I mostri sono più vicini a noi di quanto possiamo pensare.
Era un settembre come tanti, alcuni anni fa.
Abitavo a quel tempo a Monaco di Baviera, una città che avevo iniziato a frequentare per lavoro alcuni mesi prima, e di cui prontamente mi innamorai. Venendo da Milano, in cui mi ero trapiantata già da alcuni anni, mi pareva più un grosso villaggio tirolese che la grande metropoli europea che era, anche se sapevo bene che quanto ad abitanti ed estensione poteva essere avvicinata proprio a Milano, se escludiamo la cintura dell’hinterland.
Pulita, estrememente ordinata, dotata di uno dei più efficienti sistemi di trasporto pubblico che abbia mai incontrato in giro nel mondo, non soffriva nemmeno lontanamente dei problemi di traffico cui siamo assuefatti in Italia. Un sistema di metropolitana esteso e ramificato, una rete di mezzi di superficie veloce e confortevole, e in più una delle più diffuse - e frequentate — piste ciclabili che abbia mai visto. Non c’era da meravigliarsi se il traffico veicolare per tutto l’anno assomigliava a quello che abbiamo a Milano in Agosto, io stessa, che viaggiavo tra Italia e Germania in automobile, via Brennero, quando arrivavo trovavo un parcheggio vicino casa, e da quel momento potevo dimenticarmi della macchina per tutto il periodo del soggiorno.
Abitavo in un piccolo appartamento accanto alla sponda est dell’Isar, a pochi minuti a piedi dal Centro Storico. Mi bastava attraversare qualche centinaia di metri di parco, un ponte, e poi sbrigarmi tra le viuzze strette che, a raggera, conducevano alla piazza del Viktualienmarkt, la “piazza del mercato”, cuore, anzi, ventre pulsante (di birra) della città.
|
Munchen, Marienplatz |
Da qui in un attimo si era a Marienplatz, la piazza centrale, proprio sotto il Municipio.
I bavaresi di Monaco sono chiassosi ma gentili, creativi e anche un po’ sballati, ma ordinati, istintivamente disciplinati. Hanno la curiosa idea che tutti al mondo parlino tedesco, per cui sgranavano gli occhi di fronte al mio impacciatissimo tentativo di spiccicare qualche frase compiuta, ma erano molto pazienti, e anche se erano sempre restii ad ammetterlo (non ho mai capito perché) la maggiornaza di loro era in grado di conversare, o almeno di comprendere bene, l’inglese. Per cui non ebbi mai problemi autentici di integrazione linguistica.
La città, specialmente il suo centro, mi offriva uno spettacolo di opulenza quasi inimmaginabile da noi, ma in qualche modo discreta, non esibita e pacchiana, quasi alla mano, familiare. Anche senza essere milionari ci si poteva aggirare con disinvoltura tra vetrine cariche di ogni bendidio, senza sentirsi aggrediti o umiliati dalla ricchezza, come può invece capitare in certe vie centrali a Milano o a Roma. La sensazione è che a nessuno importi di te, di come sei, ma nello stesso tempo che tutti abbiano a cuore la tua esistenza, proprio esattamente l’opposto di ciò che accade ad esempio a Milano, dove tutti sembrano attentissimi alla tua apparenza, a cosa indossi, a se sei figa o meno, e nello stesso tempo a nessuno importa nulla della tua persona, come se fossi trasparente di fronte ai loro diretti e immediati interessi.
Insomma, io mi ero davvero innamorata di quella città e dei suoi abitanti, tanto che avevo seriamente accarezzato a lungo l’idea di trasferirmici definitivamente. Purtroppo non ci furono le condizioni, e dovetti rinunciare all’idea.
Ad ogni modo, a quel tempo era da diversi mesi che frequentavo e vivevo la città, e mi ci trovavo, se posso dire, come un topo nel formaggio. Mi ero presto fatta la mia rete di conoscenze e amicizie (lavoravo in uno Studio di produzione, e i “colleghi” erano solo in parte tedeschi, la compagnia era cosmopolita, la lingua comune era l’Inglese, e non ero nemmeno l’unica Italiana) e anche un “piccolo grande amore”, (destinato a non durare, ma allora non lo sapevo), una ragazza danese, bionda in modo quasi inverosimile e con le efelidi che le conferivano un aspetto irresistibilmente sexy, almeno per me.
Devo dire che fin dal mio arrivo, da mezza ebrea quale sono, sapevo bene di essere capitata nel luogo in cui Adolf Hitler iniziò la sua funesta ascesa, e sapevo altrettanto bene di essere a pochi chilometri di distanza da uno dei più famigerati Campi di Sterminio, anzi, in qualche modo il capostipite di tutti i Campi di Sterminio Nazisti.
Mi colpiva l’immenso, quasi insostenibile contrasto tra questo scenario di quieta tolleranza e di ordinata bellezza e questi fatti storici inoppugnabili. Come aveva potuto una Civiltà così alta, all’epoca certamente tra le prime e più fiorenti culture d’Europa, generare un simile mostro, che in pochi anni aveva prodotto forse la più sanguinosa guerra e il più insensato massacro di innocenti che la Storia ricordi? Questo per me rimaneva, e rimane tutt’ora, un incomprensibile mistero.
Non avendo mai avuto l’occasione di visitare uno di questi luoghi sinistramente famosi, mi ripromettevo di farlo appena possibile. Infatti si dice che una cosa è sentirne parlare, leggere sui libri, vedere testimonianze fotografiche o cinematogafiche, tutt’altra cosa è toccare con mano, fisicamente, quei ricordi, quei muri, quei selciati, e sentirsi personalmente, fisicamente, dentro quelle strutture.
Come capita sempre, il tempo scorre assai più veloce delle proprie intenzioni, e solo molto dopo decisi finalmente che era giunta l’occasione di farla, quell’escursione. Era dunque Settembre, come dicevo, un bel Settembre bavarese, con un cielo velato ma chiaro, e a squarci sereno. La mia amica si offrì di accompagnarmi. Lei c’era già stata, tempo prima, e mi disse che non sono luoghi quelli che è bene visitare da soli, e che occorreva farlo con qualcuno che ci ami e sostenga. Io pensavo che esagerasse, o che fosse un modo carino per dire che mi voleva bene, ma dovetti presto ricredermi e comprendere quanto in ciò ci fosse di vero.
Dachau
è un quieto villaggio di poco più di 40.000 abitanti a una ventina di chilometri a nordovest dal centro di Monaco. Appartato, ma non tanto distante da poterlo considerare come un luogo “separato” dalla vicina Grande Città. Per raggiungerlo, in macchina, si percorre una strada che si snoda tra verdi campi e lembi boschivi, pascoli di mucche e fattorie isolate, il paesaggio dolce e sonnolento che circonda la metropoli. Si devono attraversare alcuni incroci e seguire le indicazioni, ma non è difficile, e poi, come ho già detto, il traffico privato è sempre tranquillo in quelle zone.
Ai lati della via si addensa una fitta vegetazione, squarciata di quando in quando da un varco che dà sui campi, o su piccoli centri abitati, e anche questo è carattere comune a tutta la zona.
Io mi attendevo, prima o poi, di scorgere le costruzioni del Campo, di trovare un qualcosa di evidente che preavvisasse i visitatori in arrivo, un poco come se mi aspettassi di andare a visitare un santuario, con tutti gli aspetti scenografici e monumentali che ci si può aspettare da un luogo così drammatico, denso di significati storici e umani, reso sacro dal sacrificio di migliaia di anime.
Niente di tutto questo. Nulla, ma proprio nulla anticipava in alcun modo il nostro avvicinarsi alla meta. Tutte le costruzioni e le strutture sono gelosamente, potrei dire pudicamente celate dietro la vegetazione che le circonda, ed è possibile accorgersi di essere sul posto, sempre seguendo le indicazioni, solo all’ultimissimo momento.
Trovammo quindi facilmente parcheggio in un piccolo piazzale (ancora da lì non si vedeva nulla), quel giorno c’erano pochissimi visitatori, e ci incamminammo, mano nella mano. Non ero tranquilla, ero molto emozionata invece, e avevo il cuore in gola. Nonostante non avessi ancora visto nulla, quei luoghi mi trasmettevano, inconsciamente, una profonda e cupa angoscia. La mia compagna se ne avvide, e strinse di più la mano, come se volesse trattenermi da una caduta improvvisa.
Prima ancora di entrare, anzi, prima ancora di vedere fisicamente la struttura, il luogo mi suggerì una flotta di riflessioni e di pensieri. Prima di tutto il silenzio. Fino al quel punto io e Stine — il suo nome — avevamo chiacchierato di argomenti che non rammento, comunque irrilevanti, tanto per colmare il tempo del breve viaggio. Dal momento in cui scendemmo dalla vettura invece, rimanemmo in silenzio. E devo dire fin d’ora che rimanemmo in silenzio, a parte qualche minima comunicazione tra noi, per l’intera durata della visita. Non che non avessimo nulla da dire, da condividere, anzi, man mano che procedavamo ci assaliva una tempesta di emozioni e di pensieri. Ma il luogo, la sua atmosfera, era così imponente, sopra di noi, da schiacciarci, come la invisibile volta di una immensa cattedrale. Ci sentivamo oppresse e ammutolite, ancora nel vialetto di ghiaia che ci conduceva all’ingresso.
E poi, questo celarsi alla vista, dietro una vegetazione appena mossa da una brezza fredda, silenziosa anch’essa…
Silenzio e invisibilità. Prima che il luogo dell’infamia, dell’odio, della morte senza onore e senza pietà, pensavo,
questo è il luogo della vergogna. Lo sapevano anche i carnefici, i progettisti stessi del mattatoio, a costruirlo così, basso, appartato, sfuggente. Una architettura della malvagità vile, sconcia, deforme, da nascondere alla vista, se non alla stessa conoscenza.
Pensavo alle forche, ai roghi, alle ghigliottine, a tutti i marchingegni di brutalità e sopraffazione dell’uomo sull’uomo nella triste storia dell’umanità, e al loro scenografico apparato, tutt’altro che defilato, anzi volto a celebrare la bestialità umana con orgoglio e folle tracotanza, nelle piazze, come un rituale macabro, una festa sanguinaria.
Qui invece l’orrore era talmente estremo e inconcepibile che gli stessi autori, le stesse belve che freddamente li progettavano nei minimi dettagli, si sentivano inconsciamente sopraffatti dalla vergogna, e sentivano la necessità di nascondere, sprofondando nel loro stesso lordume.
Finalmente giungemmo all’ingresso, e lo varcammo.
Istintivamente ci lasciammo le mani: ci sembrò, a entrambe, senza forse neanche formulare il pensiero in modo cosciente, che fosse poco appropriato al luogo quella piccola espansione affettiva tra di noi. Restammo vicine una all’altra, ma ciascuna chiusa nei propri pensieri, grata semplicemente di sentire accanto a sé la presenza dell’altra.
A questo punto ho un largo intervallo di vuoto della mia memoria, solitamente molto accurata, fotografica, in particolare sui dettagli e gli ambienti. Una specie di black-out, come se fossi svenuta, o se avessi iniziato a muovermi in una specie di trance, di cui non riesco a recuperare memoria.
So di aver attraversato il grande piazzale, so di aver visitato le baracche, ricostruite e restaurate dopo la guerra, con il loro allucinante arredamento, in cui è difficile, se non impossibile, inserire un essere umano vivente, con i suoi pensieri, i suoi bisogni, i suoi desideri, i suoi sogni. Qui tutto pareva progettato con diabolica precisione proprio per cancellare, prima delle vite, ogni loro parvenza di umanità: via pensieri, bisogni, desideri, sogni. Per inviare a morte quindi carcasse ormai vuote d’anima, già morte.
Ricordo tutto questo, ma lo ricordo come se me lo avessero narrato a posteriori, non come una esperienza effettivamente e direttamente vissuta. E ricordo ancora la camminata tra due filari di alberi silenziosi, accanto ai reticolati come scheletri contro un cielo che si era fatto improvvisamente del tutto grigio. E ricordo, in fondo, a sinistra, le costruzioni, simili a un assurdo chalet, che racchiudevano le camere a gas e i forni. Sapevo, per averne letto, che quegli impianti non ebbero il tempo di essere realmente e pienamente utilizzati, complici ritardi burocratici, per cui l’aria di morte che respiravo era dentro di me, non erano forse gli spettri di migliaia di vittime che gridavano pietà da quei muri.
Ciò che mi rimane, l’impressione più viva e agghiacciante che conservo dentro di me di questa visita però non è in questi dettagli, non è nemmeno nei documenti raccolti nel piccolo museo annesso che, sempre in silenzio assoluto, visitammo. E non è nella assurda e demente contabilità e burocrazia con cui i carnefici eseguivano il loro lavoro di supplizio, umiliazione e morte che qui si può letteralmente toccare con mano.
È nella SIMMETRIA.
In quella geometrica, euclidea, ossessiva, assurda simmetria che si manifesta nell’architettura pura e semplice del campo.
Un’asse principale, la base rettangolare, un viale lungo l’asse principale, due ali simmetriche di baracche, tutte secondo un “pulito” disegno rettangolare, da razionalismo bauhausiano, la grande e nuda piazza di raduno e, a capo di tutto, il corpo principale degli “uffici”, con le due ali aperte come in un sinistro abbraccio.
Tutto questo mi ricordava, in modo vivido e preciso, la simmetria altrettanto ossessiva e maniacale di un altro luogo, apparentemente del tutto diverso, opposto si direbbe, contraddistinto questo da una scenografia opulenta, squillante come una salva di trombe: parlo del castello di Nymphenburg, il cui parco amavo frequentare appena potevo, da sola o con la mia ragazza. Un luogo di una bellezza quasi idilliaca, piante e viali curatissimi, spazi immensi e angoli di inimitabile romanticismo. Eppure anch’esso era costruito attorno a questo ferreo teorema di simmetria, in modo quasi identico, salvo per le dimensioni molto più imponenti, un asse centrale che parte dal corpo principale e attraversa l’intero, estesissimo parco, distribuendo ai lati simmetriche formazioni di aiuole, prati, boschetti, ameni laghetti con cigni e paperelle.
|
Nymphenburger_Schloss_at_sunset — By Martin Falbisoner — Own work, CC BY-SA 3.0 |
La magnificenza del Potere e la sua massima celebrazione da una parte, la vergogna del massimo abrutimento possibile di vittime e carnefici dall’altra, entrambe inserite, come conficcate nella storia da una stessa sostanziale asse di simmetria, di ordine, di sopraffazione.
Concludemmo la visita, senza dire una parola, e tornammo alla nostra vetturetta che, un poco impaurita (stava avvicinandosi l’imbrunire ormai) per essere stata lasciata sola in quel luogo, ci attendeva con impazienza.
A bordo, finalmente respirammo, e ci guardammo negli occhi, altra cosa che non avevamo fatto per tutto quel tempo. Entrambe avevamo le guance segnate dalle lacrime. No, non piangevamo apertamente, ma un nodo dentro di noi si scioglieva pian piano in lacrime. Avevamo concordato che guidasse lei, al ritorno, e fu una buona decisione, forse io ero troppo scossa per fare attenzione alla strada, mentre lei la conosceva bene.
Sentii la impellente necessità di un bacio. Non fu un bacio di passione, come di solito avveniva tra noi, ma di amore, semplicemente. Di fronte a questo incomprensibile palcoscenico d’odio, avevamo sentito il bisogno di esprimere amore, ora e subito…
Vorrei concludere aggiungendo soltanto che OGGI, proprio oggi, mentre si parla apertamente di muri, di discriminazione e di torture da uno dei più autorevoli e potenti palazzi del mondo, occorre cogliere l’occasione di questa giornata seriamente, e fuori dalle liturgie ormai stanche e automatiche per esercitare davvero la nostra memoria, che è l’unica arma che abbiamo per tentare di evitare che la Ragione torni ad assopirsi, e inizi a scatenare quei mostri che pensavamo definitivamente cancellati e ridotti al silenzio, sepolti sotto miglia di detriti di Storia.
I mostri sono molto più vicini a noi di quanto avessimo mai potuto pensare. Cerchiamo di esercitare la nostra memoria per evitare almeno che errori fatali già compiuti si possano ripetere, come pare oggi purtroppo stia avvenendo.
Un abbraccio, con amore
Marianna
.