«La Poesia è Scienza, la Scienza è Poesia»

«Beauty is truth. truth beauty,- that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.» (John Keats)

«Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that.» (Martin Luther King)

«Não sou nada. / Nunca sarei nada. / Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos los sonhos do mundo» (Álvaro De Campo)

«A good poem is a contribution to reality. The world is never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everyone's knowledge of himself and the world around him.» (Dylan Thomas)

«Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo.» (Giuseppe Ungaretti)

mercoledì 29 gennaio 2014

Cinque pezzi facili - I



Amiche care, amici

qualche tempo fa un'amica per me MOLTO specale - di cui non rivelerò il nome qui per discrezione - mi fece un dono inatteso ed emozionante. Si trattava dell'incisione di alcuni pezzi classici per chitarra (tutti capolavori assoluti, da Bach, a Giuliani, a Albeniz, a Dowland) suonati da lei in persona con incredibile maestria, che andava ben al di là da ciò che ci si potrebbe aspettare da una semplice dilettante. O meglio ancora, rinnovando in certo modo quel "dilettantismo di lusso" piuttosto in uso in musica in tempo passato, prima della invenzione del fonografo e della "riproducibilità tecnica" del discorso musicale. Un tempo, l'unico modo per rappresentare la musica nel mondo, oltre al concerto pubblico in sala (o in chiesa, o alla corte di qualche potente) era quello di avere a "portata di mano" qualche talento, in grado di eseguirla per noi.
L'ascolto di un pezzo musicale riserva - almeno per me - sempre emozioni inesprimibili in altro modo se non appunto in termini musicali, ma l'ascolto di un pezzo eseguito dalle mani vive di un'amica ha qualcosa di magico, di ineguagliabile.
Naturalmente non ho potuto rinunciare all'occasione, non ho potuto non cercare di catturare al volo quelle emozioni, anche come omaggio a una persona che già stimavo e amavo in modo profondo, di cui già mi ero da tempo in qualche modo "innamorata", ma che ora mi rivelava una dimensione di sé ancora più alta e intrigante.


Ho composto dunque, una appresso all'altra, cinque brevi liriche, ognuna ispirata all'ascolto "in diretta" di uno dei brani, che poi ho raccolto in un piccolo "ciclo poetico" che ho intitolato, in modo ammiccante, "Cinque pezzi facili".
E in omaggio proprio al virtuosismo anche tecnico della mia dedicataria, ho voluto intessere questi versi attorno a un piccolo gioco, quasi enigmistico, incastonando al loro interno messaggi, pensieri e riferimenti, che qui in parte rivelerò. Solo in parte poiché alcuni rimendano esclusivamente alla interessata. È un gioco apparentemente futile, che di solito non fa parte del mio "repertorio", ma è interessante, poiché, come del resto rima e metro, "costringe" il senso a imboccare strade inusitate, aprendo a prospettive inattese, cosa che con la versificazione libera moderna, dove predomina il controllo logico (o illogico) dell'eloquio, capita di rado di scoprire.
Per iniziare, ecco il primo "pezzo" (chiamiamolo così, mutuando dalla terminologia musicale), in cui potrete riconoscere facilmente - nella seconda stanza - la dedica "interna" alla mia "Amica Amata".
I successivi li pubblicherò di seguito nei prossimi appuntamenti settimanali, condividendoli con voi, amiche dilette e amici, come sempre, con amore.

M.P.




Cinque pezzi facili

Una Offerta Musicale
(Ascoltando I.P.)


Mauro Giuliani (1781-1829)



I
"Il Sentimentale"
(da Mauro Giuliani)





I
ntimo e intenso il fluire del torrente
lascia dietro sé ciottoli variegati:
accarezzati dalle dita della corrente
risuonano come corde d'un liuto
immenso, che ha per cassa l'intera valle,
ancor sopita nell'attendere l'alba...
Procede più adagio ora il viandante
indugiando alle svolte del sentiero
ammirato ad ascoltare quel suono
nascere e crescere e propagare
arditamente fino ai valichi più alti.

Anch'egli risale le sue Alpi, il cuore
martella il ritmo del suo passo, come
in una cadenza di danza, ma ora,
come in preghiera, devotamente
ascolta, e scioglie la rimembranza.
Ammaliato, rammenta la voce cara
modulata in canto, e in parole
appassionate tessute di note scintillanti:
trama è la melodia armonia l'ordito,
ascolta, e attende il declino del giorno infinito.



Marianna Piani
Milano, Novembre 2013

domenica 26 gennaio 2014

Cattedrale


Amiche dilette, amici,

mi piace, a volte, fare come fa uno scultore nel marmo - o nel legno: ricavare la figura, l'immagine, la percezione di una emozione, una sensazione, un paesaggio o un ritratto, "cavando", togliendo dal blocco compatto di materia ciò che imprigiona la forma, per liberarla. Con l'argilla, si plasma, si aggiunge, e poi ancora si plasma. Con il bronzo - si cola la forma in uno stampo, in negativo, ma sempre ricavando il calco con la tenace ricerca del plasmare e aggiungere. Con il marmo, la pietra, il legno, si può solo scavare, incidere, con bulino, scalpello o trapano, finché si raggiunge la superficie (immaginaria) della forma, dell'organismo che si è "visto" giacere nel cuore di quella massa compatta. Dura, ostica, a volte ostile, recalcitrante a lasciarsi domare.


Se ci pensate, con la parola, in poesia - ma anche in prosa - accade un po' lo stesso.
In una lirica - o in un passo in prosa - si può aggiungere parola a parola, per comporre una descrizione, illustrare un volto, definire una emozione. Ciò è più usuale, e anche più agevole, in qualche modo.
Diverso è quando queste immagini sono così chiare, luminose, da richiedere di non ritrarle direttamente, per non rimanere abbagliati.
Allora si può tentare di comporre su ciò che "non è", di ricavare l'immagine, appunto, in negativo, descrivendo piuttosto ciò che NON si vede, ciò che eccita il nostro sguardo non tramite il riflesso fisico dei raggi di luce e colore che si imprimono, oggettivamente, sulla nostra retina, ma ciò che per analogia emerge dal nostro archivio di memoria e di sensazione, sollecitato da quella visione, da quella contemplazione.


Questa breve composizione nasce così, dopo una passeggiata in un bosco di betulle, sempre in autunno inoltrato, e il tentativo è stato quello di "descrivere" senza raffigurare.
"Cavare", dunque, nel blocco compatto di immagini e parole, e liberarne il senso e l'emozione.
Occorre solo un pizzico di audacia. E forse un poca della mia improntitudine, che voi conoscete bene, e perdonate sempre.

Con amore, come sempre, per voi

M.P.





Cattedrale


L'edificio non ha mura, non ha pareti,
non si elevano colonne, come braccia
in orazione, non ha capriate, né navate,
né archi arditi, né transetti, né vetrate
istoriate dalla luce, né mosaici d'onde
argentate e pesci a tessere vivaci
a coprire il suolo, né il cielo occhieggia
d'indulgenti cherubini o di imbronciati santi.

Riverbera una musica soave
che non è d'organo, né di canto,
non vi sono, né vi saranno mai officianti
ad alcun rito, che non sia quello ispirato
dal soffio del maestrale tra le fronde,
il profumo che si espande col vapore
non è quello dell'incenso liberato
durante un responsorio o il kyrie o il sanctus.

Non v'è folla di fedeli che s'inchina
al passaggio del divino, non v'è il braccio
giudicante che s'abbassa misericordioso
sulla fronte del penitente. La luce del mattino
taglia come lame affilate la coscienza, eppure
non v'è alcuno che s'indugi genuflesso
a pronunciare la sua preghiera: la salvezza
proviene a ognuno dalla sua saldezza.

Solitario è il viaggiatore, solitario
è il suo cammino, verticale il paesaggio,
di verticali fusti e fronde dirette al cielo
come braccia tese a implorare aiuto,
verticali sono i canti degli uccelli
commoventi come salmi giubilanti,
verticale il respiro delle felci anelanti
alla brezza del mattino, nella foresta.



Marianna Piani
Nebbiuno-Milano, 23-25 Novembre 2013

sabato 25 gennaio 2014

Smarrito il ritorno


Amiche care, amici,

Questa che segue è la traccia lasciata in me dal ricordo di una gelida notte autunnale, nel paesino poco lontano dal lago Maggiore dove a volte trascorro brevi soggiorni, abbastanza sereni, come sanno alcune delle amiche a me più vicine. Una gelida notte di primo autunno, e il retaggio fresco, la ferita ancora aperta di una delle mie delusioni più difficili da accettare. Sono questi i momenti in cui ci si vorrebbe annullare, semplicemente scomparire nel paesaggio, non tornare più alla vita quotidiana, che ci pare ormai del tutto intollerabile. Non potevo rimanere in casa, nonostante l'ora, assurda a dirlo ora, e il freddo già pungente per la stagione. Sentivo montare dentro di me una smania tale che mi avrebbe fatto scavare i muri a mani nude, se fossi stata chiusa in un luogo senza uscita. Così mi rivestii in fretta (e non avevo nemmeno abiti tanto pesanti, avevo con me soltanto una gonna, nera, e meno male che avevo nella valigetta i collants e delle scarpe chiuse) e uscii a fare una lunga passeggiata tra le case del borgo medievale.


Nei piccoli centri la notte sprofonda in un silenzio ed in una immobilità d'altri tempi, perfino l'illuminazione stradale sembra partecipare con un infiochirsi nella nebbia della luce, livida e fredda anch'essa. In contrasto, piccoli lumi ad incandescenza addossati alle case parevano fiammelle di candela, vibranti, calde. Non avevo veramente paura, è un luogo che conosco fin da bambina, e mi è così profondamente familiare da sentirmelo addosso quasi come una protezione, un abbraccio materno, Una cosa che non farei mai a Milano senza avere il cuore in gola per l'ansia, e magari anche il terrore. Ma qui mi sentivo rassicurata addirittura, anziché inquietata, dal silenzio, dalle vie e dalle calli deserte, dai piccoli negozi con le serrande gelosamente abbassate. Certo questo era anche un eccesso di fiducia, perché le "wild things", i "mostri", si possono incontrare anche in luoghi come questi. Ma a me risultava impossibile pensare che quei luoghi che amavo avrebbero mai potuto farmi del male.

Camminai dunque a lungo, molto a lungo, finchè i piedi, nelle scarpe un po' alte che avevo indossato, inadatte a quei percorsi accidentati, non si fecero sentire, riportandomi per così dire dall'astrazione del sogno e del ricordo alla realtà brutale.
Avevo bisogno di pensare, di riflettere, anche di piangere e singhiozzare, in pace, senza che vi fosse nessuno attorno a vedermi, a compatirmi o a chiedermene la ragione. Non vi era una ragione che mi sentissi in quel momento di raccontare ad alcuno. Vi era soltanto una terribile, invincibile solitudine...

Rientrai silenziosamente, molto stanca, poco prima dell'alba, e nessuno in casa si rese conto di nulla: il mondo, la mia vita, nel frattempo non era cambiato. La mia tristezza era rimasta intatta, forse anzi acuita. Ma la vita proseguiva, occorreva seguire il cammino, con pazienza e audacia, se a questo punto si era deciso di rimanere nonostante tutto aggrappate alla vita.

Come di consueto, amiche dilette e amici, condivido queste riflessioni con voi, con amore.

M.P.







Smarrito il ritorno


Lungo il portico, fino alla piazza
già deserta di traffico e faccende,
mentre il campanile, severo guardiano
del borgo, rintocca le due.

Lascio il mio corpo di donna e la sua grazia,
nello spazio di vetro racchiuso
tra la cornice e lo specchio, e vago
in forma di pensiero inespresso

tra i muri bianchi di calce e di anni, e sui selciati
a lastre sconnesse, percorsi a piedi nudi
per non incespicare sui tacchi; io vago,
non pensando a null'altro che all'antico

che qui mi accoglie. E mi opprime.
Il mio passo si fa suono, nei vicoli quieti
e nei cortili a pena illuminati da fiochi lumi,
sfiorando le imposte chiuse per la notte

o per l'abbandono. Le case s'inerpicano
lungo scoscese calli, che sono quasi sentieri,
le vigne, ormai spoglie, sfilano sui colli,
mentre io procedo, senza  fretta, in silenzio.

Che ci faccio, mi chiedo, io qui sola
a quest'ora insensata della notte,
a guardare l'ombra del mio passaggio
scivolare sulle pareti? Provo paura?

Troppa, troppo intensa la paura,
tanto da non sentirla neppure,
così come quand'è troppo alto il dolore
e la natura ci protegge, donandoci follia.

Non rammento la via, non riconosco i luoghi,
non so la meta, non ritrovo più il sogno,
né il pensiero che qui mi ha condotta,
rammento solo d'aver abbandonato la rotta.

Mi cercherai, amica mia diletta, quando finalmente
ti mancherò e t'avvederai della mia mancata presenza,
e sarà mattino, allora, poco dopo l'alba,
e mi ritroverai, forse, ancora qui ferma,

acciambellata come una gatta, sul parapetto
della fontana, semiassiderata dal vivido freddo,
ma più ancora dal dolore d'esserti lontana:
ti scongiuro, affrettati cuore, prima ch'io soccomba!



Marianna Piani
Nebbiuno-Milano, 24 Novembre 2013

mercoledì 22 gennaio 2014

Viaggio d'inverno



Amiche care, amici

era fine Novembre, e in quei giorni dovetti compiere uno dei miei purtroppo sempre più consueti "pellegrinaggi di purificazione" - diciamo così - in clinica, per rimettere in fase il mio scassato orologio mentale.
La composizione che segue altro non è che la raccolta, forse disorganica e frammentata, appena un po' limata e riassestata, dei miei appunti, presi al volo, mentre la chimica sofisticata di un cocktail di farmaci sfrucugliava il mio cervello, e uno staff di giovani medici e infermiere si occupava maternamente di me. Ma non voglio drammatizzare, non stavo così male, era solo una delle tante tappe della mia vita da pendolare della salute (mentale), e infatti, come in tutte le altre occasioni ne uscii presto, un poco istupidita, ma un po' più salda sulle mie gambe, pronta a riaffrontare il mondo.


I luoghi di detenzione ispirano sempre inevitabilmente malinconia profonda, e la sofferenza, quella direttamente provata e quella solo osservata, scava l'anima. Per cui, certo, quelli che seguono non sono pensieri improntati a spensierata allegria e contentezza. Tuttavia c'è a volte più vita nella sofferenza che in una piatta assuefazione all'agio e al buonvivere, poiché essa acutizza la nostra sensibilità, e ci rende quanto mai consapevoli di esistere. E della bellezza intrinseca della vita, che ci fa tenere aggrappate con tutte le nostre forze alla nostra esistenza, e a noi stesse, per non perderci, e per non perdere la trama e il finale del film cui stiamo assistendo da protagoniste, commedia, avventura o dramma che sia…

Per voi, questi miei appunti, come di consueto, con amore.

M.P.





Viaggio d'inverno


Si sono alzate le nebbie:
l'oscurità precoce, e il dolore
di ogni notte, seguìta,
come un segugio la pista,
dallo smarrimento dell'alba.

Individui senza nome né volto
mi assediano, pronunciano parole
che io non accolgo, sebbene
sia un idioma che riconosco:
si stringono nelle spalle, raggelanti.

O forse da sempre rassegnati.
Vi sono donne qui, come me e altre,
che sono fragili vasi travolti
nel torrente impetuoso tra i sassi
e le rocce spaccate, affioranti.

Serene come officianti arcane
si aggirano figure vestite di bianco,
oppure di verde un po' stanco:
alcune di esse mi sorridono benevole, e questo,
ho appreso da tempo, non è bene.

Riconosco due angeli, nell'ombra,
che senza farsi udire, né quasi
vedere, scivolano tra i corridoi
e le camere bianche, recando con sé
ciò che v'è di più prezioso:

la loro costanza. Come un soffio
s'adagiano sulle palpebre socchiuse
di chi non conosce più nulla
del proprio destino, né del vicino
che mugola piano un suo pianto.

Odori si fondono a sapori, e vapori
saturano l'aria, rendendo il luogo peculiare.
Una luce giallastra, perpetua, trafora
le lastre delle finestre, che sono sigilli
pneumatici al mondo di fuori.

C'è chi vorrebbe perforare i muri
come uno spirito privo di consistenza,
c'è chi vorrebbe che quei muri
lo stringessero a sé per sempre,
come una madre tenera fa.

Conosco quaggiù persone
che sono altrove, e altre persone,
m'interrogano senza parola
dai loro occhi d'acqua, o di fuoco,
con una cruda luce nelle pupille.

Crudele il luogo, crudele
la luce di cui è fatta tutta
la solitudine che ci sovrasta,
crudele il delirio impotente,
crudele il tramonto, e cruda l'alba.

Crudele ciò che è stato,
crudele ciò ch'è a venire,
crudele l'uomo, crudele la donna,
crudele l'atto che li congiunge
e crudele più che mai quello

che inesorabilmente li distingue.
Il lungo corridoio si perde
in lontane stanze oscurate
a ogni luce d'intelletto,
ove la mente non più s'avventura.

Dal fondo - distante - una voce
ripete una frase, ripete
una frase, ripete una frase,
una sola frase, ripete,
indecifrabilmente, infinite volte.

Nessuno ti ascolta, qui, voce,
chi lo facesse impietrirebbe;
invece il mormorio si fonde col fiato
della notte, come un'eco indistinta
del mio stesso pensiero.

Dio, quanto freddo abbiamo
noi anime smarrite, tra queste coltri
che riscaldano i corpi
negando calore ai cuori,
aggrumiamo le mani intirizzite,

come in un gesto di preghiera
blasfema, nel suo essere
del tutto priva di fede.
Mentre sulla strada, ora deserta,
piove senza clamore,

e l'asfalto diventa come la pelle
d'un rettile immane.
Ripartirò allora, lo so, in una sera
come questa, di pioggia senza tregua,
saluterò soltanto il mio angelo officiante.

Un buon amico mi condurrà
alla soglia di casa, e se ne andrà zitto.
Lascerò che le gocce d'acqua
s'affollino sui vetri delle finestre,
come donne al mercato, affaccendate.

Non chiuderò le imposte, resterò
anzi a guardare quel formicolio baluginante
contro il nero denso del cielo.
E il riflesso del mio volto sulla lastra:
sarà cupo, o sereno, allora?

Ogni tanto all'improvviso, come una lacrima,
una goccia lascerà la sua inerzia,
e prenderà a serpeggiare in fretta
tra le altre, come presa da una smania,
e si annienterà nel rivolo sotto il telaio.

Nulla: io sarò libera allora, libera
di fissare il mio cielo nero,
libera di lasciare sul vetro la mia scia
di memoria e di pensiero, libera
di precipitare, tra le cose, tra la gente,

e di annullarmi nel rivolo freddo

del tempo.


Marianna Piani
Milano, 21 Novembre 2013


domenica 19 gennaio 2014

tracce


Amiche dilette, amici,

ogni uomo, ogni essere lascia dietro di sé le tracce del proprio passaggio nel mondo.
Possono essere le orme impresse da un piede sull'argilla, forse destinata ad essere restituita pietrificata dopo un milione di anni, o possono essere i segni incisi sulla carta da un narratore, che traducono il suo pensiero in un segno capace di trasmetterci, a distanza anche di secoli, il senso della vita, e le sue emozioni...

Ho scelto una forma quasi da filastrocca, non ho voluto evitare rime ed assonanze, per rendere l'idea del concatenamento, del susseguirsi di queste "tracce" nel tempo e nello spazio, come altrettanti sentieri e cammini.
E lo spazio di cui parlo qui, il luogo di questi itinerari, è fondamentalmente lo spazio della memoria.

Sapete, io sono una donna semplice, come tutte voi, e sono fragile e piccolina, tanto da non imprimere facilmente le mie impronte su un terreno compatto. Eppure anch'io, qui, in queste pagine fatte di nulla, solo una nuvola di elettroni e di pixel, forse lascio una mia tenue, ma riconoscibile traccia. Che voi, con grande acutezza e sensibilità (e pazienza) seguite.


Ma la meraviglia non è questa: è che ognuno di noi prima o poi trova il suo particolare modo di lasciare nel mondo e nella storia una porpria personalissima irripetibile traccia. Non necessariamente occorre essere artisti per questo. Gli artisti sono soltanto coloro che la natura ha dotato di un'antennina speciale, in grado di percepire e di interpretare e restituire "in chiaro" a tutti queste tracce di umanità.

Per voi, come sempre, con amore. La vostra innamorata

M.P.


(P:S. Anche qui la lettera minuscola nel titolo è voluta.)







tracce


Dietro l'uomo, le sue tracce;
nella neve, o nel fango,
oppure nell'erba, un passaggio
tra le alte foglie delle felci,
o la scia della sua nave
che ferisce il mare calmo.

Non esita, il Nostromo,
a gettare la cima sopra il ponte,
il viaggiatore affronta l'alto passo
sotto il battere della pioggia
che stordisce e sfibra tanto
quanto un disperato pianto.

Lo scalpellino ha lasciato
incisi nel cuore della pietra
i segni della sua possanza
e della sua formidabile destrezza:
i nomi sulle lapidi di marmo
rimarranno, grazie a lui, per sempre

a giocarsi il tempo,
così come si perpetueranno
le distanze incise in miglia
sopra i cippi delle strade.
Il ragazzo innamorato intaglia il nome

del suo bene nella corteccia.

Resiste il legno al filo del coltello,
così come resiste la memoria
alle ferite, agli sfregi, ai tagli
delle disillusioni e dei distacchi.
Uno strumento a corde, altrove,
intesse malinconici merletti.

Il vecchio sulla sua seggiola
di paglia gialla attende il sonno
del suo tramonto, lasciando
dalla pipa d'osso bianco
un filo di fumo lungamente
disvanire nell'aria immota.

Chi scrive solca il foglio
come una goletta d'alto mare
traccia la sua rotta
sullo specchio delle acque,
la penna stride sulla carta
intridendone le vive fibre

dell'umore e sangue del poeta
rappreso in nero inchiostro.
Il giovane ribelle, ferito al volto,
lascia sull'asfalto
una scia di rosso sangue
a gridare la sua passione,

come un rivolo di fiamme.
L'uomo lascia dietro sé le tracce
lucenti, bianche, azzurre, amare,
verdi, grigie, nere o vermiglie,
raggelate e fiammeggianti
del suo impareggiabile valore umano.

Per questo ora noi al tramonto
con questo stecco di giunchiglia
incidiamo sul candido arenile
il nostro incerto discontinuo solco,
che la marea, maternamente,
riaccoglierà nel proprio grembo

e presto annullerà dal mondo.



Marianna Piani
Milano, 6/8 Novembre 2013

sabato 18 gennaio 2014

Una tartaruga d'acqua



Amiche care e amici,
eccomi a raccontare una fiaba…


Per la verità, no, non è esattamente così, diciamo piuttosto a raccontare un piccolo apologo, che m'è nato spontaneo durante una mia recente visita alla mia città natale, Trieste: durante una passeggiata avevo constatato lo stato di mascherato abbandono e deperimento in cui si trovano certe aree - in questo caso particolare il bellissimo Parco di Miramare - in cui ero solita giocare, da bambina.

Esisteva ai tempi un piccolo laghetto, nel cuore del parco, accanto alla darsena da cui salpò Massimiliano per andare a farsi ammazzare nel lontanissimo Messico (da cui anche il celebre dipinto di Édouard Manet). Qui veniva allevata una piccola colonia di cigni - bianchi ed alcuni neri, piuttosto wagneriani, ma siamo nel posto giusto - ed io bambina, accompagnata da papà, venivo di frequente alla domenica prima del pranzo, nelle belle giornate autunnali o primaverili, e distribuivo qualche bocconcino di pane raffermo che trafugavo in cucina a queste nobili creature che - per l'occasione - dimenticavano ogni dignità per azzuffarsi tra loro come se non avessero mai mangiato nulla in vita loro...

Per la verità, scusate, il laghetto in quanto tale esiste ancora, ma non esistono più i cigni - almeno io non li ho più visti -  sostituiti da qualche sparuta anatrella, versione proletaria e assai più alla mano dei grandi e solenni uccelli acquatici. Ma ciò che mi colpì fu di vedere, nell'acqua ormai tutt'altro che limpida, vagare una piccola testuggine, immagino di quelle che si vendono piccoline nei minizoo per essere torturate da qualche bambino viziato (poverine), piuttosto cresciuta e probabilmente abbandonata qui con crudeltà dal proprietario.


La visione di questo mite ed enigmatico animale, apparentemente così indifferente alla propria sorte, mi ha dettato alcuni pensieri, che qui voglio condividere con voi, amiche dilette e amici, come di consueto, con amore.

M.P.




Una tartaruga d'acqua


I giardini precipitano con studiata voluttà
verso il mare, verdi, accolti da una candida
teoria di scogli, arcuata, come la mandibola
d'un immane squalo bianco.

Questo è ciò che vede il viandante da lontano,
giungendo all'insenatura a bordo del suo battello,
oppure spingendo lo sguardo tra le macchie
di pini e querce, dalla rocca di Duino.

Da vicino, affiorano segni di un abbandono amaro:
le aiuole, un tempo rigogliose, paiono uccelli

ad ali aperte, dal piumaggio cotto al salso sole.
I gradini che calano al litorale a salti

sono ossa frantumate, che cedono a ogni passo,
gemendo sotto i piedi, digrignando tra di loro.
Il sognante laghetto che fu un tempo, è deserto,
l'acqua motosa ingombra di foglie morte, e di detriti.

Solo una tartaruga d'acqua si aggira rollando quieta
senza comprensibile intenzione, come un enigma,
appena sotto la superficie nera, increspandola piano.
Forse parla, o canta, alle alghe marcescenti

immaginando che sian ninfee. Forse sogna
il mare aperto, irraggiungibile, eppure così vicino
da poterne udire la risacca, nelle notti senza vento.
A ogni onda, risponde lo scampanellio di cento valve

sulla spiaggia di ghiaia e sassi. Così belle, così preziose:
gusci vuoti, spoglie di una vita in forma di gioielli e di ghinee.
La bizzarra sirena bruna, imprigionata nello stagno,
ha rinunciato a fuggire da immemorato tempo.

Il robusto carapace verde, umbonato, ricoperto
di muschi e alghe, la protegge dagli strali e dai morsi
dell'amore e dell'abbandono. E un poco forse anche dall'offesa
del trascorrere del tempo; nuota nell'acqua gelata ora  -


lenta - senza riposo.



Marianna Piani
Milano, 1 Novembre 2013

mercoledì 15 gennaio 2014

scorie



Amiche dilette, amici,

Quella notte non dormivo, come purtroppo spesso mi accade, e vi assicuro che se non avessi questo lenimento della scrittura che accompagna la mia vita sarebbe un tormento intollerabile, perché nel silenzio della notte, che peraltro amo molto per la sua riservatezza ed intimità, tutti i miei fantasmi e le mie angosce hanno libera via, mentre le ore gocciolano lente.
Non mi aiutano nemmeno i farmaci maledetti (e benedetti) di cui i medici mi imbottiscono, sperando così di fare di me una persona "normale" (lei signorina, mi dicono, deve sforzarsi di trovare in sé un equilibrio, deve cercare di vivere un ritmo normale, se lei non si aiuta, e non è un po' meno feroce con sé stessa, noi non potremo mai aiutarla…). Non serve, il pensiero, l'incubo di custodire dentro un unico corpo due personalità diverse, sempre in lotta tra loro, è estenuante.


Allora capita che mi alzi, mi copra con una vestaglietta, e mi affacci alla finestra a guardare il mondo. In Estate può accadere che mi vesta e decida di uscire (sì, in piena notte, un po' con il cuore in gola, ma io sono coraggiosa...). Nei mesi freddi, o nelle notti piovose, rimango alla finestra, a lasciare che il fiato appanni il vetro finché l'intera vista ne sia annebbiata.
Càpita allora di cogliere al volo uno scampolo di vita, nella notte. Poco può accadere in quelle ore, nel riquadro limitato di una finestra, in una via di Milano non particolarmente frequentata, ma a volte basta un accenno per suggerire, immaginare una storia, che si compone davanti a noi come il riflesso della nostra stessa vita.


Ecco, da scintille come queste nascono piccoli quadretti, come quello che segue. Mi siedo sul bordo del letto, e butto giù qualche riga sul mio iPad, o anche su un pezzetto di carta, poche note che poi all'alba riprendo per completarle, limarle un poco, per renderle comprensibili…

Per voi, amiche care, amici, come sempre con amore.

M.P.


(P.S. il titolo in "minuscolo" non è un refuso, è voluto)




scorie


Si ferma la vettura sul bordo
della strada, tra i detriti sedimentati
da un tempo incalcolabile di passaggi
e ripassaggi. Un lampione, solitario
come un tronco d'albero snudato
da un uragano, manda una luce
che non è luce, per quanto è violacea
e trepidante. Qualcuno fuma
in un angolo morto, non gli si scorge
il volto, chino sul mozzicone,
come se dovesse sfuggirgli dalla mano
strappato da un vento inesistente.
Una donna, dai lunghi capelli
sbionditi, gli sta accanto inconsistente,
anch'ella fumando adagio,
ma senza provarne alcun piacere,
solo segni di una angoscia, o affanno
in quel suo bel corpo proteso teso
verso il compagno senza volto.
Le gambe sottili calpestano impazienti
il gradino di pietra glabra, sulla coscia
una smagliatura indiscreta rivela
dalle calze nerofumo impolverate
un piccolo lembo di pelle bianca.
Un orologio, in qualche stanza
suona il tempo delle prime ore.

La nebbia si confonde al tabacco
in persistenti bizzarre volte,
non c'è dialogo, nel quadro,
solo sospensione di ogni gesto.
Alla fine della via i netturbini
intenti a compitare i loro mucchi
gridano tra loro voci incomprensibili.
Dunque: è questo l'unico suono
percepibile ora nell'alba, tesa
in attesa di bruciarsi presto
nel diabolico tramestio
della fabbrica febbricitante
dell'uomo e dei motori.
Ma il tempo per ora è fermo.
Il tempo ora è solo fumo nella nebbia,
che si perde in volute oziose.
Non riguarda più il tempo
questo deposito aggrumato
di memorie cauterizzate.
Graffiando l'intonaco con le dita
riemergono dipinti sfigurati
sulle pareti, simulacri
della mia fede senza dei,
delle mie illusioni rapprese
proprio come sangue
percolato da antichi tagli.

La vettura riparte, con un lamento,
e in quell'aggredire il catrame
e le pozze non v'è esitazione,
né distrazione, né perdizione.
Così le due figure degli amanti
si dileguano nella tenebrosa
voragine del mondo;
la loro storia rimane levitante
nell'aerosol della nebbia,
come tutte le storie minime
o immense che ci han sfiorato,
perdendosi nel nulla all'orizzonte.
Tra le figure e i passanti radi,
sono anch'io tutt'al più una figura
ritagliata approssimata nell'ombra;
la mia storia col tempo
si trasfigura, oppure sgoccia
sedimentandosi in colonne
di salsedine pietrificata.
Il rimpianto m'è negato, ma certo
le illusioni, le speranze, e le occasioni
si sono disseccate ormai, mutandosi
in scorie di passato, dilavate
dal tempo nelle gronde.
Di me non rimane infine
che una pallida conchiglia cava.



Marianna Piani
Milano, 31 Ottobre 2013

domenica 12 gennaio 2014

Uscire, ma piove



Amiche dilette, amici cari,

eccola, eccola qui la Marianna fluviale, fluente, irrefrenabile, era da un poco che non usciva allo scoperto! Il tema, l'ispirazione qui è però di quelle che mi trascinano e travolgono mio malgrado, abbiate pazienza...


Una mattinata autunnale, di pioggia sottile - così diversa dal mattino di sole invernale di oggi - molta malinconia, ma non solo: la voglia di uscire e di lasciarsi bagnare senza ritegno, abiti, gambe, scarpe, capelli, ma per un moto di purificazione, non di gioia scapicollata come il Gene Kelly nella New York di Singing in the Rain.
Voglia di "cantare sotto la pioggia", anche per me, in questa mia che vedete qui oggi, ma un canto ostinato e intessuto di rimpianto, e tuttavia anche privo di rimpianto. Perché quando lasciai chi fu per lunghi anni il mio uomo, dolce forte e saggio, in una giornata così simile a questa, fu per me una morte profonda, prematura, dolorosa, e insieme una rinascita, un travaglio, un parto, e come tale una luce nella mia vita. Uscivo dall'ombra dell'inganno, un meraviglioso dolcissimo inganno, per ritrovare la mia essenza, un ritrovato equilibrio finalmente, terribile, impegnativo, ed esaltante, tra la mia anima e il mio desiderio.
A distanza di tempo cerco ancora di comprendere il senso di questa mutazione, che in realtà non è una metamorfosi, ma un liberarsi da una crisalide per spiegare le ali al mondo, con tutti i rischi che ciò comporta. Non più la protezione, la serenità di uno scudo mimetico, ma il lasciarsi vivere per ciò che si è, da farfalla, se farfalle s'ha da essere.

Condivido con voi questi miei pensieri, amiche care e amici, come sempre, con amore.

M.P. 





Uscire, ma piove


Indossare la mia convinzione,
una schietta voglia di essere
ciò che sono, con quella fierezza
che a volte intravvedo, allo specchio.

Indossare il mio essere donna,
e donna essere, nell'incedere certo,
nel sentirmi osservata da cento sguardi
che m'inseguono, come ombre, fedeli.

Gli sguardi, io li amo, siano pur essi
di uomini, oppure di donne, li amo
poiché in quegli sguardi io sento vibrare
il desiderio, e il desiderio è mio sposo.

Uscire, come esce un fiore dall'erba,
come spunta un airone dal nido,
distende le ali con pigrizia, solennemente,
come i petali un giglio, irrorati di sole.

Indossare, anche, il mio coraggio,
tutta la mia audacia, la forza racchiusa
nelle mie mani, che tu mi dicevi nervose
come quelle d'un fauno, e io non capivo.

Non sapevo, come ora so, che cosa intendevi.
Indossare tutta la luce che accendevi
nel mio cuore, e il calore, il turbato calore
che accecava le mie pupille, dilatate nell'ombra.

Indossare la veste più bella, ingentilita
da una collana di perle che spicchi, sul nero
tessuto, come i denti del tuo sorriso, nella notte,
e raccogliere i capelli, come ali di corvo strette

in un nastro, ornato da una rosa di raso.
Una carezza di carminio sulle labbra,
un soffio d'ombra sulle palpebre chiuse,
un raggio solo di luce, fugace, alle guance.

Uscire. Quando invece si vorrebbe restare.
Quando ogni cosa al mondo smarrisce.
Uscire, uscire senza esitare, uscire
e seguire la donna che sono, bruna, minuta.

Sentire, sulle gambe nude sottili, pizzicare
la pioggia, fine fine, del novembre
alle porte, una pioggia che pare
un avvolgente, suadente invito all'oblio.

Ma dove sono gli oleandri, le foglie lobate blu scuro
che raccoglievano le gocce come fossero gemme?
E dove sono i viali di quei giardini intristiti,
occupati dai cani intenti a rovistare nell'erba?

Uscivo, allora, e non m'importava
se indossavo altro che non fosse la mia
disperazione, uscivo, e la pioggia sottile,
com'è ora, inzuppava i capelli, e la mente.

Momenti, lunghi, eterni, circolari momenti
in cui non sapevo in sincerità se era pioggia
ciò che sentivo scivolare sul viso, come lumache
piccine innanzi alla loro scia, oppure pianto.

Fosse pioggia, oppure pianto, lavava via
me da me stessa, e sottopelle emergeva
come da una placenta di cartilagine e bava
ancora cieca, inetta, una donna altra da me.

Io lasciavo te, e non ero io, io soccombevo,
e un'altra me stessa sorgeva, come un feto
prematuro annegato di luce, io sapevo
che non ero più io, ma non sapevo più chi ero.

Uscire, era rinascere dunque, alla vita,
era un percorso, che compivo con la gola
serrata dal groppo dei rimpianti, e addosso
una insostenibile soma di errori.

Uscire! E ti lasciavo, lasciavo il tuo sguardo
e non mi voltavo verso il balcone aperto
che sapevo deserto, lasciavo per sempre
le tue salde braccia, la tua indulgenza.

La tua pazienza. La tua tenerissima passione.
Mi possedesti, ma non mi avesti, eppure
mi completasti, lo giuro, in quegli anni brevi,
come il cielo completa d'azzurro il suo lago.

Uscire, uscire ora, e la pioggia sottile di allora
si confonde nel prato con un pianto, che ora
è solo ricordo; uscire, ma senza esitare,
silenziosamente, tenacemente. Uscire.

Ma piove. Sottile pioggia del novembre
incombente. Le gocce sulla pelle bianca
del viso, delle mani, delle gambe, bruciano
come mille minuscoli tagli sulla pelle, esangui.



Marianna Piani
Milano, 29 Ottobre 2013

sabato 11 gennaio 2014

Alberi


Amiche care, amici,

Dunque, ecco qui una composizione di tema classico, di ispirazione naturalistica, uno di quelle che amo chiamare i miei "acquerelli" in poesia.

Sapete, io di mestiere faccio l'artigiana dell'immagine, e questa formazione credo un poco si percepisca in ogni mia composizione scritta. Il mio mondo tuttavia non è la pittura, ma piuttosto l'illustrazione, il fumetto, la grafica e il film in animazione. Padroneggio molti strumenti digitali, e anche molti "tradizionali", in particolare il tradizionale, essenziale binomio "carta e matita". Ma non ho preparazione tecnica e artistica sufficiente per l'immagine pittorica vera e propria, e l'acquerello in particolare: l'aquerello, quello autentico, eseguito su cartoncino, è veramente un mezzo espressivo di una difficoltà insormontabile per me. Peccato, perché i risultati che può raggiungere in mano esperte, sono veramente emozionanti quanto a capacità di restituire la luce, l'atmosfera.
Comunque, per avvicinarmi almeno a quei risultati, io mi "accontento" della scrittura, che so padroneggiare un poco meglio. Per questo, di quando in quando, adoro lasciarmi andare a ritratti di paesaggio (o umani) veri e propri, oserei dire "oggettivi", di pura osservazione, rinunciando per qualche momento all'aspetto analitico e introspettivo della scrittura, quella lirica in particolare.
Gli alberi sono tra gli elementi in natura che amo di più, assieme alle montagne. La loro tensione verso l'alto mi emoziona, e mi attira, anzi mi commuove, la loro poderosa delicatezza. Sono dei giganti dolcissimi, dai tronchi ruvidi, forti, massicci, muscolosi, si potrebbe dire, eppure capaci di slanci d'amore e di tenerezza impareggiabili, come l'accoglierci all'ombra, sotto le loro fronde, per proteggerci dal sole diretto, troppo abbacinante, a leggere, circondate dal resto del tripudio della natura.
Giganti mansueti e delicati, di cui una creatura come me, uno scricciolo di donna, si può innamorare perdutamente.

Ecco a voi, amiche dolcissime e amici cari, per voi, i "miei" alberi, con amore, come sempre.

M.P.

(P.S. Non sono un'esperta botanica, ma di letteratura un po' sì, e vi assicuro che le essenze che qui nomino fanno parte del mio universo personale, o perché presenti e riconosciute nei miei paesaggi "reali", o perché meta delle mie lunghe "passeggiate nei boschi narrativi", per parafrasare Umberto Eco.)




Nebbiuno, 2013 (M.P. - Foto personale)



Alberi

R
adicati alberi nel mio terreno,
fieri platani, cipressi come dita
puntate al cielo, ontani allineati
lungo la mia strada, a osservare
le persone, e le ombre, avvicendarsi
tra la notte e il giorno. E betulle,
le pallide betulle, flessuose fanciulle
in attesa del vento, ai margini
della boscaglia, e nel cuore più riposto
dove osano invece le querce, fitte,
oscure e severe essenze,
offrendo i loro fusti grinzosi e vegliardi
protetti da un vello di muschio.
Da quel muschio antichi viandanti
ritrovavano la via smarrita
nelle albe livide di nebbia.
Alberi, e alberi, e alberi ancora,
gli ulivi sulle scogliere, e gli abeti,
i nobili abeti, capaci di dialogare
con le nubi più distanti, e a rincorrere
le stelle, nelle notti senza luna,
quasi a volerle sottrarre al cielo,
lasciandolo per sempre sgombro
di luce e di scintille, e di sogni.
E poi i frutteti, allineati all'appello,
i meli, gli aranceti, i minuscoli noccioli,
i fichi succosi, e i cachi,
ultimi, tardi, gonfi globi di sole
infilzati dalle ossa ischeletrite
dell'incombente inverno.
Alberi tenaci, aggrappati ai declivi,
e ai crepacci della mia mente,
capaci di reggere ai venti
e alle tempeste,
alberi baluardi, alberi stendardi,
alberi di vascelli tra le onde e le buriane,
alberi lungo i viali, alberi a dare ombra
alle ombre dei cimiteri, carpini santi,
pioppi sepolti nel gelo, salici,
fieri salici a difesa dei parchi,
cedri imponenti e miti faggeti
riuniti a dialogare con gli stormi
delle cicogne, e con nugoli di storni
migranti in fuga dalle stagioni.
Alberi, alberi, e alberi ancora,
in filari, a macchia, in foresta,
alberi che alitano profumi d'ambra,
alberi che cantano al respiro
del vento, alberi che danzano
nella tramontana, senza posa,
senza tregua, come giovani amanti,
alberi alti, alberi immensi, alberi
devoti, alberi che sono pensieri:
alberi, alberi, alberi, alberi..
il paesaggio della mia mente è
alberi, alberi grandi, alberi immensi,
e te, amore mio, più immenso ancora.



Marianna Piani
Milano, 26 Ottobre 2013

mercoledì 8 gennaio 2014

Madame la Poesia



Amiche care. amici,

Di chi parlo qui, ora, della Poesia o di un'amante? forse è la stessa cosa, in fondo. La Poesia È un amante, un amante anche crudele.
Viceversa, un'amante può essere Poesia pura, Poesia viva, e colmare la nostra vita di bellezza.

Questa composizione comunque è dedicata alla passione della mia vita, ciò che costituisce il mio mondo, ciò che mi permette di aspirare a vivere, e a convivere con la mia solitudine d'anima, con la mia diversità, con la mia complessità di femmina incompleta ma pensante, e con la mia malattia…
La Poesia si fa amare, raramente ama. Giunge presso di noi, per farci innamorare perdutamente, e non ci lascia più, anche se solo pochissimi di noi possono veramente avvicinarla, e meno ancora sono quelli che possono sfiorarla, o toccarla.
La Poesia ci prende, e non ci lascia. Una volta prese, ne saremo per sempre (felici) prigioniere, indipendentemente da se e quanto essa ci considererà degna di lei.

La dedico a voi, amiche dilette e amici, che mi date il dono della vostra attenzione, e con essa fate di me una donna che comunica con il mondo.

M.P.





Madame la Poesia


Sei giunta, inattesa, improvvisa
a farmi visita, poco prima dell'alba.
Hai scostato la tenda, ti sei affacciata
sopra il mio letto come una gatta
bonaria... No: "bonaria" non ti si attaglia.
Furtiva, e selvaggia, piuttosto, nel fondo
e per nulla disposta a lasciarti domare.

Solo di rado ti rammenti di me, crudele,
per quanto tu sappia che io vivo per te:
solo una volta ogni cent'anni
ti degni di accostarmi. Crudele, sì.
Sei alta, troppo alta per me, e muta,
il tuo sguardo distante rimane
insostenibile per chi è soltanto un umano.

Quante parole, accorate, a volte
disperate, t'ho detto, e tu le hai ignorate,
quante canzoni ho intonato qui, sotto
la tua finestra, e io scorgevo che indugiavi,
a volte, dietro la tenda, ad origliare.
Sorridevi, forse, indulgente? Oppure
alzavi le spalle sprezzante, o irridente?

Ma io, bella signora, io ti posso amare
anche se non sono riamata, così come si ama
il mormorio di un torrente, che non si potrà
mai afferrare, mai possedere, mai placare,
né mai conservare, poiché appena sfiorato
bagnando appena le dita,
é già fuggito in cerca del mare.

Tu mi concedi un breve cenno del capo.
Oppure, oh, paradiso! il tuo sorriso.
Per un istante, un solo istante, improvviso,
dopo cent'anni di inesausto servire
io, come umile sguattera al tuo palazzo.
È fausta quest'alba, allora, appagata:
la tua piccola serva potrà finalmente gioire.



Marianna Piani
Milano, 24 Ottobre 2013


domenica 5 gennaio 2014

Stella di luce, stella di sangue



Amiche dilette, amici,
scrivere dà gioia. Anche quando la scrittura serve a rimodellare e rivivere dentro di sé una perdita, un'assenza, una violazione, una ferita, e ad esprimerla al mondo.
Scrivere è come spogliarsi, denudarsi di ogni protezione, di ogni difesa. Un difficile superamento di sé stessi, e un sottile acuto piacere: gli sguardi di cento, mille persone che esplorano la nostra anima, cercando bellezza, e cercando contatto, e cercando calore. Gli sguardi delle persone danno calore. Anche se inverecondi, poiché inverecondo è lo spettacolo che diamo, di noi. Chi scrive, come me, con un impulso e un'urgenza invincibili e sinceri, cerca, necessita di quegli sguardi, e di quel calore, come una pianta necessita del sole e del suo calore per produrre i suoi fiori.
Per questo non sarò mai abbastanza grata, riconoscente, a chi - come voi - ha la sensibilità e la pazienza e la disponibilità d'animo di leggermi. E dico "leggermi" di proposito, poiché la mia scrittura, pienamente, interamente, sono io.

Quanto a questi versi, sapete, chi ci abbandona ancora amato, non sa immaginare il vuoto desolato che lascia di sé nella nostra anima, altrimenti non sarebbe in grado di farlo, anche per pura simpatia umana…

Ve li affido, amiche e amici cari, come di consueto, con amore.

M.P.





Stella di luce, stella di sangue


Non posso pensare a quanto mi sei stata vicina,
stella di vita, stella di luce, stella di sangue,
nei giorni gioiosi, nei giorni incerti, nei giorni
inzuppati di malinconia, non posso credere, ora,
a quanto stretta ho tenuta nella mia mano
la tua fragile fede, con quanta voluttà ho sfiorato
labbra su labbra la tua più segreta e rorida grazia.

Sole di campo, sole di magma, sole di sensi,
non posso senza fremere - ora - ricordare il calore
che mi dava il tuo sguardo, sciogliendo i nodi
del mio orgoglio violato, liberandomi il corpo
da catene di ghiaccio e ritegno, non posso
senza dubitare rivedere ora dentro il mio occhio
il verde raggio delle tue pupille, purissime gemme.

Quando potrò più ritrovare il rame delle tue chiome
come le rapide d'un torrente addosso al mio viso
mentre tu sopra di me, acquattata, eri pronta al balzo
e - ora so - alla fuga? Fuggire volevi, in luogo segreto,
portandomi con te, stretta tra i denti. Sublime felino.
Sottile creatura, sfili imprendibile nell'intercapedine
tra la tetra notte e la aurora futura, occhio furente.

Luna di latte, luna di pelle, diafana luna mortale
tra i mortali astri del mio pergolato, luna di lago
che si frantuma in un frullare d'ali lucenti, scintillanti,
un involarsi fitto di storni dalle ali di carta d'argento
nella notte quieta di vento. Cento, mille volte
t'ho abbracciata, gettando come un airone le ali
attorno al tuo collo, fastosa colonna che regge

il mio tempio... Il mio sconsacrato tempio, deserto…
Fate silenzio ora, pensieri. Fermatevi qui, parole. Sostate.
Incredula, guardo il paesaggio, immutato, dove tu eri
come quel fiore, laggiù, così tanto presente da sentirne
aleggiare fino a me il profumo. Rosa ferita, giglio di campo,
farfalla di seta, falco bianco, selvaggia creatura, ritorna,
torna ad essere stella, stella di sangue, mia unica stella.



Marianna Piani
Nebbiuno, 20 ottobre 2013


sabato 4 gennaio 2014

Sortilegio d'autunno

Amiche care, amici,

ritorno alla nostra consueta pubblicazione settimanale, con le liriche e composizioni tratte man mano dal mio taccuino.
Chi mi conosce sa bene quanto io ami cimentarmi in brevi descrizioni, in bozzetti a mano libera, ritraendo i piccoli dettagli della vita e della natura, che secondo me conducono sempre a riflessioni profonde e inaspettate.
La composizione che segue lo è dichiaratamente, fin dalla prima strofa. Poi, la pennellata impressionistica quasi oggettiva si espande, ed esplode nella metafora visionaria.

Non sorprendetevi se parlo in modo così "distaccato" della mia scrittura: proprio per questo - volutamente - lascio passare più tempo possibile dal momento della sua prima stesura a quello di una possibile pubblicazione. È un effetto di "straniamento", per il quale, superato il momento della "ispirazione" immediata e del coinvolgimento emotivo diretto, riesco a rileggere ciò che ho scritto come se fosse stato scritto da un'altra persona, da un'altra me stessa.
Non dico che questo mi renda un "critico" obbiettivo, naturalmente: si tratta sempre di qualcosa che mi appartiene carnalmente, e non posso non essere "di parte" nel giudicarla. O meglio, il mio "giudizio" così "distaccato" mi aiuta a scovare imperfezioni, errori o disarmonie. A volte prendo addirittura tutto, e lo getto nel cestino. Ma il più delle volte riesco a filtrare l'emozione originaria e a estrarne il meglio possibile. È un lavoro importante questo, perché non è determinato da una urgenza espressiva, dimostrativa o narcisistica, ma fondamentalmente dal rispetto nei confronti del possibile lettore. Il lettore investe una parte del proprio tempo e dedica la propria attenzione alle nostre parole e alle nostre emozioni: ha tutto il diritto di riceverle con garbo, delicatezza ed efficacia. Il che non significa "calligrafia", ma - semplicemente - chiarezza e bellezza. Proprio a questo serve la bellezza nell'Arte. Che è comunicazione portata su un livello più alto e profondo. Altrimenti sarebbe, nel migliore dei casi, giornalismo o cronaca.

Per voi, dunque, amiche dilette e amici attenti, come sempre, con amore.

M.P.




Sortilegio d'autunno


Una pozza d'acqua, solitaria, sulla careggiata
attende d'essere polverizzata dal passaggio
del primo automezzo del mattino.

Riflette essa intanto, sul pelo dell'acqua immota
appena increspata da qualche impercettibile
notturna brezza, il suo scampolo di cielo.

La pioggia, nelle ore cieche della notte,
ha colmato il suo destino, e le foglie delle querce
giacciono senza rancore nella mota.

Forse tra poco il mondo vedrà un barlume di sereno
aprirsi come un sipario che svela l'orizzonte, ma a lei
non importa, poiché allora sarà dispersa e morta.

Ora, adesso, il cielo è una tavola di piombo
che grava sopra ogni uomo o cosa come la lapide
sopra le ossa. Lei questo vede

e questo da sé riflette: fedele al suo essere qual è
una pozza nel colmo di una strada. Vi fosse almeno
un volo di falena nella luce del lampione!

Invece nulla. Soltanto un pulviscolo di nulla
sfarinato nell'umidità dell'ora, assai vicina già
alla sopravvenente alba. Eppure

ella ha fede, ostinata fede che per un istante,
per un istante appena, si attui il sortilegio
di una stella che s'accende in cielo

e del mutarsi in lei, mentre su lei s'abbatte
la ruota d'un autocarro a piena corsa,
in baluginio di schegge d'acqua pura,

così simili a una microscopica galassia.



Marianna Piani
Milano, 16 ottobre 2013
(per Sonja)

giovedì 2 gennaio 2014

Iniziare


Amiche care, amici,

avete formulato i vostri tradizionali e attesi propositi per il nuovo anno? Io, a modo mio, sì...

Oggi, per prima cosa, mi dispongo a commettere una di quelle violazioni alle mie stesse regole che di quando in quando mi concedo: pubblico una composizione "fuori programma", e per di più scritta poche ore fa, senza sottoporla alla consueta "quarantena", poiché si tratta di pensieri ispirati dall'occasione del nuovo anno che si è appena avviato.
Io credo che molti di noi sentono in questi giorni una certa urgenza di "ripartire", di riavviare i motori, di trovare una nuova via. Io sicuramente sì: archiviato questo anno dificile e doloroso, per me di svolta, in cui mi sono trovata a compiere una scelta di vita molto radicale, pur di essere me stessa senza timori ed infingimenti, ora non mi resta che il bisogno di conferma, di affermare il mio percorso, e, sopra tutto, di iniziarlo, di levare gli ormeggi e procedere lungo la rotta che il destino mi ha tracciato.

Così è nata questa composizione, in questo spirito di forte affermazione, di volontà, di progetto, di edificazione.

Condivido ora con voi questi pensieri, con l'augurio che anche per voi sia così, che possiate perseguire i vostri progetti, i vostri disegni, i vostri sogni.

Con amore.

M.P.




Iniziare


Partire, vivere, salpare,
seguire i gabbiani, nel mare
che dispiega le sue ali
di vento e di schiuma, volare
sopra le rotte polari, oltre i mondi
e le coscienze, aspirare
all'immensa distanza, e alla costanza
degli astri che ci ispirano mete
solenni e discrete.
Riprendere fiato e mutare
come le stagioni mutano i prati
che ricoprono colline e colline
di fiori di zafferano odoroso,
oppure di fili d'oro
sottratti al sole, oppure
monili d'argento dal gelo.
Aprire i cancelli
e i portali del cielo,
spalancare gli sguardi
e lanciarli come rapaci verticali
alla volta di Cerere, e Antares,
per sognare laddove
la speranza ci appare
promessa saldata.
Essere angeli santi, e sconfinare
tra i regni e i domìni del dio buono
e del dio giudicante,
trovarsi, sui confini tracciati,
e riconoscersi predestinati,
anime e corpi e sensi
confusi in una  sola sostanza
che ci sostanzia di audaci
intenzioni e temerari atti.
Essere Luna, ed essere Sole,
per spartirci il tempo alterno
tra tenebra e luce,
tra vertice e abisso,
ed essere luce, infine,
particella e pura energia,
fotone d'amore, in viaggio
verso la vita
a velocità infinita.
Essere te io - e tu me,
prodigiosa stupenda colomba,
essere fiera del nostro candore,
prenderci e darci,
come il fiume si dà al lago,
e il lago s'annulla nella palude.
Ebbene, partire, cogliere il giorno
che sorge col Sole
all'orizzonte, aggredire il cammino
passo passo, bucando la neve,
affrontando la pietraia, la ghiaia,
il petto eretto, da donna di cuore.
Partire, andare, presto,
senza indugiare,
il desiderio l'amore e ogni passione
ci investe d'ardore,
la vita invano ci fugge innanzi,
è tempo di procedere, ora:
iniziare!




Marianna Piani
Milano, 1 Gennaio 2014

mercoledì 1 gennaio 2014

Cani al parco




♥ Audrey O. ♥


Amiche care, amici

Primo giorno di un nuovo anno…

Ed è giorno di pubblicazione, nel mio piccolo ormai "tradizionale" appuntamento del mercoledì, con voi.


Mi sono chiesta a quale delle composizioni in attesa di uscire dalla loro "quarantena" sarebbe toccato essere la prima dell'anno. Avrei potuto scrivere qualcosa "d'occasione", io ho una vena piuttosto "facile" e non mi ci vorrebbe molto, ma ho preferito continuare a seguire il solito programma, e a rispettare l'ordine previsto, e casualmente è venuto il turno di questa che segue, una composizione - proprio come avrei voluto - tra le mie di tono più "leggero", nata in seguito ad una delle mie corsette mattutine al Parco di Monte Stella (per chi non lo sapesse, una collinetta artificiale tra vecchia Fiera e San Siro, a Milano, di una cinquantina di metri d'altezza, da cui si può avere un bel colpo d'occhio della città e delle montagne circostanti - se la visibilità lo consente). Qui convergono giornalmente, oltre a numerosi "runner" matti come e più di me, anche diverse persone che conducono i loro cani, cagnoni e cagnolini per la passeggiata e la cacca mattutina. Io adoro in generale tutti gli animali, i gatti magari un pochino di più, ma i cani in generale sono per me delle creature assolutamente affascinanti, in qualche modo misteriose nella loro magica dedizione.

Ho dedicato questa lirica, appena scritta, a una cagnolina deliziosa, la bellissima Audrey, di Carol, una carissima e meravigliosa amica, che approfitto qui per salutare con un abbraccio forte.

Ho piacere di condividerla proprio oggi con voi, amiche dilette e amici cari, con tutti i miei più cari e sentiti auguri e, più che mai, con amore

M.P.





Cani al parco



I cani zampettano dietro i padroni al parco,
all'alba: non potremo mai sapere - loro privilegio
sugli gli umani - cosa scorre loro nella mente
in apparenza elementare, in apparenza
puramente strumentale, oggettiva soltanto.

Una sottile pioggia imbeve i viali e le aiuole
di profumo speziato di sottobosco e di zolle,
un sentore d'erba morta e miceti marcescenti
che s'inviluppa a ogni arbusto, a ogni forma,
a ogni espressione della vita, per soffocarla

nell'imminente abbraccio dell'inverno.
I cani si aggirano trotterellando intenti,
fedeli dietro ai proprietari, o anticipandoli
sui declivi. Quelli sono i loro re, le loro guide,
i loro dei, i loro compagni, il loro mondo intero.

I nasi umidi sfiorano il terreno con alacre attenzione,
e noi mai sapremo quali mondi s'aprono inattesi
alla loro esplorazione, quali visioni il loro olfatto
rivela e svela ai loro istinti stupefatti. I loro sguardi
tradiscono pensieri, non umani, ma forse divini.

C'è del divino, di certo, nel loro incedere leggero,
e fiero, come se mille e mille anni di servaggio
fossero trascorsi invano. Un che di libertà
e di selvaggio nel pelo irto sopra il collo,
nel repentino scarto diagonale per evitare

le buche del sentiero. Una malinconia profonda
s'inarca sul loro dorso e piega il muso docile
affacciato al mondo come di fronte a un indecifrato
enigma. La sapienza dei loro passi è impressa nitida
sull'argilla della nostra storia, della nostra specie.

I cani vanno, seguendo i loro umani, fedeli, confidenti,
non li sfiora un barlume di diniego, o di disprezzo,
o di incostanza. I cani vanno, e io come loro vado
seguendo il mio Signore, il mio Padrone, il mio Dio,
fino al fondo del suo cammino, che è la mia via.

I cani vanno; io come loro seguo, lungo i viali della vita,
autunnali, trotterellando, dietro l'amore.



Marianna Piani
Per la dolce Audrey e la sua mamma Carol
Milano, 15 Ottobre 2013