea di sale, anche al di là
di ogni segno, di ogni indizio, di ogni ragionato giudizio,
presentivo le vibrazioni che precedevano il sisma, lo sconquasso,
il crollo del nostro castello, che credevo eterno - blocchi massicci
di basalto di duemila chili di massa - e invece era di carte.
Ecco, così io possedevo da sempre quel senso, senza senso,
che fa noi donne più vulnerabili alle ferite e ai tagli del Tempo.
Il medesimo senso che mostrò mamma, allorché mi guardò
lungamente, con un'indicibile silenziosa tristezza, poco prima
di partire per quel viaggio assieme al suo uomo, quel viaggio
dal quale non poteva sapere che non sarebbe mai più rientrata.
Ma in qualche modo, lei sapeva... e anch'io, oscuramente, lo seppi.
Veggenza tremenda, Veggenza maledetta. Nostra indesiderata
Signora del dolore.
Marianna Piani
Arona - Milano 15 Aprile 2013
sabato 13 luglio 2013
Stella Doppia
Amiche dilette e amici cari,
Questa è una composizione che ho scritto e dedicato ad un'amica molto, molto cara, in un momento di sconforto in cui, come mi accade oggi, desideravo fortemente la sua presenza. L'amore tra persone è una corrente gravitazionale, noi possiamo comprenderla e determinarla (o dominarla) soltanto in parte. Possiamo solo sentirne l'attrazione, e con essa sentire la privazione, quando avviene, dell'oggetto del nostro moto ad incontrarci, e a confonderci.
Care, c'è in realtà poco altro da dire, se non che anche questo breve intermezzo è nato non da una volontà letteraria, ma da un'urgenza: l'ispirazione "astronomica" è venuta da sé, forse generata inconsciamente dall'esigenza di esprimere la "dimensione" di un acuto desiderio nel momento stesso della sua "implosione".
Lo dedico a lei, la mia Mara, e a tutte voi amiche e amici, con il cuore
e, come sempre, con amore
M.P.
Stella Doppia
Vorrei tanto esserti accanto
in questi giorni di silenzioso solstizio,
vorrei essere la tua stella sorella
di un sistema binario, come Mizar e Alcor
che pulsano al settentrione di un cielo
senza riposo né tregua, divise soltanto
da dodici secondi di arco di cosmico vuoto.
Essere immersa nel tuo campo
gravitazionale, orbitare attorno al tuo fulgore,
e di quando in quando apparire
anch'io germinatrice di luce, anch'io
sterminatrice di energia, fino all'implosione irraggiante
del mio essere in orbita costante ma sempre
e per sempre attorno te assieme te sorgente e morente.
Vorrei esisterti accanto e immaginare
il nostro vagare nel quadrante remoto
della galassia, e dove impera assoluto il vuoto
inondarlo delle nostre correnti di particelle incoerenti
capaci di compenetrare ogni materia e di annullare
ogni astronomica distanza, poiché la nostra è materia
che ha sostanza di puro pensiero. Energia innocente.
L'impero del cosmo è totale, come umano e totale
è l'amore. E noi siamo mere identità colte
nel mezzo del tragitto, tra umano e ideale,
tra virtuale e divino, tra astrale e terreno.
Vorrei, quanto vorrei averti qui accanto, e starti a mirare
mentre il tuo sguardo mi osserva brillando dal nucleo
in fusione la radiazione del tuo universo ch'espande.
Marianna Piani
Nebbiuno, 13 Aprile 2013
Per Mara
mercoledì 10 luglio 2013
Dolce Signora
Amiche dilette, amici cari,
Questa breve composizione, che ha la tenera forma di un sonetto esteso, è nata, devo dire, in un momento di sconforto e di profonda stanchezza, nel corso di una delle mie infinite incessanti notti insonni. La Dolce Signora qui citata è la mia amante, un'amante esigente, che mi domina e mi possiede totalmente, silenziosa ma inflessibile, e che non mi lascia mai. Perché ella non è altra da me, è in me, è parte di me, e a quanto pare è destinata a essere così per sempre.
La dedico a due amiche che, con il loro premuroso affetto, mi aiutano nei momenti più difficili e non mi fanno sentire troppo disperatamente sola. E la dedico a tutte voi amiche care, e amici, che mi siete vicini e mi stimate, con il cuore e con amore.
M.P.
Dolce Signora
Dolce Signora, che domini la mia mente,
che nel silenzio delle sere di Novembre
oppure nel chiasso dell'estate chiami
e mi sussurri sibili suadenti di sirena.
Signora, tiranna perenne del mio destino,
che domini i miei sensi con estrema rabbia,
che imprigioni i miei arti con lacci di seta,
siedi pure al bordo del mio letto e narrami
la mia perduta libertà, il mio smarrito orgoglio,
ogni frammento della mia spezzata innocenza,
e cantami a mezzavoce carezzevoli suoni.
Tu ormai mi possiedi, e sarà per sempre,
e in questa certezza puoi concederti ormai
d'essermi clemente. Lasciami assopire, in pace.
Lascia ti prego che io possa sognare, e riposare,
finalmente, tra le tue braccia gelose anche del vento.
Cara, io potrei tradirti ormai soltanto con la Morte.
Marianna Piani
12 aprile 2013
(A Mara e Sonja)
domenica 7 luglio 2013
Sensi V
Amiche care, amici,
siamo giunti al quinto appuntamento del mio breve viaggio tra quelli che ho chiamato "i sensi della vita".
Tra tutti, il Gusto è la sensibilità più intima, più primitiva, e più profonda. A differenza di Vista e Udito, che esplorano "a distanza" grazie alla capacità di percepire ed interpretare onde elettromagnetiche e vibrazioni, e di Olfatto e Tatto, che necessitano di un contatto, ma con particelle trasportate dell'aria il primo, e una semplice pressione superficiale il secondo, il Gusto non può attivare la conoscenza ad esso affidata senza un contatto chimico profondo, la mescolanza diretta di sostanze, di umori, all'interno della nostra bocca, attraverso la nostra saliva, sulla nostra lingua, sensibile e vorace.
Un bacio è un contatto, una pressione, una carezza. Ma è soprattutto uno scambio corporeo intimissimo, per arrivare al quale occorre infrangere ogni barriera e difesa del nostro essere un individuo, ogni resistenza del nostro corpo nel proteggere la propria integrità dalla fusione nell'altro da sé.
Non c'è altro modo per trattare questo argomento che essere del tutto aperti, esposti, indifesi. Spogliarsi delle metafore, delle allegorie, delle metonimie, per provare a mettersi in comunicazione diretta, fisica, corporale, tra noi: tra chi dice e chi ascolta.
Questo faccio ora con voi, amiche dilette, amici gentili, con fiducia e, come sempre, incrollabilmente, con amore.
M.P.
V
Gusto
Hai provato, cara, nelle tiepide sere d'Estate
a passeggiare sotto i gelsi, odorosi di rose,
a spiccare dai rami le pallide molli more,
e a saggiarne la zuccherina essenza, vorace
come una vespa inebriata dal delizioso richiamo?
Hai mai teso la lingua, come fa un bimbo,
per raccogliere la stilla di miele, traslucente e dorata
come una perla d'ambra, che cola indecisa
dalla cima delle tue dita, alla ricerca di godere
solo un istante di viscoso piacere?
Rientrando dal tuo vagare nella selva di abeti
nel sereno meriggiare d'autunno, hai mai raccolto
una manciata di fragoline di bosco, minuscoli cuori
nascosti nel muschio, e aspirato l'intenso profumo
prima di goderne il succo, infantile e innocente?
E hai mai provato l'agro-dolce dialogare
del mirtillo e dei vellutati lamponi, zaffiri e rubini
sospesi sopra le asciutte sassaie delle rive
dei torrenti, o delle scarpate che bordano
i sentieri inerpicati verso le mete più ardue;
e bere senza timore il succo del ribes,
e le gelide acque ribollenti schiumanti ai piedi
della cascata, e risalire come una fanciulla
scapestrata fino ai rami più alti e sottili dei pini
marini per estrarre da dentro le loro dure scorze
gli schivi pallidi semi, per subito saggiarne
il resinoso muschiato sapore, l'hai provato?
Le uve hai saggiato, prima che diventassero vino,
e poi lo stesso vino, foriero di rischiosi abbandoni
nei suoi avvolgenti abbracci che simulano i sogni?
Hai provato una volta almeno a bagnare le labbra
nelle le onde del tuo mare, amaro mare
di deluse partenze per terre lontane
mai raggiunte prima d'annegare sfiancata
da una nuotata troppo tempestosa per le tue forze?
* * *
Il dolce, il salato, il vellutato, nulla è più intenso
e delicato in confronto alll'incontrare le tue labbra
sulle mie, qui sul belvedere delle nostre vite,
nulla come assaporare la dolcezza del tuo desiderio
inondarmi di confortante inebriante assenzio.
Nulla è come gustare le papille odorose
della rosa carnosa che si schiude soltanto a un sole
gravido di amore, e insinuarmi come un'ape
tra i petali in estasi per sentire il sapore intenso
che ha il nettare più puro della passione.
Sono arrivata a lambire il segreto bocciolo
del tuo fiore selvaggio, e ho gridato di gioia!
Marianna Piani
Milano, 28 Marzo 2013
sabato 6 luglio 2013
La lucciola
Amiche dilette, amici cari,
un dialogo, a distanza, tra donne. Dotate di una sensibilità un po' speciale. Non si sa se questa sensibilità sia più un dono oppure una pena in da sopportare. O addirittura l'origine stessa del proprio inquieto e mite male di vivere.
Io reagisco con cupezza e introspezione, anche spietata, a costo di farmi del male, e con pensieri espressi in modo fluviale, complesso, mentre nella vita appaio una ragazza magari futile, graziosa, arrampicata sui miei tacchi e avvolta dai miei vestitini corti, volutamente vistosi. Lei reagisce invece - nella scrittura - con una grande serenità di parola, musicalità di eloquio, e con una dolcezza e una invidiabile limpidezza dell'ispirazione. In cambio nella vita - mi ha confessato - si muove con difficoltà e angoscia.
Ebbene, siamo sorelle, comunque, entrambe esprimiamo un disagio tentando di alzarci in volo, entrambe, penso, ci salviamo la vita con un colpo d'ala ogni tanto.
Ho dedicato questo dialogo immaginario a lei, qualche tempo fa, ma non tanto a lei come persona, ma precisamente al suo stile, alla sua semplicità cristallina nella scrittura, che adoro.
Oggi lo condivido con voi, amiche e amici cari, come sempre e più che mai con amore.
M.P.
La lucciola
— Mamma, cos'è?
— È una lucciola, amore...
— Una lucina, mammina?
— No, cara, una lucciola, è...
come una farfalla piccina
che porta un lumino...
Vedi che va e viene?
— Va e viene, perchè?
— Lo spegne il vento
e lei ostinata lo riaccende
perchè non vuole
smarrire la via...
– Mammina, ho paura!
— Tesoro, non averne,
lei è come la tua mamma
che viene a vedere se stai bene,
la notte, avvolta nei sogni.
— Lei è una mamma?
— Sì, forse è così.
Ma adesso vola da sola,
vedi? nel buio del prato,
e forse si poserà
sul pesco già in fiore,
vedrai, lo farà...
Guardala, ora viene...
— Posso tenerla sulla mano?
— Sì cara, lasciala riposare...
— Iiiii, sembra un vermino!
— Hai visto? È una stella
quando vola, a terra invece
è solo una virgolina di pece...
— Ma scappa, scappa!
— Lasciala andare, Alice,
lasciala libera di essere stella...
Guarda, si posa sul pesco,
come ho detto, e ora
illuminerà un fiore, da dentro,
e sembrerà una fatina
di magico tulle rosa,
in cima al ramoscello più alto,
il più vicino al cielo...
Ma che fai, stupidina,
piangi, adesso?
— Mamma, è così bella,
solo perchè intorno
c'è tanto buio...
Al sole, al mattino,
non sarà più nulla?...
La mamma consolò la bimba
abbracciandola stretta.
Nessuno sapeva allora
che anche lei
sarebbe presto svanita
inghiottita
dal primo raggio d'aurora...
Marianna Piani
Milano, 10 Aprile 2013
Per Laura
Ispirata dalla sua dolcezza
e alla sua serena ispirazione
anche nella paura che attanaglia.
Con amore
mercoledì 3 luglio 2013
Elusiva è l'onda
Amiche care, amici,
Si può scrivere una lirica per il puro gusto di sentire fluire le parole, intessere pensieri come in un lavoro all'uncinetto, svagato, creare forme graziose di filo di emozione e minuscoli nodini di senso…
Così è nata questa composizione, in origine, da una sola minuscola particella di frase e dal suo suono autoreferenziale "Elusiva è l'onda…" - sentite, è come il suono dell'onda sulla spiaggia…
E poi, come sempre mi capita, la Parola ha sopravanzato la mia stessa volontà, il bisogno di esprimere l'emozione ha preso il sopravvento…
Elusiva, ho scoperto, è dunque la mia mente, sempre pronta a sfuggirmi tra le dita, come sabbia, e perdersi nella risacca, annullandosi, disperdendosi.
Vi lascio dunque con quest'onda di pensiero, perché la possiate vedere nel suo movimento, prima di scomparire tra le infinite onde che ancora giungeranno alla riva, scavandone ancora sabbia, e ancora…
Per voi, amiche dilette e amici cari, come sempre, con amore
M.P.
Elusiva è l'onda
Elusiva è l'onda che mi riempie la mano
e si ritira portando con sé minuscole valve
di morti molluschi, e i riflessi del sole
che ultimo fende di luce l'orizzonte.
Così illusori sono i pensieri, già quasi sogni,
che prendono il volo, per nulla disposti
ad esser afferrati, dopo che, come quell'onda,
hanno invaso il porticciolo e scosso ogni natante.
Così com'è elusiva la sabbia del tempo
che sfugge da ogni spiraglio del mio pugno
serrato con spasmodico fervido impegno
nel tentativo vano di contenerne il fluire.
Così come è incerto il pietrisco della riva
sotto il premere dei miei piedi nudi, titubanti
nei passi che mi conducono avanti verso
quel sole morente remoto, che a me pare vicino.
Così come passa senza punto fermarsi
in folle corsa sfrenata, il vento dentro i capelli,
insinuandovi le sue dita, a mani aperte, in quelle
che paiono carezze, ma sono rapaci rapimenti.
Ecco, così l'onda che sento ora lambirmi le caviglie
e il pietrisco, ora meno pungente sotto le piante
dei piedi, e la sabbia ormai fuggita per sempre,
e proprio in quel vento, che mi scioglie i capelli, e strappa
i pensieri, uno a uno, lasciandomi abbacinata:
tutto mi dice di esser avanzata ancora un poco
verso gli abissi che mi attraggono sempre, come sirene,
io che voglio scoprire dove il sole si cela a morire.
Elusiva, come l'onda, sono io, e la mia mente,
in questo mio, e nostro, perenne fuggire.
Marianna Piani
Milano, 9 Aprile 2013
martedì 2 luglio 2013
L'Universo. E un gatto.
Margherita Hack June 12, 1922, Florence June 29, 2013, Trieste |
Amiche care, amici,
da pochissimi giorni ci ha lasciati Margherita Hack, scienziata e donna stupenda.
Io, nata e cresciuta per così dire sotto il suo stesso cielo, il cielo di Trieste, città in cui lei si è stabilita molti anni fa e dove ha poi sempre vissuto ed operato, ho con lei un legame un poco speciale. La linea bus 15 e 16, che usavo per andare a scuola tutti i giorni, passava - e passa tuttora - proprio sotto il "suo" osservatorio astronomico, una graziosa costruzione tipicamente asburgica, un piccolo castello con una torretta in cima a un piccolo promontorio, in mezzo alle case, poco dietro il Colle di San Giusto. Io conoscevo questa eccezionale Signora per motivi familiari, anche se non ho avuto mai la fortuna di poterle parlare direttamente da adulta. Ma la immaginavo esattamente come la immagino tuttora, intenta a scrutare il cielo da dietro l'oculare di questa immensa e misteriosa macchina…
Non mi aspettavo affatto che decidesse così presto di lasciarci. Solo un anno fa scrissi una cosetta in occasione del suo compleanno "Sguardo Chiaro".
È stata una notizia che mi ha scosso profondamente, per tutti i motivi che ho detto e anche perché non può non lasciare disorientati e increduli la scomparsa di una personalità di profilo così alto. Per certe persone ci si figura una immortalità anche fisica, e ci si spiazza ogni volta che la Natura inesorabile provvede a smentirla.
Da scribacchina e grafomane quale sono, non potevo lasciare in silenzio il mio cuore, per questo ho scritto di getto queste righe, che condivido con voi, senza nemmeno attendere la mia usuale "quarantena" purificatrice. Troppo fresca è ancora la ferita. Occorre far sentire la propria voce, prima che lei si allontani troppo tra le sue galassie...
Un ricordo, assieme a voi, pensando alla sua grande predilezione, condivisa, per i gatti, con amore
M.P.
L'Universo. E un gatto.
Quanto universo c'è nella pupilla di un gatto?
Quanto infinito nel suo mobile sguardo
in cerca di prede, oppure di risposte?
Quanto è vicina la spirale di una galassia,
così simile alla visione del gatto, e alla tua,
Margherita? Nella tua vita hai valicato
ostacoli e barriere ben più invalicabili
delle nebulose - nei tuoi spazi profondi
costellati di particelle di Ragione,
privi per te di ogni mistica materia.
Cosmica realtà la visione di un gatto,
misteriosi ammassi globulari si annidano
nella notte, enigmatiche rètine tessute nell'oro
perforano l'ombra come ipotesi di conoscenza
trapassano il buio compatto di spazi interstellari
oppure di pregiudizi abissali.
Il gatto, così simile a te, scruta nell'oscurità
in cerca di indizi di senso, il gatto
ha una logica profonda nel suo libero istinto,
così come tu nell'essere libera trovi il destino
della tua umile portentosa arroganza
di donna sapiente.
Il gatto scivola senza il più trascurabile suono,
soltanto un sottile fruscio lungo il dorso,
il suo passo è la figura stessa della grazia,
e di un cosmico filosofico abbandono.
Con l'identico passo tu scivoli tra le idee,
esplorando, come una cometa che incrocia
nella propria lunghissima ellissi la rotta
di ogni corpo celeste,
lasciando che la chioma accarezzi i pianeti,
come una sconfinata sirena…
Ora sei ciò che hai sempre sognato
libera nube di particelle, scintillante
incorporeo possente profondo pensiero,
propulsa dal vento solare verso un infinito
che altri, non te, hanno chiamato divino,
ma che tu sai inconoscibile
anche dalla tua conoscenza.
Ma non il gatto, che osserva
il tuo allontanarti, silenzioso come il suo passo
tra le stelle e il divano.
Il gatto non conosce: il gatto sa.
E tu sai che lo sa: per anni invidiosa
come un'innamorata gelosa, invano
hai provato a carpirgli il segreto
per farcene dono.
Ora - da pulviscolo cosmico -
sorridi, serena...
Ora sai.
Milano, 30 Giugno 2013
Marianna Piani
Per Margherita
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